PAROLA D’ AUTORE ⇒ T1  Theodor Adorno | La standardizzazione della popular music Nella sua critica all’industria culturale, elaborata insieme a Max Horkheimer,  Adorno sviluppa una riflessione sulla popular music, definita anche come “musica  leggera” o “pop”. Egli evidenzia come essa, soprattutto se vista in contrapposizione  alla musica classica, appaia spesso ripetitiva e basata su modelli musicali  standardizzati e come, inoltre, sia realizzata con il principale obiettivo di scalare  le classifiche di vendita. , Armando, Roma 2004, pp. 65-66, 77-78 Sulla popular music La popular music […] viene abitualmente  caratterizzata nei termini della sua differenza  dalla musica seria. Questa differenza, generalmente  data per scontata, è concepita come  una differenza di livelli considerati tanto ben  definiti da potersi giudicare i valori in essi  racchiusi come assolutamente indipendenti  gli uni dagli altri. […] Ad un giudizio chiaro  circa la relazione tra la musica seria e quella  popular si può arrivare solo prestando specifica  attenzione alla caratteristica fondamentale di  quest’ultima: la standardizzazione […]. La standardizzazione strutturale mira a reazioni  standardizzate. L’ascolto della musica  popular consapevolmente trasformato, non  solo dai suoi promotori ma per così dire dalla  natura intrinseca di questa stessa musica, in  un sistema di meccanismi reattivi totalmente  antagonistici all’ideale di individualità in una  società libera e liberale. […] La composizione ascolta per conto dell’ascoltatore. Questo è come la popular music spoglia l’ascoltatore della sua spontaneità e promuove riflessi condizionati. Non solo non gli chiede lo sforzo di seguire il suo flusso concreto, ma  gli offre effettivamente gli stessi modelli entro  cui ciò che di concreto ancora rimane possa  ricondursi. La costruzione schematica detta  le condizioni a cui egli deve ascoltare mentre,  allo stesso tempo, rende inutile ogni sforzo  nell’ascolto. La musica popular è “predigerita”  in un modo che ricorda da vicino la moda dei  del materiale a stampa. È questa struttura  digests della popular music contemporanea ciò  che in ultima analisi spiega quei cambiamenti  nelle abitudini di ascolto che dovremo discutere  più avanti. […] L’imitazione offre uno spunto per arrivare a  comprendere queste ragioni. Gli standard musicali  della popular music sono stati originariamente  sviluppati da un processo competitivo.  Quando una particolare canzone otteneva un  grande successo, centinaia di altre prendevano  ad imitarla. I pezzi di maggior successo, i loro  tipi e le “proporzioni” tra singoli elementi in  esse racchiuse, furono così imitati, e il processo  è culminato nella cristallizzazione di standard.  In condizioni centralizzate come quelle che  esistono oggi questi standard si sono “congelati”.  Vale a dire, sono stati fatti propri dai cartelli,  l’esito finale di un processo competitivo,  e rigidamente applicati su materiale da promuovere. La non accettazione delle regole del  gioco è divenuta la base per l’esclusione.  I modelli originali che sono adesso standardizzati  si sono sviluppati in un processo più  o meno competitivo. La concentrazione economica  su larga scala ha istituzionalizzato  la standardizzazione, rendendola d’obbligo. Come risultato, le innovazioni di individui  poco ossequiosi sono state messe al bando. Ai  modelli standard è stata concessa l’immunità  della grandezza: “il re non può sbagliare”. È  questo che spiega tra l’altro le riprese di vecchi  pezzi nella popular music. Questi non hanno  ancora il carattere trito di prodotti standardizzati  costruiti sulla base di un qualche modello.  Il respiro di una libera competizione è in essi  ancora vivo. D’altra parte, i vecchi pezzi di successo  che vengono riportati in vita definiscono  i modelli che sono divenuti standard. Essi rappresentano  l’età dell’oro delle regole del gioco. Rispondi A che cosa è contrapposta la musica popular secondo  1. Adorno? Che cosa significa che la popular music è “predigerita”? 2.  >> pagina 169  ⇒ T2  Herbert Marcuse | Lo Stato del benessere In questo brano Herbert Marcuse sottolinea che la società o Stato del benessere  mette a disposizione dei cittadini una serie di vantaggi e comfort materiali, ma a  discapito delle libertà individuali. Se, dunque, lo Stato offre ai cittadini tutta una  serie di servizi e beni materiali che ne migliorano l’esistenza, perché mai – si chiede  Marcuse – i cittadini dovrebbero essere motivati a chiedere dei cambiamenti in  vista di una maggiore autonomia di pensiero? , Einaudi, Torino 1967, pp. 68-69 L’uomo a una dimensione La tarda società industriale ha accresciuto  piuttosto che ridotto il bisogno di funzioni  parassitarie ed alienate (per l’insieme della  società se non per l’individuo). La pubblicità,  le relazioni pubbliche, l’indottrinamento, l’obsolescenza  pianificata non rappresentano più  spese generali improduttive ma sono piuttosto  elementi dei costi base di produzione. Al fine  di essere efficace, tale produzione di spreco socialmente  necessario richiede una continua razionalizzazione,  ossia l’impiego incessante di  tecniche avanzate e di conoscenze scientifiche. Ne segue che un sempre più elevato tenore di  vita è il sottoprodotto quasi inevitabile della  società industriale manipolata politicamente,  una volta che un certo livello di arretratezza sia  stato superato. La crescente produttività del  lavoro crea una sempre più ampia eccedenza  di prodotto il quale, sia esso appropriato e distribuito  dai privati o dal centro, permette un  aumento dei consumi ad onta delle diversioni  sempre più marcate imposte alla produttività. Fintanto che prevale questa combinazione,  essa riduce il valore d’uso della libertà; non  v’è alcuna ragione di insistere sulla autodeterminazione  quando la vita amministrata è cosi  confortevole, è anzi la «buona» vita. È questo  il terreno razionale e materiale su cui si fonda  l’unificazione degli opposti, il comportamento  politico unidimensionale. Su questo terreno le  forze politiche trascendenti che esistono   entro la società sono bloccate, ed un mutamento  qualitativo appare possibile soltanto come  mutamento proveniente . dall’esterno Respingere lo Stato del benessere a favore di  un’idea astratta della libertà è cosa che convin ce poco. La perdita delle libertà economiche e  politiche che furono le vere conquiste dei due  secoli precedenti può sembrare un danno da  poco in uno stato capace di rendere sicura e  confortevole la vita amministrata. Se gli individui  sono soddisfatti, al punto d’esser felici,  dei beni e dei servizi loro offerti dall’amministrazione,  perché mai dovrebbero insistere per  avere istituzioni differenti capaci di produrre  in modo differente beni e servizi differenti? E  se gli individui sono precondizionati, di modo  che i beni che li soddisfano includono pure  pensieri, sentimenti, aspirazioni, perché mai  dovrebbero voler pensare, sentire, ed esercitare  l’immaginazione da soli? Rispondi Qual è il giudizio di Marcuse sul consumo? 1. Che cosa produce la società del benessere sulle  2. libertà politiche secondo Marcuse?  >> pagina 170  ⇒ T3  Robert Ezra Park e Ernest Watson Burgess | Le città Park e Burgess sono stati tra i primi studiosi a puntare l’attenzione sulle implicazioni  sociali dell’urbanizzazione e, in particolare, del modello di vita tipico delle  città moderne. In questo brano essi mettono in luce che la città produce al proprio  interno realtà frammentate e differenti tra loro e che, proprio per questo, la vita  cittadina esercita attrazione e fascino particolari. , Edizioni di Comunità, Torino 1999, pp. 38-39 La città Le grandi città sono sempre state il crogiolo  di razze e di culture; dalle intense e sottili  inter-azioni, di cui hanno costituito il centro,  sono sorte le razze e i tipi sociali più recenti. Le metropoli degli Stati Uniti, per esempio,  hanno tolto dall’isolamento dei loro villaggi  nativi grandi masse delle popolazioni rurali  dell’Europa e dell’America. Sotto la pressione  dei nuovi contatti le energie latenti di queste  popolazioni originarie si sono scatenate e i più  sottili processi di inter-azione hanno prodotto  non soltanto tipi professionali, ma anche tipi di  temperamento. I trasporti e le comunicazioni  hanno prodotto, tra molti altri mutamenti silenziosi  ma di grande portata, ciò che ho chiamato  la «mobilitazione dell’individuo». Essi  hanno moltiplicato per l’individuo le possibilità  di contatto e di associazione con i suoi simili,  ma hanno reso questi contatti e queste associazioni  più transitori e meno stabili. Gran parte  degli abitanti delle grandi città, compresi coloro  che risiedono in case popolari e in appartamenti,  vivono come gli ospiti di certi grandi  alberghi: si incontrano, ma non si conoscono  tra loro. Da ciò consegue la sostituzione di relazioni  fortuite e accidentali alle associazioni più  intime e permanenti delle comunità minori. In queste circostanze la posizione dell’individuo  viene determinata in grado considerevole  da simboli convenzionali, cioè dalla moda e  dalla «facciata»; e l’arte della vita si riduce in  larga misura a camminare sul filo del rasoio e  allo studio scrupoloso dello stile e delle maniere.  Non soltanto i trasporti e le comunicazioni, ma  anche la separazione della popolazione urbana  tendono ad agevolare la mobilità dell’individuo. I processi di separazione creano distanze morali  che trasformano la città in un mosaico di  piccoli mondi che si toccano, ma non si compenetrano.  Ciò consente agli individui di passare  rapidamente e facilmente da un ambiente morale  all’altro, e incoraggia l’affascinante ma pericoloso  esperimento di vivere allo stesso tempo  in mondi diversi contigui, e tuttavia fortemente  separati. Tutto questo tende a conferire alla  vita cittadina un carattere superficiale e casuale,  a complicare le relazioni sociali e a produrre  nuovi e divergenti tipi di individui. Nello stesso  tempo, ciò introduce un elemento casuale e avventuroso  che si aggiunge allo stimolo della vita  cittadina, conferendole una particolare attrattiva  per le giovani e fresche energie. Il fascino delle grandi città è forse una conseguenza  di stimoli che agiscono direttamente  sui riflessi e – quale tipo di comportamento  umano – può essere spiegato come una specie  di tropismo, come l’attrazione della falena alla  fiamma. Tuttavia l’attrazione per la metropoli è dovuta,  in parte, al fatto che a lungo andare ogni individuo trova, tra le varie manifestazioni della  vita cittadina, il tipo di ambiente in cui può  svilupparsi e sentirsi a proprio agio; in breve,  egli trova il clima morale da cui la sua peculiare  natura trae gli stimoli che conferiscono  un’espressione completa e libera alle sue disposizioni  innate. Si può ritenere che moventi di  questo genere abbiano la loro radice non già  nell’interesse e neppure nel sentimento, ma in  qualcosa di più profondo e originario che spinge  molti, se non la maggior parte dei giovani,  uomini e donne, dalla sicurezza delle loro case  di campagna alla grande confusione e all’esplosiva  eccitazione della vita cittadina. In una piccola  comunità l’uomo normale, l’uomo privo  di eccentricità o di ingegno, sembra disporre  di maggiori probabilità di successo. La piccola  comunità spesso tollera l’eccentricità; la città, al  contrario, la ricompensa. Nella piccola città il  criminale, l’anormale e l’uomo d’ingegno non  trovano quelle stesse possibilità di sviluppare le  loro disposizioni innate, che essi trovano invariabilmente  in una grande città. Rispondi Che cosa distingue, secondo gli autori, la vita della  1. città da quella della campagna e della piccola  comunità? Perché gli individui più eccentrici trovano nella  2. città un ambiente più adatto al loro carattere?  >> pagina 172  ⇒ T4  Erving Goffman | La ribalta e il retroscena Uno dei tratti caratteristici della sociologia elaborata da Goffman è quello di utilizzare  la metafora del teatro per descrivere l’interazione sociale: vi è una “ribalta”  in cui le persone offrono una particolare rappresentazione pubblica di se  stessi, e un “retroscena”, in cui invece ci si può rilassare ed essere se stessi. In  questo breve estratto, l’autore descrive proprio alcune caratteristiche che in teatro  differenziano la ribalta e il retroscena. , il Mulino, Bologna 1969, pp. 128-133 La vita quotidiana come rappresentazione Se prendiamo in considerazione una particolare rappresentazione è talvolta utile servirsi del termine “ribalta” per indicare il luogo dove si svolge la rappresentazione. Abbiamo già accennato come l’equipaggiamento semantico fisso proprio di tale luogo costituisce quella parte della facciata che viene chiamata “scena”: osserveremo ora come certi aspetti della rappresentazione sembrino esser eseguiti non tanto per il pubblico quanto per la ribalta. La rappresentazione di un individuo sulla ribalta può esser considerata come un tentativo per mostrare che la sua attività entro quel territorio segue certe norme. […] Quando si svolge un’attività in presenza di altre  persone, l’espressione di alcuni aspetti viene  accentuata, mentre altri aspetti che potrebbero  screditare l’impressione voluta vengono soppressi.  È chiaro che i fatti accentuati appaiono  in quella che ho chiamato ribalta e dovrebbe  essere altrettanto chiaro che ci può essere un  altro territorio – chiamiamolo retroscena –  dove fanno la loro comparsa i fatti che sono  stati soppressi. Nei confronti di una data rappresentazione  il retroscena può esser definito  come il luogo dove l’impressione voluta dalla  rappresentazione stessa è scientemente e sistematicamente  negata. Le funzioni caratteristiche  di tali luoghi sono naturalmente molte. È  qui che viene faticosamente costruita la capacità  di una rappresentazione a esprimere qualcosa  che vada oltre se stessa; è qui che apertamente  si creano illusioni e impressioni. È qui che si  possono custodire arredi scenici e componenti  della facciata personale in una specie di composizione  smontabile di interi repertori di azioni  e personaggi. Sempre qui si possono nascondere  i diversi tipi di equipaggiamento disponibili  per un dato cerimoniale, come i diversi tipi di  liquore o di vestiario, cosi che il pubblico non  possa paragonare il genere di trattamento che  gli viene riservato con quello che avrebbe potuto  ricevere. […] Qui l’attore può rilassarsi,  abbandonare la sua facciata, smetter di recitare  la sua parte e uscire dal suo ruolo. In genere il retroscena di una rappresentazione  si trova a un estremo del luogo dove è presentato  lo spettacolo, ed è separato da questo da un  divisorio e da un passaggio sorvegliato. In tal  modo, essendo la ribalta e il retroscena adiacenti,  un attore che si trovi sulla ribalta può ricevere  assistenza dal retroscena durante lo svolgimento della rappresentazione e può momentaneamente interromperla per brevi periodi di distensione.  In genere, naturalmente, il retroscena  costituisce per l’attore un luogo sicuro nel senso  che nessuno del pubblico può entrarvi. Rispondi Che cosa intende Goffman per ribalta? E per retroscena? 1. Immagina nella tua vita quotidiana una situazione  2. che rappresenta per te una ribalta della tua  vita sociale e una che, invece, costituisce un retroscena.  >> pagina 173  ⇒ T5  Howard Saul Becker | La devianza creata dalla società Howard Becker ha concentrato parte del proprio lavoro per mettere in luce che  le forme di devianza all’interno della società non dipendono dal fatto che certe  azioni sono effettivamente sbagliate, ma che invece esistono delle norme sociali,  prodotte dalla collettività e mutevoli nel corso del tempo, che servono proprio a  permettere a una parte della società di attribuire l’etichetta di “deviante” ad alcuni  dei propri membri. , Egea, Torino 1987, pp. 27-28 Outsiders L’interpretazione sociologica che ho appena  discusso definisce la devianza come l’infrazione  di una norma accettata. Cerca poi di individuare  chi infrange le norme, e ricerca i fattori  che, nelle loro personalità e nelle situazioni  della loro vita, potrebbero spiegare il perché di  quelle infrazioni. Ciò presuppone che coloro i  quali hanno infranto una norma costituiscano  una categoria omogenea, perché hanno commesso  lo stesso atto deviante. Mi sembra che un tale presupposto non tenga  conto dell’aspetto centrale della devianza: essa  è creata dalla società. Non voglio dire, come  comunemente avviene, che le cause della devianza  sono da individuarsi nella situazione  sociale del deviante o in “fattori sociali” che  suggeriscono la sua azione, ma voglio dire che  i gruppi sociali creano la devianza istituendo  norme la cui infrazione costituisce la devianza  , applicando quelle norme a determinate  stessa persone e attribuendo loro l’etichetta di outsiders.  Da questo punto di vista, la devianza  non è una qualità dell’atto commesso da  una persona, ma piuttosto una conseguenza  dell’applicazione, da parte di altri, di norme e  di sanzioni nei confronti di un “colpevole”. Il  deviante è una persona alla quale questa etichetta  è stata applicata con successo; un comportamento  deviante è un comportamento che  la gente etichetta come tale. Dal momento in cui la devianza è, tra le altre  cose, una conseguenza della reazione degli  altri nei confronti dell’atto di una persona, gli  studiosi della devianza non possono partire dal  presupposto che si occupano di una categoria  omogenea quando studiano delle persone etichettate  devianti. In altri termini, non possono  presupporre che queste persone abbiano  effettivamente commesso un atto deviante  o infranto qualche norma, perché il processo  dell’etichettare non è necessariamente infallibile;  certe persone possono essere definite  devianti mentre in realtà non hanno infranto nessuna norma. Inoltre, gli studiosi non possono presupporre che la categoria degli individui etichettati come devianti sia costituita da tutti quelli che effettivamente hanno infranto una norma, perché molti violatori possono non essere scoperti e non sono quindi inclusi nella popolazione di “devianti” che loro studiano. Finché la categoria manca di omogeneità e non include tutti i casi che ad essa appartengono, non si può pensare seriamente di trovare fattori comuni di personalità o di situazioni di vita che possano spiegare la presupposta devianza. Cosa hanno, allora, in comune le persone definite  devianti? Condividono perlomeno l’etichetta  e l’esperienza di essere etichettati come  outsiders. Rispondi Che cosa intende Becker per devianza? 1. Chi stabilisce, secondo Becker, chi è un deviante? 2.  >> pagina 174  ⇒ T6  Alfred Schütz | Molteplici ordini di realtà Il lavoro di Schütz si è concentrato nel comprendere che il mondo sociale si basa  sulla possibilità che persone condividano un senso comune, ovvero un insieme di  idee e significati dato per scontato nella loro vita quotidiana. In questo testo, riprendendo  le idee del filosofo William James, egli mette in luce che esistono differenti  ambiti sociali, caratterizzati da diverse forme di conoscenza, che possono  essere considerati come delle realtà differenti e potenzialmente infinite. , Armando, Roma 1955, pp. 25-26 Don Chisciotte e il problema della realtà “In quali circostanze consideriamo le cose reali?”:  questa domanda sta in uno dei più notevoli  capitoli dei di William  Principi di psicologia James, il quale inizia da qui per sviluppare la  sua teoria dei diversi ordini della realtà. James  scopre che tutto ciò che è pensato in modo non  contraddittorio viene ipso facto creduto, cioè inteso  come assolutamente reale. E una cosa pensata  può essere contraddetta da un’altra solo se  l’una inizia la disputa affermando qualcosa che  non è ammissibile per l’altra. Se si verifica questo  caso, la mente deve fare una scelta. Ogni proposizione – che si tratti di predicare  un attributo o di affermare l’esistenza di qualcosa  – viene creduta per il fatto stesso di essere  concepita, a meno che non si scontri con altre  proposizioni cui si presta fede contemporaneamente,  e che si intendano riferite tutte agli  stessi termini. Sempre secondo William James, la distinzione  tra reale e irreale, l’intera psicologia della credenza, dell’incredulità e del dubbio si basano su due fatti mentali: primo, che abbiamo la possibilità  di pensare in modi diversi a proposito del medesimo  oggetto; secondo, che quando lo abbiamo  fatto possiamo scegliere a quale modo aderire e  quale scartare. L’origine e la fonte di tutta la realtà,  sia dal punto di vista assoluto che da quello  pratico, è dunque soggettiva: siamo noi. Di conseguenza, esistono molti diversi ordini  di realtà – probabilmente un numero infinito  – ciascuno con il suo stile di esistenza partico lare e distinto: James li chiama “sotto-universi”.  Fra di loro vi è il mondo dei sensi o delle “cose”  fisiche, così come sono sperimentate dal senso  comune; il mondo della scienza; il mondo delle  relazioni ideali; quello degli “idoli della tribù”;  i mondi soprannaturali come il Paradiso e l’Inferno  dei cristiani; i numerosi mondi dell’opinione  individuale; e i mondi della pura follia e  della fantasia, anch’essi infinitamente numerosi. Ogni oggetto cui pensiamo si riferisce ad almeno  uno di questi mondi – o ad uno di una lista  analoga. Ogni mondo, nel momento in cui vi si  fa riferimento, è reale a proprio modo, ed ogni  relazione con la nostra mente, se non vi è la presenza  di una relazione più forte che la contrasti,  è sufficiente a rendere un oggetto reale. Rispondi Prova a spiegare che cosa intende Schütz, basandosi  1. sul lavoro di William James, quando parla di  “sotto-universi” che costituiscono realtà sociali  alternative. Che cosa significa che esistono molteplici realtà e  2. non solo una? Soffermati a riflettere sulla tua esperienza quotidiana,  3. provando a identificare due distinti ambiti  della realtà in cui sembrano funzionare altrettanti  differenti ordini di realtà, come li ha definiti  Schütz, per esempio situazioni che condividi solo  con i tuoi compagni e altre in cui sono i tuoi familiari  le persone di riferimento. Prova a descrivere  le differenze principali tra questi due ambiti.  >> pagina 175  ⇒ T7  Peter Ludwig Berger e Thomas Luckmann | La condivisione sociale della realtà Berger e Luckmann si sono occupati di descrivere in che modo le persone e i gruppi  sociali interagiscono, creando nel corso del tempo forme di conoscenze condivise,  necessarie affinché si possa sviluppare una convivenza sociale ordinata. In questo  brano i due autori mettono in rilievo che uno dei momenti principali in cui si inizia  a costruire questa conoscenza condivisa è quando due persone si trovano a interagire  faccia a faccia , il Mulino, Bologna 1969, pp. 50-51 La realtà come costruzione sociale La realtà della vita quotidiana è condivisa  con altri. Ma in che modo si ha esperienza  di questi altri nella vita quotidiana? Inoltre, è  possibile distinguere tra diversi modi di tale  esperienza. La più importante esperienza  degli altri ha luogo nella situazione in cui ci  si trova faccia a faccia, che costituisce il prototipo  dell’interazione sociale. Tutti gli altri  casi sono derivazioni di questo. Quando ci si  incontra faccia a faccia i due soggetti interagenti  sono uno di fronte all’altro. Il mio e il  suo [ora e adesso] si scontrano continuamente  hit et nunc l’uno con l’altro finché perdura la  situazione dell’incontro diretto. Ne risulta un  continuo interscambio della mia espressività  e della sua. Lo vedo sorridere, poi reagire al  mio viso accigliato smettendo di sorridere poi  sorridere ancora quando io sorrido, e così via. Ogni mia espressione è orientata verso di lui, e viceversa, e questa continua reciprocità di atti espressivi vale simultaneamente per ambedue.  Questo significa che, quando ci si trova l’uno di fronte all’altro, la soggettività dell’altro mi è accessibile in maniera diretta anche se io posso  fraintendere alcuni dei suoi atti. Posso pensare  che l’altro stia sorridendo mentre di fatto sta  solo affettando un sorriso. Nondimeno solo un  rapporto personale diretto può mettere a contatto  con la soggettività di ciascuno. Solo qui  la soggettività dell’altro è spiccatamente «vicina ». Tutte le altre forme di rapporto con l’altro  sono, in vari gradi, «remote». Nell’incontro diretto l’altro è pienamente reale.  Questa realtà fa parte della realtà globale della  vita quotidiana, e come tale è massiccia e  indiscutibile. Certo, un altro può essere reale  per me senza che io lo abbia mai incontrato di  persona – per fama, per esempio, o per essere  stato in corrispondenza con me; ciò nonostante,  egli diviene reale per me nel più pieno senso  della parola solo quando me lo trovo di fronte  faccia a faccia. Anzi, si può dire che l’altro  nell’incontro diretto è per me più reale di me  stesso. Rispondi Perché sono importanti le relazioni faccia a faccia? 1. Tra due individui, che cosa distingue le relazioni  2. “vicine” da quelle “remote”?