carta canta Belli senza fiamme Da Virgilio in poi, non si contano gli scrittori che morendo hanno raccomandato di bruciare, distruggere o quantomeno tenere sottochiave le proprie opere , per i motivi più svariati. Non sempre, per fortuna, gli eredi hanno puntualmente eseguito il compito: si sono così salvati alcuni capolavori straordinari. Un esempio lampante di queste dinamiche lo offrono i 2279 sonetti in dialetto romanesco scritti da Giuseppe Gioachino Belli fra il 1817 e il 1849. , temendo ne venisse compromesso il suo buon nome di serio impiegato al servizio dei pontefici, autore di saggi eruditi, cronache teatrali, opere devote. Il poeta non volle mai far stampare questo imponente «monumento» cartaceo della plebe romana Qualche sonetto fu comunque pubblicato quando era ancora in vita, sia pure senza il suo consenso, e diversi ne circolarono in forma anonima anche fuori da Roma, tanto che nel 1845 Giuseppe Mazzini a Londra poté leggere il corrosivo . Da parte sua, il 996 (così Belli amava firmarsi, trascrivendo in numeri la sigla , formata dalle iniziali del suo nome) si limitava , dopo essersi fatto a lungo pregare: senza concedere repliche, però, nel timore che qualcuno potesse mandare a memoria i versi. La vita da cane ggb a leggere qualche componimento a pochi amici fidati Con la restaurazione seguita al turbine rivoluzionario del 1848-49, quando i patrioti italiani proclamarono la Repubblica cacciando papa Pio IX, la musa dialettale di Belli tacque per sempre. Il poeta non si sbarazzò comunque dei vecchi manoscritti, ma . Mancandogli il cuore di farlo personalmente, prescrisse nel testamento di ardere i suoi «versi in vernacolo e stile romanesco, affinché non sian dal mondo mai conosciuti, siccome sparsi di massime, pensieri e parole riprovevoli». , , il quale un paio d’anni più tardi diede alle stampe circa 800 sonetti depurati dal turpiloquio, scelti fra quelli privi di riferimenti alla sfera sessuale e ai comportamenti censurabili del clero. L’intero corpus – oggi conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma – vide la luce solo dopo la breccia di Porta Pia (nel 1870), che fece di Roma la capitale del Regno d’Italia. li conservò in ordine perfetto e corredati di note esplicative in una cassetta L’amico monsignor Vincenzo Tizzani, al quale erano stati consegnati, disobbedì e consegnò il materiale al figlio del poeta Ciro