intrecci cinema Pasolini, un cinema che combatte il Potere A spingere Pasolini al passaggio dalla letteratura al cinema è la ricerca di un linguaggio più universale che parli della vita non con le parole ma attraverso la vita stessa, resa sul grande schermo con l’evidenza delle immagini. Nel 1961 dichiara: «L’esperienza cinematografica e quella letteraria non sono antitetiche. Direi anzi, che esse sono forme analoghe. Il desiderio di esprimermi attraverso il cinema rientra nel mio bisogno di adottare una tecnica nuova, una tecnica che rinnovi. […] L’importante è l’opera, l’ideazione che questa opera prevede; fondamentale è la spinta progressiva che essa contiene». Pochi anni dopo Pasolini spiega la sua concezione del cinema: «Se il cinema altro non è […] che la lingua scritta della realtà (che si manifesta sempre in azioni), significa che non è né arbitrario né simbolico: e rappresenta dunque la realtà attraverso la realtà». Il cinema è inoltre una forma artistica più nazional-popolare (nel senso positivo con cui Gramsci usa tale espressione) della letteratura, e consente di raggiungere un pubblico più ampio. Le prime opere e il «cinema di poesia» Pasolini debutta dietro la macchina da presa nel 1961 con , con una trama e personaggi legati a e a . È la storia del giovane sottoproletario Accattone, che vive sfruttando una prostituta, Maddalena; quando s’innamora di una ragazza ingenua e pura, prova a cambiare vita, ma la sua apatia e la sua amoralità lo condannano a un destino tragico. Pasolini sceglie attori non professionisti presi dalle borgate romane, e privilegia primi piani e inquadrature frontali, con richiami pittorici a Masaccio, Pontormo, Giotto. L’impiego della musica di Johann Sebastian Bach (la ) conferisce alle scene un’aura di sacralità: lo straniamento derivante dal contrasto tra le immagini e la colonna sonora suggerisce come i fatti narrati vadano letti in una prospettiva assoluta e astorica, e sottolinea come Accattone sia quasi “religiosamente” votato alla morte. Accattone Ragazzi di vita Una vita violenta Passione secondo Matteo Nel 1962 esce , in cui una prostituta cerca di affrancarsi dal suo sfruttatore e di dare un futuro migliore al figlio, il quale però si dedica alla delinquenza e finisce in carcere. Protagonista del film è Anna Magnani, chiamata a recitare con attori presi dalla strada: la sua Mamma Roma è una potente figura materna, proiezione della madre dell’autore ma anche della Madonna (specularmente, il figlio è assimilabile a Cristo). Anche qui la colonna sonora evidenzia la sacralità della vicenda, grazie alle musiche barocche di Antonio Vivaldi. Mamma Roma La ricerca di un linguaggio cinematografico autonomo di alta qualità figurativa prosegue nel 1963 con , episodio del film collettivo (il titolo deriva dai cognomi dei registi: Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti). Nella periferia romana si gira una pellicola sulla Passione di Cristo: un sottoproletario, Stracci, interpreta il ladrone buono, ma durante una pausa s’ingozza di ricotta e muore sulla croce. Il film è costruito su continue contrapposizioni: fra le tante, la Passione “sacra” ma fittizia (perché ricostruita sul set replicando la di Rosso Fiorentino) contro la Passione “profana” autentica, perché vissuta, di Stracci. Pasolini demolisce la società italiana («Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa») attraverso la figura del regista: interpretato da Orson Welles, il personaggio è una sorta di caricatura di un Pasolini dai tratti ideologici esasperati. Modello di «cinema di poesia» che nasce dall’armonica fusione del cinema con la letteratura, la pittura e la musica, costa all’autore una condanna a quattro mesi di reclusione con la condizionale dopo un processo per vilipendio alla religione di Stato. La ricotta Ro.Go.Pa.G. Deposizione dalla croce La ricotta Nel (1964), da laico Pasolini coglie il mistero del sacro con una rappresentazione spoglia e antitradizionale (anche nella scelta del set, l’Italia del Sud) ma di grande forza drammatica ed espressiva. È un racconto profondamente umano della figura di Gesù, in cui il senso della sacralità della vita scaturisce dalla morte: «L’unica cosa che dà una vera grandezza all’uomo è il fatto che muoia», spiega Pasolini. «Purtroppo però il cattolicesimo non è questo; il cattolicesimo è la promessa che al di là di queste macerie c’è un altro mondo, e questo invece nei miei film non c’è, non c’è assolutamente! C’è soltanto la morte, non l’aldilà…». Il film ha anche aspetti autobiografici: la scelta della madre Susanna per interpretare la Madonna anziana e degli amici intellettuali nel ruolo dei discepoli lega la lettura della vita di Gesù al vissuto del regista. Vangelo secondo Matteo Dopo aver indagato sul contraddittorio pensiero degli italiani in materia di morale e sessualità con (1965), valido esempio di cinema d’inchiesta, Pasolini gira (1966), apologo umoristico sulla crisi del marxismo, sul futuro del proletariato e sul ruolo dell’intellettuale. Parabola della Storia d’Italia (dalla predicazione francescana ai funerali di Togliatti), il film è interpretato da un Totò inedito, libero dagli schemi del suo consueto ruolo di “principe della risata”, affiancato dall’ilare esordiente Ninetto Davoli. Comizi d’amore Uccellacci e uccellini Franco Citti in (1961). Accattone Un fotogramma da (1962). Mamma Roma Un fotogramma da (1964). Il Vangelo secondo Matteo Il mito e il realismo visionario Nel 1967 Pasolini si accosta al mito classico con . La tragedia di Sofocle gli offre lo spunto per un’interpretazione autobiografica, come si evince dall’inquadramento della trama vera e propria in una cornice che rimanda alla vita e alla figura dello stesso Pasolini. Il film si apre infatti negli anni Venti in un paese dell’Italia settentrionale dove nasce un bambino, figlio di una donna bellissima (Silvana Mangano) e di un austero ufficiale: il gesto del padre, che dopo un rapporto sessuale con la moglie prende dalla culla il bambino piangente alzandolo per i piedini, assurge a segno di una castrazione simbolica. Edipo Re Nel 1968 – dopo due film collettivi, (nel secondo spicca il suo episodio, , originale rilettura dell’ di Shakespeare) – esce , così descritto da Pasolini: «In una famiglia borghese arriva un personaggio misterioso che è l’amore divino. È l’intrusione del metafisico, dell’autentico che distrugge, sconvolge, una vita interamente falsa che se può fare pietà, può anche avere dei momenti di autenticità nei sentimenti, per esempio, come nelle sue componenti fisiche». Dopo (1969, fiaba su due giovani che si ribellano alla famiglia e alle regole sociali e finiscono sbranati dagli animali), nel 1970 Pasolini trae dalla tragedia di Euripide , scegliendo come interprete una donna-mito, la cantante lirica Maria Callas. Il film, dichiara il regista, «è il confronto tra l’universo arcaico, ieratico, clericale [di Medea] e il mondo di Giasone, mondo al contrario razionale e pragmatico […]. Confrontato all’altra civilizzazione, alla razza dello “spirito”, scatena una spaventosa tragedia. Tutto il dramma è riposto su questa opposizione di due “culture”». Le streghe e Capriccio all’italiana Che cosa sono le nuvole? Otello Teorema Porcile Medea Dalla “Trilogia della vita” a Salò Rileggendo le fonti della grande novellistica, Pasolini gira la “Trilogia della vita”, gioiosa celebrazione del sesso. Con (1971) traspone nove novelle di Boccaccio illustrando il passato (in cui la miseria è compensata dalla libertà sessuale) senza intenti realistici, tanto che nel film lo stesso autore (nei panni di un allievo di Giotto) dice: «Perché realizzare un’opera quando è bello sognarla soltanto?». Il procedimento è replicato nei (1972), messa in scena di otto novelle di Geoffrey Chaucer, e nel (1974), che dà corpo a un esotico labirinto di sogni («La verità non sta in un solo sogno, ma in molti sogni», si dice all’inizio). Il Decameron Racconti di Canterbury Fiore delle Mille e una notte Dopo il trittico sulla libera espressione della sessualità come salutare eversione dell’ordine costituito, Pasolini capisce che nel frattempo anche il sesso è stato fatto oggetto di una presunta liberazione da parte della falsa tolleranza del Potere, e decide di superare il comune senso del pudore ritraendo i lati dell’erotismo più scioccanti e sgradevoli. È un tentativo estremo per suscitare una reazione nel pubblico, ormai assuefatto alle novità imposte dall’ideologia consumistica. Nasce così l’ultima pellicola pasoliniana (uscita postuma), (1975), luttuosa metafora del potere e interpretazione in chiave provocatoria di un celebre romanzo del Marchese de Sade (1740-1814). Il film è un’accorata, terribile denuncia di quanto di irreparabile la moderna società dei consumi sta producendo in termini di distruzione di una cultura e di una identità popolari. Il regista racconta quel Potere autoritario, violento, repressivo, classista e razzista di cui parla negli interventi giornalistici tra il 1973 e il 1975 attraverso una grande raffigurazione metaforica, quella del fascismo storico della Repubblica di Salò: per Pasolini, infatti, la società del benessere corrisponde a un nuovo fascismo, ed è per questo che sceglie una tale ambientazione per parlare del presente. L’autore spiega a cosa alludono il sesso violento e la ferocia gratuita che caratterizzano il film: «Oltre che la metafora del rapporto sessuale (obbligatorio e brutto) che la tolleranza del potere consumistico ci fa vivere in questi anni, tutto il sesso che c’è in […] è anche la metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti. In altre parole è la rappresentazione (magari onirica) di quella che Marx chiama la mercificazione dell’uomo: la riduzione del corpo a cosa (attraverso lo sfruttamento)». Salò o le 120 giornate di Sodoma Salò Un fotogramma da . Salò o le 120 giornate di Sodoma