La terra, il mito, il simbolo 3 Come abbiamo visto, la produzione letteraria di Pavese si colloca cronologicamente negli anni del Neorealismo: se di quella corrente l’autore sembra riprendere temi (la Storia, la guerra, la Resistenza, la vita degli umili) e ambientazioni (il mondo rurale), i suoi intenti appaiono però ben diversi. Egli infatti assume sempre le , pur rappresentate con concretezza e precisione di dettaglio, come più profonda e più ampia , caratterizzata dallo sradicamento, da una ricerca di senso che non riesce ad approdare a esiti positivi, da un’ansia di pienezza destinata a rimanere frustrata. Per questo lo stesso Pavese ha parlato, a proposito del suo lavoro, di «realtà simbolica». La «realtà simbolica» situazioni storiche e contingenti simboli di una condizione esistenziale La rappresentata da Pavese, pur concreta e dettagliata, . realtà rimanda simbolicamente all’esistenza umana Un primo elemento assai concreto, su cui si innestano profondi valori simbolici, è la . Già nelle poesie di assistiamo a un contrasto tra la città e la campagna, come luoghi antitetici che rimandano metaforicamente a due diverse dimensioni: la è il luogo della , della , della , dell’industrializzazione (Pavese ne è attratto anche in virtù del fascino che esercita su di lui, cultore della letteratura anglosassone, il mito americano dell’automobile e dello sviluppo urbano), la è il luogo dell’ , dell’ , delle pulsioni inconsce, del selvaggio e del , di una natura non controllata e non arginata dalla civiltà. Il contrasto tra città e campagna terra Lavorare stanca città maturità razionalità modernità campagna infanzia irrazionalità primitivo Il contrasto fra città e campagna è presente in tutta l’opera di Pavese, fin dalle prime composizioni poetiche, e veicola la fra razionalità e irrazionalità, e . contrapposizione maturità infanzia Le risonanze simboliche della terra e del mondo rurale vengono ulteriormente approfondite nella produzione narrativa, a partire dai racconti del 1936-1939, editi postumi in (1953), e poi nel primo romanzo pubblicato da Pavese, (1941). Quest’ultimo mette in scena il ritorno alla campagna di un cittadino, l’operaio Berto, che vi scopre un mondo barbarico dalle passioni accese e ancestrali, in cui dominano gli istinti della sessualità e della violenza. Le valenze antropologiche del mito della terra Notte di festa Paesi tuoi Ma è soprattutto intorno al 1942 che Pavese attua la . Lo indirizzano su tale strada le lunghe meditazioni nella solitudine del Monferrato (dove si è rifugiato presso la sorella per sfuggire alla guerra) e la lettura delle opere del filologo e mitologo ungherese Károly Kerényi (1897-1973), che aveva elaborato un metodo di interpretazione dei classici basato sugli apporti dell’etnologia, della psicologia e della storia delle religioni, ma anche di antropologi come lo scozzese James Frazer (1854-1941) e il rumeno Mircea Eliade (1907-1986). svolta decisiva verso il mito della terra La campagna in questa fase non incarna più solo l’elemento selvaggio e irrazionale, ma diventa il , di un’esistenza originaria e primordiale, della spontaneità e dell’autenticità. Gli elementi, reali o fantastici, legati alla dimensione della terra rappresentano per Pavese un ampio serbatoio di spunti fantastici. Passando dal piano della vita collettiva a quello della vita individuale, alcuni oggetti-simbolo («l’albero, la casa, la vite, il sentiero, la sera, il pane, la frutta ecc.», come scrive l’autore stesso nel 1942 in una lettera a Fernanda Pivano) disegnano una poetica della memoria che riporta alla concretezza dell’infanzia. simbolo della vita in sé La terra rimanda all’ , all’irrazionalità, all’autenticità, alla . infanzia vita A tale mitologia privata del ricordo Pavese affianca l’interesse per i miti collettivi, quelli dei diversi popoli e delle varie epoche storiche. Da qui scaturisce un’opera singolare come (1949), basata su una serie di colloqui tra alcuni personaggi della mitologia classica. Dalla memoria personale ai miti collettivi Dialoghi con Leucò I miti per Pavese sono ricche di significato, (dell’umanità o del singolo, a seconda che siano individuali o collettivi) interpretazioni della realtà prodottesi nel passato ma valide anche per il futuro . In altre parole il mito – per dirla con Pavese stesso – «è un fatto avvenuto una volta per tutte che perciò si riempie di significati e sempre se ne andrà riempiendo in grazia appunto della sua fissità, non più realistica… Esso avviene sempre alle origini, come nell’infanzia: è fuori del tempo». La è dovuta al loro essere «fuori del tempo». persistenza dei miti >> pagina 436 Intorno al tema del ritorno alla terra si svolge l’ultimo romanzo pavesiano, (1950), sorta di testamento spirituale dello scrittore. Il rientro di Anguilla al paese si configura come un tentativo di verificare la consistenza dell’immagine che si è portato per tanti anni nella memoria. Egli desidera ritrovare le proprie radici: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». L’impossibilità del ritorno La luna e i falò È la stessa situazione di una delle liriche più celebri di , : lì il cugino, dopo aver vissuto lontano dal paese, vi faceva ritorno, all’età di quarant’anni (la stessa di Anguilla nel romanzo), perché «le Langhe non si perdono». Ora invece questa certezza è crollata: le Langhe si sono perse e il è . L’illusione di Anguilla è di breve durata. Egli si accorge che «intorno gli alberi e la terra erano cambiati; la macchia dei noccioli sparita, ridotta a una stoppia di meliga… Voleva dire ch’era tutto finito». Lavorare stanca I mari del Sud ritorno impossibile Cercare di recuperare le proprie e ritrovare intatti i dell’infanzia si rivela un’ . origini luoghi illusione T4 Il ritorno di Anguilla , cap. 5 La luna e i falò Nell’ultimo romanzo di Pavese, , Anguilla, un trovatello che da giovane ha lasciato le Langhe per andare a cercar fortuna in America, è tornato nei luoghi dove era stato cresciuto da una coppia di poveri contadini. Nel quinto capitolo, che qui riportiamo per intero, egli si reca alla cascina di Gaminella, il podere che lo aveva visto bambino. La luna e i falò L’incolmabile del distanza passato Fa un sole su questi , un riverbero di e di che mi ero dimenticato. bricchi 1 grillaia tufi 2 Qui il caldo più che scendere dal cielo esce da sotto – dalla terra, dal fondo 3 tra le viti che sembra si sia mangiato ogni verde per andare tutto in tralcio. È un caldo che mi piace, sa un odore: ci sono dentro anch’io a quest’odore, ci sono 4 dentro tante vendemmie e fienagioni e sfogliature, tanti sapori e tante voglie che 5 5 non sapevo più d’avere addosso. Così mi piace uscire dall’Angelo e tener d’occhio 6 le campagne; quasi quasi vorrei non aver fatto la mia vita, poterla cambiare; dar ragione alle ciance di quelli che mi vedono passare e si chiedono se sono venuto 7 a comprar l’uva o che cosa. Qui nel paese più nessuno si ricorda di me, più nessuno tiene conto che sono stato servitore e bastardo. Sanno che a Genova ho dei 10 soldi. Magari c’è qualche ragazzo, servitore com’io sono stato, qualche donna che si annoia dietro le persiane chiuse, che pensa a me com’io pensavo alle collinette di Canelli, alla gente di laggiù, del mondo, che guadagna, se la gode, va lontano sul mare. Di cascine, un po’ per scherzo un po’ sul serio, già diversi me n’hanno offerte. Io sto a sentire, con le mani dietro la schiena, non tutti sanno che me ne 15 intendo – mi dicono dei gran raccolti di questi anni ma che adesso ci vorrebbe uno scasso, un muretto, un trapianto, e non possono farlo. «Dove sono questi raccolti?», 8 gli dico, «questi profitti? Perché non li spendete nei beni?». «I concimi…». cime (termine dialettale). bricchi: 1 di podere sterile e di terre sabbiose. di grillaia e di tufi: 2 il caldo è così intenso che arroventa la terra e sembra uscire dalle sue profondità. Qui il caldo più che scendere dal cielo esce da sotto: 3 emana. sa: 4 le operazioni di sfogliamento delle pannocchie di granoturco. sfogliature: 5 l’oste presso il quale è alloggiato Anguilla. dall’Angelo: 6 chiacchiere. ciance: 7 rottura profonda del terreno per piantarvi la vigna. scasso: 8 Io che i concimi li ho venduti all’ingrosso, taglio corto. Ma il discorso mi piace. 20 9 E più mi piace quando andiamo nei beni, quando traversiamo un’aia, visitiamo una stalla, beviamo un bicchiere. Il giorno che tornai al casotto di Gaminella, conoscevo già il vecchio Valino. L’aveva fermato Nuto in piazza in mia presenza e gli aveva chiesto se mi conosceva. Un uomo secco e nero, con gli occhi da talpa, che mi guardò circospetto, e quando 25 Nuto gli disse ridendo che ero uno che gli aveva mangiato del pane e bevuto del vino, restò lì senza decidersi, torbido. Allora gli chiesi se era lui che aveva tagliato 10 i noccioli e se sopra la stalla c’era sempre quella spalliera di uva passera. Gli 11 12 dicemmo chi ero e di dove venivo; Valino non cambiò quella faccia scura, disse soltanto che la terra della riva era magra e tutti gli anni la pioggia ne portava via un 30 pezzo. Prima di andarsene mi guardò, guardò Nuto e gli disse: «Vieni una volta su di là. Voglio farti vedere quella tina che perde». 13 Poi Nuto mi aveva detto: «Tu in Gaminella non mangiavi tutti i giorni…». Non scherzava più, adesso. «Eppure non vi toccava spartire. Adesso il casotto l’ha comprato 14 la madama della Villa e viene a spartire i raccolti con la bilancia… Una che 35 15 ha già due cascine e il negozio». Poi dicono i villani ci rubano, i villani sono gente perversa… Da solo ero tornato su quella strada e pensavo alla vita che poteva aver fatto il Valino in tanti anni – sessanta? forse nemmeno – che lavorava da mezzadro. Da quante case era uscito, da quante terre, dopo averci dormito, mangiato, zappato 40 col sole e col freddo, caricando i mobili su un carretto non suo, per delle strade 16 dove non sarebbe ripassato. Sapevo ch’era vedovo, gli era morta la moglie nella cascina prima di questa e dei figli i più vecchi erano morti in guerra – non gli restava che un ragazzo e delle donne. Che altro faceva in questo mondo? Dalla valle del Belbo non era mai uscito. Senza volerlo mi fermai sul sentiero 45 17 pensando che, se vent’anni prima non fossi scappato, quello era pure il mio destino. Eppure io per il mondo, lui per quelle colline, avevamo girato girato, senza mai poter dire: “Questi sono i miei beni. Su questa trave invecchierò. Morirò in 18 questa stanza”. Arrivai sotto il fico, davanti all’aia, e rividi il sentiero tra i due rialti erbosi. 50 Adesso ci avevano messo delle pietre per scalini. Il salto dal prato alla strada era 19 come una volta – erba morta sotto il mucchio delle fascine, un cesto rotto, delle mele marce e schiacciate. Sentii il cane di sopra scorrere lungo il filo di ferro. 20 21 quello di venditore all’ingrosso di concimi era stato uno dei lavori di Anguilla in America. Io… all’ingrosso: 9 espressione popolare per dire che Anguilla aveva mangiato e bevuto sulle terre attualmente occupate da Valino. gli aveva mangiato… del vino: 10 un’intelaiatura, appoggiata di solito a un muro per disporvi piante da frutto o ornamentali, oppure frutti a essiccare. spalliera: 11 passa. passera: 12 forma toscana per “tino”, grande recipiente di legno in cui viene messa l’uva a fermentare. tina: 13 Padrino (il genitore adottivo di Anguilla) era povero, ma era il proprietario della cascina di Gaminella, e quindi non doveva dividere ( ) il guadagno con nessuno. Eppure… spartire: 14 spartire la padrona ( , in dialetto piemontese) della Villa ha comprato la cascina di Gaminella e viene a prendere ogni anno metà del raccolto, come prevedevano i contratti di mezzadria, misurando attentamente ( ) le quantità. Adesso il casotto… bilancia: 15 madama con la bilancia Valino non possiede nemmeno il carro utilizzato per i frequenti traslochi. un carretto non suo: 16 il fiume che attraversa le Langhe. Belbo: 17 la trave nel cortile delle cascine era usata come una panca, su cui ci si sedeva nei momenti di riposo e nelle veglie. trave: 18 lo scoscendimento. Il salto: 19 «l’elenco dei materiali usati per colmare il dislivello testimonia la povertà di Valino» (Tesio). erba morta… mele marce e schiacciate: 20 nel quale è infilata la catena che lega il cane. il filo di ferro: 21 Quando sporsi la testa dagli scalini, il cane impazzì. Si buttò in piedi, ululava, si strozzava. Seguitai a salire, e vidi il portico, il tronco del fico, un rastrello appoggiato 55 all’uscio – la stessa corda col nodo pendeva dal foro dell’uscio La stessa macchia di verderame intorno alla spalliera sul muro. La stessa pianta di rosmarino 22 sull’angolo della casa. È l’odore, l’odore della casa, della riva, di mele marce, d’erba secca e di rosmarino. Su una ruota stesa per terra era seduto un ragazzo, in camicino e calzoni strappati, 60 una sola bretella, e teneva una gamba divaricata, scostata in un modo innaturale. Era un gioco quello? Mi guardò sotto il sole, aveva in mano una pelle di coniglio secca, e chiudeva le palpebre magre per guadagnar tempo. Io mi fermai, lui continuava a batter gli occhi; il cane urlava e strappava il filo. 65 Il ragazzo era scalzo, aveva una crosta sotto l’occhio, le spalle ossute e non muoveva la gamba. D’improvviso mi ricordai quante volte avevo avuto i geloni, le croste sulle ginocchia, le labbra spaccate. Mi ricordai che mettevo gli zoccoli soltanto d’inverno. Mi ricordai come la mamma Virgilia strappava la pelle ai conigli dopo averli sventrati. Mossi la mano e feci un cenno. 70 Sull’uscio era comparsa una donna, due donne, sottane nere, una decrepita e storta, una più giovane e ossuta, mi guardavano. Gridai che cercavo il Valino. Non c’era, era andato su per la riva. La meno vecchia gridò al cane e prese il filo e lo tirò, che rantolava. Il ragazzo 23 si alzò dalla ruota – si alzò a fatica, puntando la gamba per traverso, fu in piedi 75 e strisciò verso il cane. Era zoppo, rachitico, vidi il ginocchio non più grosso del suo braccio, si tirava il piede dietro come un peso. Avrà avuto dieci anni, e vederlo su quell’aia era come vedere me stesso. Al punto che diedi un’occhiata sotto il portico, dietro il fico, alle melighe, se comparissero Angiolina e Giulia. Chi sa 24 25 dov’erano? 80 Se in qualche luogo erano vive, dovevano avere l’età di quella donna. Calmato il cane, non mi dissero niente e mi guardavano. patina verdastra che si forma, con l’umidità e il tempo, sugli oggetti di rame in seguito all’esposizione all’aria. verderame: 22 per l’agitazione di fronte allo sconosciuto e per la corda che gli stringe la gola. che rantolava: 23 la meliga è il granoturco. alle melighe: 24 le due figlie di Padrino e Virgilia, con le quali Anguilla aveva trascorso l’infanzia alla Gaminella. Angiolina e Giulia: 25 >> pagina 438 Dentro il TESTO I contenuti tematici Anguilla torna in visita alla cascina di Gaminella, dove ha vissuto gli anni dell’infanzia con Padrino e Virgilia, prima che questi, a causa della scarsità dei raccolti, dovessero vendere il e trasferirsi come mezzadri in un altro podere (Anguilla era stato allora mandato alla Mora come servitore). Qui adesso vive la famiglia di un mezzadro, il vedovo Valino, composta da lui, dalla cognata che egli costringe a dormire con sé, dalla suocera paralitica e dal figlio rachitico. casotto Il nuovo incontro con i luoghi delle radici genera nel protagonista sentimenti contrastanti: , a partire dagli aspetti sensoriali come i colori (la luce solare nel suo , r. 1) e i profumi (il calore della terra che , r. 4, e più avanti , rr. 58-59), dei quali Anguilla si era quasi dimenticato, ma la cui memoria ora risale prepotentemente alla coscienza; che egli prova nello scoprire una povertà ancora più estrema e degradante di quella che un giorno aveva lasciato. Non a caso al posto del sé stesso bambino c’è ora un ragazzo malato, Cinto: , con (rr. 60-62), (r. 66). L’autore intreccia dunque due motivi contrapposti: «il ritrovamento di sé stesso, dell’antica radice, e insieme del cibo stento, dell’antica miseria, della diffidenza istintiva propria dei miserabili» (Gianni). da un lato il richiamo della propria terra riverbero di grillaia e di tufi sa un odore l’odore della casa, della riva, di mele marce, d’erba secca e di rosmarino dall’altro la delusione e quasi il disgusto in camicino e calzoni strappati una gamba divaricata, scostata in un modo innaturale una crosta sotto l’occhio, le spalle ossute Impressioni contrastanti >> pagina 439 Nella figura del Valino, (r. 25), (r. 27) e con la (r. 29), Anguilla vede l’immagine di quella che sarebbe probabilmente stata la sua vita se da giovane non se ne fosse andato dalle Langhe: un’esistenza di stenti, ai limiti della sopravvivenza, consumata a lavorare terre altrui. Eppure – riflette subito dopo il protagonista – a ben guardare la differenza tra lui e il Valino non è poi così profonda: (rr. 47-49). I due personaggi, infatti, sperimentano la stessa mancanza di ancoraggio a valori certi e a un preciso significato del vivere, l’assenza di una stabilità, affettiva prima ancora che materiale, la quale sola potrebbe dare un senso all’esistenza. È proprio la percezione di tale carenza che ha spinto Anguilla a tornare al paese d’origine, anche se – come abbiamo visto – il percorso del rientro è tutt’altro che facile e scontato. Entrambi, inoltre, non possiedono beni propri, ossia beni ereditati da una famiglia; Anguilla perché è un (r. 10), il Valino perché la miseria lo costringe a essere un mezzadro “itinerante” (e infatti accenna ai numerosi poderi che ha cambiato). secco e nero, con gli occhi da talpa torbido faccia scura io per il mondo, lui per quelle colline, avevamo girato girato, senza mai poter dire: “Questi sono i miei beni. Su questa trave invecchierò. Morirò in questa stanza” bastardo L’aspirazione alla stabilità Le scelte stilistiche Il primo aspetto che può essere rilevato nello stile del brano è la : i modi di dire gergali ( , r. 4), gli anacoluti ( , rr. 14-15), il doppio complemento oggetto ( , r. 20), la libertà del periodare che rende il parlato dei contadini ( , r. 37). Tali soluzioni formali contribuiscono a restituire efficacemente un preciso ambiente sociale, quello degli umili personaggi del romanzo. mimesi di forme e moduli tipici dell’oralità sa un odore Di cascine, un po’ per scherzo un po’ sul serio, già diversi me n’hanno offerte Io che i concimi li ho venduti all’ingrosso, taglio corto Poi dicono i villani ci rubano, i villani sono gente perversa La mimesi del parlato Tuttavia Pavese non si accontenta di rendere quel mondo in maniera diretta, cioè riproducendo la realtà così come essa è. Ciò si percepisce chiaramente se analizziamo lo stile più in profondità. La critica ha infatti messo in luce come l’andamento sintattico dell’opera sia scandito da un , ottenuto tramite le cosiddette “frasi progressive”, costituite da due unità melodiche: la prima breve (cioè con un limitato numero di sillabe) e la seconda più ampia. A partire da questo modello troviamo periodi bipartiti, tripartiti, quadripartiti ecc. ritmo musicale In particolare Pavese predilige le frasi tripartite. Per esempio (la barra separa le unità melodiche): / / (rr. 15-16); / / (r. 50). In questo genere di frasi – come ha ben spiegato il linguista Gian Luigi Beccaria – ai due primi momenti sintattico-melodici, limitati e trattenuti, ne segue uno più ampio e articolato. Io sto a sentire, con le mani dietro la schiena, non tutti sanno che me ne intendo Arrivai sotto il fico, davanti all’aia, e rividi il sentiero tra i due rialti erbosi La melodia della prosa >> pagina 440 Tale attenta elaborazione formale ci fa capire come a Pavese interessi, più che il realismo della rappresentazione, il , che viene sottolineato proprio dalle valenze sonore del testo. Perciò «la lingua attinge al dialetto entro prospettive del tutto diverse da quelle neorealiste. Le cadenze dialettali non sono il riflesso di una realtà indagata oggettivamente, ma entrano in una concezione della prosa organizzata come ritmo. Lo scopo è di ottenere un’alta densità di sguardo, di accompagnare il lettore in una sorta di rivelazione estatica della realtà: non della realtà in quanto tale, ma del “midollo” simbolico che occulta o che sottintende» (Tesio). Il ritorno “musicale” di moduli sintattici uguali (le unità melodiche descritte sopra) tende cioè a creare una monotonia e una costanza di forme attraverso cui si allude a una concezione del mondo fondata sull’immutabilità e sulla permanenza di miti e simboli eterni sempre uguali a sé stessi. lirismo della meditazione esistenziale Meditazione esistenziale e valori simbolici Verso le COMPETENZE Comprendere Il brano si compone di tre momenti distinti: dividilo nelle sequenze corrispondenti e riferisci sinteticamente che cosa accade in ciascuna. 1 Sotto quale aspetto appare al protagonista il piccolo Cinto? 2 Analizzare esto breve passaggio sono utilizzate, una dopo l’altra, due diverse tecniche narrative; sapresti dire quali? 3 Gridai che cercavo il Valino. Non c’era, era andato su per la riva (rr. 72-73): in qu Oltre a quelle segnalate nel commento, trova altre espressioni che rimandano alla lingua parlata. 4 Individua nel testo alcuni esempi di frasi tripartite oltre a quelle già segnalate nell’analisi. 5 Interpretare Perché, a tuo giudizio, Anguilla dice che gli vogliono vendergli una cascina? 6 piace (rr. 20-21) quando Quali sentimenti ti sembra che Anguilla provi nei confronti del Valino? E quali per Cinto? 7 COMPETENZE LINGUISTICHE Per descrivere il paesaggio delle Langhe, Pavese usa termini dialettali e regionali (bricchi, grillaia, tufi): che valore ha questa scelta lessicale? Esistono, nella tua zona o nella tua regione, termini specifici per descrivere elementi geografici e paesaggistici? Quali? 8 Produrre Sulla base degli elementi ricavabili dal testo traccia un succinto ritratto, fisico e psicologico, del Valino in un testo espositivo di circa 20 righe. 9 Scrivere per esporre. Monumento a Cesare Pavese nella casa natale dello scrittore a Santo Stefano Belbo. >> pagina 441 I grandi temi di Pavese 1 La poesia come racconto di sé l’aspirazione a una comunicazione profonda con il proprio io • la fallimentare condizione esistenziale • il motivo della solitudine • 2 La Resistenza impossibile l’orrore della guerra e della violenza • la scelta sofferta del disimpegno • 3 La terra, il mito, il simbolo la città e la campagna come dimensioni antitetiche • i luoghi dell’infanzia e il loro mito • la difficoltà di costruire un’esistenza stabile •