Il secondo Ottocento – L'autore: Giovanni Verga T5 La morte di Gesualdo IV, cap. 5 Mastro-don Gesualdo, Riportiamo le pagine finali del romanzo. Gesualdo, nel palazzo ducale del genero, assiste impotente e rassegnato al disfacimento di tutto ciò che ha costruito. Abbandonato dai familiari, rifiutato dalla nobiltà, egli vorrebbe almeno stabilire un dialogo sincero con la figlia Isabella. Ma ciò non è possibile e la fine è straziante e spietata. La triste di un fine uomo solo [...] Talché don Gesualdo scendeva raramente dalla figliuola. Ci si sentiva a disagio col signor genero; temeva sempre che ripigliasse l’antifona dell’ . Gli mancava l’aria, lì fra tutti quei ninnoli. Gli toccava chiedere quasi licenza al servitore che faceva la guardia in anticamera per poter vedere la sua figliuola, e scapparsene appena giungeva qualche visita. L’avevano collocato in un quartierino al pian di sopra, poche stanze che chiamavano , dove Isabella andava a vederlo ogni mattina, in veste da camera, spesso senza neppure mettersi a sedere, amorevole e premurosa, è vero, ma in certo modo che al pover’uomo sembrava d’essere davvero un forestiero. Essa alcune volte era pallida così che pareva non avesse chiuso occhio neppur lei. Aveva una certa ruga fra le ciglia, qualcosa negli occhi, che a lui, vecchio e pratico del mondo, non andavan punto a genio. Avrebbe voluto pigliarsi anche lei fra le braccia, stretta stretta, e chiederle piano in un orecchio: «Cos’hai?… dimmelo!… Confidati a me che dei guai ne ho passati tanti, e non posso tradirti!». Ma anch’essa ritirava le corna come fa la lumaca. Stava chiusa, parlava di rado anche della mamma, quasi il chiodo le fosse rimasto lì, fisso… accusando lo stomaco peloso dei Trao, che vi chiudevano il rancore e la diffidenza, implacabili! 1 alter ego 5 la foresteria 10 15 2 il discorso ripetuto continuamente. rivelando la ritrosia ( ) tipica dei Trao. «Nel linguaggio parlato il pelo indica una sorta di fascia, di pelle o di pelliccia, in cui si avvolge il segreto, che quindi non si diffonde all’esterno, si contiene dentro lo stomaco, ivi chiuso, e impenetrabile» (Di Salvo). Il rancore della figlia Isabella è dovuto all’imposizione subita da parte del padre Gesualdo, il quale aveva ostacolato il suo amore per il cugino Corrado, imponendole un matrimonio non voluto con il duca di Leyra. 1 l’antifona: 2 accusando… Trao: lo stomaco peloso Perciò lui doveva ricacciare indietro le parole buone e anche le lagrime, che gli si gonfiavano grosse grosse dentro, e tenersi per sé i propri guai. Passava i giorni malinconici dietro l’invetriata, a veder strigliare i cavalli e lavare le carrozze, nella corte vasta quanto una piazza. Degli stallieri, in manica di camicia e coi piedi nudi negli zoccoli, cantavano, vociavano, barattavano delle chiacchiere e degli strambotti coi domestici, i quali perdevano il tempo alle finestre, col grembialone sino al collo, o in panciotto rosso, strascicando svogliatamente uno strofinaccio fra le mani ruvide, con le barzellette sguaiate, dei musi beffardi di mascalzoni ben rasi e ben pettinati che sembravano togliersi allora una maschera. I cocchieri poi, degli altri pezzi grossi, stavano a guardare, col sigaro in bocca e le mani nelle tasche delle giacchette attillate, discorrendo di tanto in tanto col guardaportone che veniva dal suo casotto a fare una fumatina, accennando con dei segni e dei versacci alle cameriere che si vedevano passare dietro le invetriate dei balconi, oppure facevano capolino provocanti, sfacciate, a buttar giù delle parolacce e delle risate di male femmine con certi visi da Madonna. Don Gesualdo pensava intanto quanti bei denari dovevano scorrere per quelle mani; 20 3 4 25 30 La servitù e il declino del patrimonio vetrata. scambiavano chiacchiere e battute volgari (propriamente gli strambotti sono componimenti poetici d’intonazione popolare; qui nel significato di fandonie). 3 invetriata: 4 barattavano… strambotti: >> pag. 170 tutta quella gente che mangiava e beveva alle spalle di sua figlia, sulla dote che egli le aveva dato, su l’Alìa e su Donninga, le belle terre che aveva covato cogli occhi tanto tempo, sera e mattina, e misurato col desiderio, e sognato la notte, e acquistato palmo a palmo, giorno per giorno, togliendosi il pane di bocca: le povere terre nude che bisognava arare e seminare; i mulini, le case, i magazzini che aveva fabbricato con tanti stenti, con tanti sacrifici, un sasso dopo l’altro. La Canziria, Mangalavite, la casa, tutto, tutto sarebbe passato per quelle mani. Chi avrebbe potuto difendere la sua roba dopo la sua morte, ahimé, povera roba! Chi sapeva quel che era costata? Il signor duca, lui, quando usciva di casa, a testa alta, col sigaro in bocca e il pomo del bastoncino nella tasca del pastrano, fermavasi appena a dare un’occhiata ai suoi cavalli, ossequiato come il Santissimo Sagramento, le finestre si chiudevano in fretta, ciascuno correva al suo posto, tutti a capo scoperto, il guardaportone col berretto gallonato in mano, ritto dinanzi alla sua vetrina, gli stallieri immobili accanto alla groppa delle loro bestie, colla striglia appoggiata all’anca, il cocchiere maggiore, un signorone, piegato in due a passare la rivista e prendere gli ordini: una commedia che durava cinque minuti. Dopo, appena lui voltava le spalle, ricominciava il chiasso e la baraonda, dalle finestre, dalle arcate del portico che metteva alle scuderie, dalla cucina che fumava e fiammeggiava sotto il tetto, piena di sguatteri vestiti di bianco, quasi il palazzo fosse abbandonato in mano a un’orda famelica, pagata apposta per scialarsela sino al tocco della campana che annunziava qualche visita – un’altra solennità anche quella. – La duchessa certi giorni si metteva in pompa magna ad aspettare le visite come un’anima di purgatorio. Arrivava di tanto in tanto una carrozza fiammante; passava come un lampo dinanzi al portinaio, che aveva appena il tempo di cacciare la pipa nella falda del soprabito e di appendersi alla campana; delle dame e degli staffieri in gala sguisciavano frettolosi sotto l’alto vestibolo, e dopo dieci minuti tornavano ad uscire per correre altrove a rompicollo; proprio della gente che sembrava presa a giornata per questo. Lui invece passava il tempo a contare le tegole dirimpetto, a calcolare, con l’amore e la sollecitudine del suo antico mestiere, quel che erano costate le finestre scolpite, i pilastri massicci, gli scalini di marmo, quei mobili sontuosi, quelle stoffe, quella gente, quei cavalli che mangiavano, e inghiottivano il denaro come la terra inghiottiva la semente, come beveva l’acqua, senza renderlo però, senza dar frutto, sempre più affamati, sempre più divoranti, simili a quel male che gli consumava le viscere. Quante cose si sarebbero potute fare con quel denaro! Quanti buoni colpi di zappa, quanto sudore di villani si sarebbero pagati! Delle fattorie, dei villaggi interi da fabbricare… delle terre da seminare, a perdita di vista… E un esercito di mietitori a giugno, del grano da raccogliere a montagne, del denaro a fiumi da intascare!… Allora gli si gonfiava il cuore al vedere i passeri che schiamazzavano su quelle tegole, il sole che moriva sul cornicione senza scendere mai giù sino alle finestre. Pensava alle strade polverose, ai bei campi dorati e verdi, al cinguettìo lungo le siepi, alle belle mattinate che facevano fumare i solchi!… Oramai!… oramai!… 35 5 40 45 6 50 7 55 8 9 60 10 65 70 11 75 possedimenti terrieri di Gesualdo, come quelli citati in seguito. ornato di galloni, strisce di stoffa usate soprattutto nelle uniformi militari per indicare il grado. godere di ogni comodità. inquieta. suonare ripetutamente la campana per annunciare l’arrivo di visitatori. Gesualdo era stato muratore. a perdita d’occhio. 5 su l’Alìa e su Donninga: 6 gallonato: 7 scialarsela: 8 come… purgatorio: 9 appendersi alla campana: 10 antico mestiere: 11 a perdita di vista: >> pag. 171 Adesso era chiuso fra quattro mura, col brusìo incessante della città negli orecchi, lo scampanìo di tante chiese che gli martellava sul capo, consumato lentamente dalla febbre, roso dai dolori che gli facevano mordere il guanciale, a volte, per non seccare il domestico che sbadigliava nella stanza accanto. Nei primi giorni, il cambiamento, l’aria nuova, forse anche qualche medicina indovinata, per sbaglio, avevano fatto il miracolo, gli avevano fatto credere di potersi guarire. Dopo era ricaduto peggio di prima. Neppure i migliori medici di Palermo avevano saputo trovar rimedio a quella malattia scomunicata! tal quale come i medici ignoranti del suo paese, e costavano di più, per giunta! Venivano l’uno dopo l’altro, dei dottoroni che tenevano carrozza, e si facevano pagare anche il servitore che lasciavano in anticamera. L’osservavano, lo tastavano, lo interrogavano quasi avessero da fare con un ragazzo o un contadino. Lo mostravano agli apprendisti come il zanni fa vedere alla fiera il gallo con le corna, oppure la pecora con due code, facendo la spiegazione con parole misteriose. Rispondevano appena, a fior di labbra, se il povero diavolo si faceva lecito di voler sapere che malattia covava in corpo, quasi egli non avesse che vederci, colla sua pelle! Gli avevano fatto comperare anch’essi un’intera farmacia: dei rimedi che si contavano a gocce, come l’oro, degli unguenti che si spalmavano con un pennello e aprivano delle piaghe vive, dei veleni che davano delle coliche più forti e mettevano come del rame nella bocca, dei bagni e dei sudoriferi che lo lasciavano sfinito, senza forza di muovere il capo, vedendo già l’ombra della morte da per tutto. «Signori miei, a che giuoco giuochiamo?», voleva dire. «Allora, se è sempre la stessa musica, me ne torno al mio paese…». Almeno laggiù lo rispettavano pei suoi denari, e lo lasciavano sfogare, se pretendeva di sapere come li spendeva per la sua salute. Mentre qui gli pareva d’essere all’ospedale, curato per carità. Doveva stare in suggezione anche del genero che veniva ad accompagnare i pezzi grossi chiamati a consulto. Parlavano sottovoce fra di loro, voltandogli le spalle, senza curarsi di lui che aspettava a bocca aperta una parola di vita o di morte. Oppure gli facevano l’elemosina di una risposta che non diceva niente, di un sorrisetto che significava addirittura «Arrivederci in Paradiso, buon uomo!». C’erano persino di quelli che gli voltavano le spalle, come si tenessero offesi. Egli indovinava che doveva essere qualche cosa di grave, al viso stesso che facevano i medici, alle alzate di spalle scoraggianti, alle lunghe fermate col genero, e al borbottìo che durava un pezzo fra di loro in anticamera. Infine non si tenne più. Un giorno che quei signori tornavano a ripetere la stessa pantomima, ne afferrò uno per la falda, prima d’andarsene. «Signor dottore, parlate con me! Sono io il malato, infine! Non sono un ragazzo. Voglio sapere di che si tratta, giacché si giuoca sulla mia pelle!». Colui invece cominciò a fare una scenata col duca, quasi gli si fosse mancato di rispetto in casa sua. Ci volle del bello e del buono per calmarlo, e perché non piantasse lì malato e malattia una volta per sempre. Don Gesualdo udì che gli dicevano sottovoce: 80 12 13 85 14 90 15 16 95 100 105 110 17 115 La malattia e gli inutili consulti dei «dottoroni» uso dialettale per “guarire”. maledetta. il servo sciocco o il buffone, figure della commedia dell’arte. osava. come se non avesse a che fare con la propria pelle; come se il corpo non fosse suo. scena. La pantomima è una rappresentazione scenica muta, in cui l’azione è affidata unicamente al gesto, all’espressione del volto, ai movimenti del corpo, alla danza. 12 potersi guarire: 13 scomunicata: 14 zanni: 15 si faceva lecito: 16 quasi egli non avesse che vederci, colla sua pelle: 17 pantomima: >> pag. 172 «Compatitelo… Non conosce gli usi… È un uomo primitivo… nello stato di natura…». Sicché il poveraccio dovette mandar giù tutto, e rivolgersi alla figliuola, per sapere qualche cosa. «Che hanno detto i medici? Dimmi la verità?… È una malattia grave, di’?…». E come le vide gonfiare negli occhi le lagrime, malgrado che tentasse di cacciarle indietro, infuriò. Non voleva morire. Si sentiva un’energia disperata d’alzarsi e andarsene via da quella casa maledetta. «Non dico per te… Hai fatto di tutto… Non mi manca nulla… Ma io non ci sono avvezzo, vedi… Mi par di soffocare qui dentro…». Neppur lei non ci stava bene in quella casa. Il cuore glielo diceva, al povero padre. Sembrava che fossero in perfetto accordo, marito e moglie; discorrevano cortesemente fra di loro, dinanzi ai domestici; il duca passava quasi sempre una mezz’oretta nel salottino della moglie dopo pranzo; andava a darle il buon giorno ogni mattina, prima della colazione; per i Morti, a Natale, per la festa di Santa Rosalia, e nella ricorrenza del suo onomastico o dell’anniversario del loro matrimonio, le regalava dei gioielli, che essa aveva fatto ammirare al babbo, in prova del bene che le voleva il marito. «Ah, ah… capisco… dev’essere costata una bella somma!… Però non sei contenta… si vede benissimo che non sei contenta…». Leggeva in fondo agli occhi di lei un altro segreto, un’altra ansietà mortale, che non la lasciava neppure quand’era vicino a lui, che le dava dei sussulti, allorché udiva un passo all’improvviso, o suonava ad ora insolita la campana che annunziava il duca; e dei pallori mortali, certi sguardi rapidi in cui gli pareva di scorgere un rimprovero. Alcune volte l’aveva vista giungere correndo, pallida, tremante come una foglia, balbettando delle scuse. Una notte, tardi, mentre era in letto coi suoi guai, aveva udito un’agitazione insolita nel piano di sotto, degli usci che sbattevano, la voce della cameriera che strillava, quasi chiamasse aiuto, una voce che lo fece rizzare spaventato sul letto. Ma sua figlia il giorno dopo non gli volle dir nulla; sembrava anzi che le sue domande l’infastidissero. Misuravano fino le parole e i sospiri in quella casa, ciascuno chiudendosi in corpo i propri guai, il duca col sorriso freddo, Isabella con la buona grazia che le aveva fatto insegnare in collegio. Le tende e i tappeti soffocavano ogni cosa. Però, quando se li vedeva dinanzi a lui, marito e moglie, così tranquilli, che nessuno avrebbe sospettato quel che covava sotto, si sentiva freddo nella schiena. Del resto, che poteva farci? Ne aveva abbastanza dei suoi guai. Il peggio di tutti stava lui che aveva la morte sul collo. Quand’egli avrebbe chiuso gli occhi tutti gli altri si sarebbero data pace, come egli stesso s’era data pace dopo la morte di suo padre e di sua moglie. Ciascuno tira l’acqua al suo mulino. Ne aveva data tanta dell’acqua per far macinare gli altri! Speranza, Diodata, tutti gli altri… un vero fiume. Anche lì, in quel palazzo di cuccagna, era tutto opera sua; e intanto non trovava riposo fra i lenzuoli di tela fine, sui guanciali di piume; soffocava fra i cortinaggi e le belle stoffe di seta che gli toglievano il sole. I denari che spendeva per far andare la baracca, i rumori della corte, il cameriere che gli tenevano dietro l’uscio a contargli i sospiri, insino al cuoco che gli preparava certe brode insipide che non riusciva a mandar giù, ogni cosa l’attossicava; non digeriva più neanche i bocconi prelibati, erano tanti chiodi nelle sue carni. 120 125 130 18 135 140 145 150 155 19 160 20 patrona di Palermo, la cui festa si svolge nel mese di luglio. la prima era la sorella di Gesualdo, la seconda la sua serva e concubina, dalla quale aveva avuto due figli illegittimi (Nunzio e Gesualdo). avvelenava. 18 Santa Rosalia: 19 Speranza, Diodata: 20 attossicava: >> pag. 173 «Mi lasciano morir di fame, capisci!», lagnavasi colla figliuola, alle volte, cogli occhi accesi dalla disperazione. – Non è per risparmiare… Sarà della roba buona… Ma il mio stomaco non c’è avvezzo… Rimandatemi a casa mia. Voglio chiuder gli occhi dove son nato!». […] [Gesualdo, sentendo la fine vicina, vuole stilare il testamento. Poi ha un ultimo dialogo con la figlia.] 165 Ansimava perché aveva il fiato corto, ed anche per l’emozione. Guardava intorno, sospettoso, e seguitava ad accennare del capo, in silenzio, col respiro affannato. Ella pure volse verso l’uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano scarna, e trinciò una croce in aria, per significare ch’era finita, e perdonava a tutti, prima d’andarsene. «Senti… Ho da parlarti… intanto che siamo soli…». Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle mani erranti che l’accarezzavano. L’accarezzò anche lui sui capelli, lentamente, senza dire una parola. Di lì a un po’ riprese: «Ti dico di sì. Non sono un ragazzo… Non perdiamo tempo inutilmente». Poi gli venne una tenerezza. «Ti dispiace, eh?… ti dispiace a te pure?…». La voce gli si era intenerita anch’essa, gli occhi, tristi, s’erano fatti più dolci, e qualcosa gli tremava sulle labbra. «Ti ho voluto bene… anch’io… quanto ho potuto… come ho potuto… Quando uno fa quello che può…». Allora l’attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fisso per vedere se voleva lei pure, e l’abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei capelli fini. «Non ti fo male, di’?… come quand’eri bambina?…». Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza e di passione, quei sospetti odiosi che dei bricconi, nelle questioni d’interessi, avevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli indietro, e cambiò discorso. «Parliamo dei nostri affari. Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso…». Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per chiudere gli occhi. «Ma no, parliamone!», insisteva lui. «Sono discorsi serii. Non ho tempo da perdere adesso». Il viso gli si andava oscurando, il rancore antico gli corruscava negli occhi. «Allora vuol dire che non te ne importa nulla… come a tuo marito…». 170 21 22 23 175 24 180 25 26 185 27 28 190 29 30 195 Gli ultimi desideri di Gesualdo morente fece in aria un gesto come a disegnare una croce. il complemento oggetto retto dalla preposizione “a” è un tipico costrutto dialettale siciliano. frenetiche, in movimento. Gesualdo prova a convincere sé stesso di non essere solo. Ma la domanda rivolta alla figlia rivela che si tratta di un pietoso autoinganno. Gesualdo ripete termini e frasi per poi non concluderle: è la conseguenza dell’affanno della sua voce, ma anche dell’emozione da cui è attanagliato. quando la barba del padre, in atto di baciarla, le pungeva il volto. Verga si riferisce alle dicerie – peraltro fondate – che Isabella non fosse realmente figlia di Gesualdo, ma il frutto di una relazione avuta dalla moglie prima del loro matrimonio. l’interesse economico fa breccia nell’animo di Gesualdo anche alla vigilia della morte. Gesualdo ha intuito l’inutilità dei suoi sforzi e l’impossibilità del colloquio: tuttavia non rinuncerà a cercare fino alla fine la solidarietà della figlia. lampeggiava. 21 trinciò… aria: 22 perdonava a tutti: 23 erranti: 24 ti dispiace a te pure?: 25 Ti ho voluto… può: 26 come… bambina: 27 quei sospetti odiosi: 28 Parliamo… affari: 29 Il viso… oscurando: 30 corruscava: >> pag. 174 Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al letto, cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori che gli avevano dati, lei e suo marito, con tutti quei debiti… Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla: «Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!… quando tuo marito torna a proporti di firmare delle carte!… Lui non sa cosa vuol dire!». Spiegava quel che gli erano costati, quei poderi, l’Alìa, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava come erano venuti a lui, uno dopo l’altro, a poco a poco, le terre seminative, i pascoli, le vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o cattive. Gli tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accendeva tuttora il sangue in viso, gli spuntavano le lagrime agli occhi: «Mangalavite, sai… la conosci anche tu… ci sei stata con tua madre… Quaranta salme di terreni, tutti alberati!… ti rammenti… i belli aranci?… anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca, negli ultimi giorni!… 300 migliaia l’anno, ne davano! Circa 300 onze! E la Salonia… dei seminati d’oro… della terra che fa miracoli… benedetto sia tuo nonno che vi lasciò le ossa!…». Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino. «Basta», disse poi. «Ho da dirti un’altra cosa… Senti…». La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l’effetto che avrebbe fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui supino che esitava e cercava le parole. «Senti!… Ho degli scrupoli di coscienza… Vorrei lasciare qualche legato a delle persone verso cui ho degli obblighi… Poca cosa… Non sarà molto per te che sei ricca… Farai conto di essere una regalìa che tuo padre ti domanda… in punto di morte… se ho fatto qualcosa anch’io per te…». «Ah, babbo, babbo!… che parole!», singhiozzò Isabella. «Lo farai, eh? lo farai?… anche se tuo marito non volesse…». Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se l’avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui quell’altro segreto, quell’altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola. E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse indovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi in sé, superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare Motta, com’essa era Trao, diffidente, ostile, di un’altra pasta. Allentò le braccia, e non aggiunse altro. «Ora fammi chiamare un prete», terminò con un altro tono di voce. «Voglio fare i miei conti con Domeneddio». Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio. Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte, 31 200 205 32 33 210 215 34 35 36 220 225 37 230 38 39 40 235 41 sofferenze, dispiaceri. la salma era un’unità di misura di capacità, usata particolarmente in Sicilia, corrispondente a circa 275 litri. una cifra ragguardevole a quei tempi. lascito testamentario. allude a Diodata e ai figli illegittimi che aveva avuto da lei. che sia. anche Isabella aveva avuto un figlio illegittimo dalla relazione con un cugino. Gesualdo percepisce tutta l’estraneità che lo separa dalla figlia: lui è Motta, lei è Trao (dal cognome della madre). si sciolse dall’abbraccio, quasi in un gesto di resa: il solco di incomunicabilità tra Gesualdo e la figlia non può essere colmato. il timbro vocale della tenerezza paterna è ormai dissolto. con l’alternarsi di miglioramenti e peggioramenti. 31 crepacuori: 32 salme: 33 300 onze: 34 legato: 35 a delle persone: 36 di essere: 37 quell’altro segreto: 38 E lui allora… Trao: 39 Allentò le braccia: 40 con… voce: 41 fra alternative di meglio e di peggio: >> pag. 175 peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto l’udì agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella canzone che non finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c’era. «Mia figlia!», borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la sua. «Chiamatemi mia figlia!». «Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla», rispose il domestico, e tornò a coricarsi. Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando delle bestemmie e delle parolacce. «Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo adesso? Vuol passar mattana! Che cerca?». Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare a dormire gli andò via a un tratto. «Ohi! ohi! Che facciamo adesso?», balbettò grattandosi il capo. 240 42 245 43 250 44 45 46 quei lamenti. L’espressione esprime il punto di vista del servitore, malevolo e seccato. pronunciando a denti stretti. voglia acuta e improvvisa, capriccio. vuol fare il matto! sollevò. 42 quella canzone: 43 masticando: 44 uzzolo: 45 Vuol passar mattana!: 46 tolse: Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio aspettare un po’, o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, e picchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto, spalancò le vetrate, e s’affacciò a prendere una boccata d’aria, fumando. Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra. «Mattinata, eh, don Leopoldo?». «E nottata pure!», rispose il cameriere sbadigliando. «M’è toccato a me questo regalo!». L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio. «Ah… così… alla chetichella?…», osservò il portinaio che strascicava la scopa e le ciabatte per l’androne. Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a un po’ la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nella stanza accanto. «Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica… E neanche lui… non vi mette più le mani addosso di sicuro…». «Zitto, scomunicato!… No, ho paura, poveretto… Ha cessato di penare». 255 260 47 48 49 265 270 275 La morte di Gesualdo e il coro funebre dei servitori sono le prime luci dell’alba. spazzole di ferro per pulire il pelo dei cavalli. le tende del letto a baldacchino di Gesualdo. 47 La finestra cominciava a imbiancare: 48 striglie: 49 le cortine del letto: >> pag. 176 «Ed io pure», soggiunse don Leopoldo. Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano – uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. «Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi… Basta, dei morti non si parla». «Si vede com’era nato…», osservò gravemente il cocchiere maggiore. «Guardate che mani!». «Già, son le mani che hanno fatto la pappa!… Vedete cos’è nascer fortunati… Intanto vi muore nella battista come un principe!…». «Allora», disse il portinaio, «devo andare a chiudere il portone?». «Sicuro, eh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa». 280 50 285 51 52 53 290 si vedono, cioè, le sue origini plebee. la calce impastata da cui Gesualdo ha ricavato la propria ricchezza. batista, tessuto di cotone pregiato, fine e leggero. in segno di lutto. 50 Si vede com’era nato: 51 la pappa: 52 battista: 53 chiudere il portone: Dentro il testo I contenuti tematici Il protagonista della , Mazzarò, vive esclusivamente per i beni materiali, considerati alla stregua di amanti fedeli. Privo di altri affetti e sentimenti, egli trova in essi una sorta di religioso risarcimento della propria solitudine. Senza moglie né figli, non conosce la pietà per il prossimo né l’amore filiale; la sua esistenza è simile a quella di un asceta che non si concede nulla. Roba Mazzarò e l’adorazione feticistica della roba Consacratosi a un destino irrevocabile ( rr. 89-90), la sua scelta è premiata dal successo ( r. 91), giusto riconoscimento alla sua dedizione, alla sua energia infaticabile. Alla stregua di un eroe epico o di un cavaliere medievale, Mazzarò ignora infatti le tentazioni e non abbandona mai la vita “povera”, logorando (rr. 86-87), andando (r. 86), ossessionato da un unico pensiero: accumulare. In questa spasmodica ricerca, egli non si pone limiti, sempre più ambizioso ( r. 140). Quando si avvicina la morte, però, il destino di Mazzarò si capovolge: da vincitore egli si trasforma in vinto. Invidioso della gioventù altrui, seduto malinconicamente (r. 145) a guardare le sue terre, egli prorompe in un urlo forsennato ( rr. 153-154) e, con un gesto estremo, al tempo stesso tragico e comico, ammazza a colpi di bastone le sue bestie. Il suo atteggiamento quasi di devozione religiosa verso l’accumulazione dei possedimenti terrieri, forse ritenuti un mezzo per tendere all’eternità, si scontra con il “tradimento” della morte, la quale separa la soggettività del suo io, destinato ormai alla fine, e l’oggettività della , che gli sopravvive, indifferente a lui e alla sua logica esistenziale. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba, Ed anche la roba era fatta per lui, i suoi stivali in giro, sotto il sole e sotto la pioggia voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, col mento nelle mani «Roba mia, vientene con me!», roba Dal successo all’angoscia Anche in la morte rivela il fallimento della vicenda umana del protagonista: accolto malato e stanco nella dimora della figlia Isabella, egli trascorre gli ultimi giorni come un (r. 9) oggetto delle ipocrite attenzioni del genero e della fredda indifferenza della figlia, che non gli perdona di averla costretta a un matrimonio infelice al solo fine di garantirsi un titolo nobiliare prestigioso. Perfino i servi lo guardano con disprezzo, invidiosi della scalata sociale realizzata da un uomo dalle origini umili come le loro. Mastro-don Gesualdo forestiero La solitudine e il fallimento affettivo di Gesualdo >> pag. 177 Proprio alla fine dell’esistenza, Gesualdo capisce l’inutilità della ricchezza, unica ragione della sua vita operosa. Ora che la in cui è immerso non è più riscattata dal lavoro e dalla lotta, che lo avevano tenuto impegnato celandogli l’ostilità del mondo, capisce che la sta per sfuggirgli e sarà presto destinata alla rovina. Le terre abbandonate, lo spreco delle risorse, i lussi della casa gli fanno comprendere di essere uno sconfitto sul piano degli affetti e su quello della roba che, per una sorta di spietata legge del contrappasso, sarà dissipata dal genero scialacquatore. solitudine roba La catastrofe di un aspirante borghese La scalata sociale di Gesualdo si è trasformata in un fallimento umano doloroso e in un isolamento che è la conseguenza della rottura del patto di solidarietà con la classe sociale da cui proviene. Anch’egli, come Mazzarò, ha costruito, mantenuto e accresciuto il proprio patrimonio grazie alla fatica e al sacrificio. Tuttavia, mentre Mazzarò, chiuso nella propria grettezza, non può concepire altro che un perpetuo bisogno di possesso, che si rivelerà . Per quanto tale decisione sia sempre dettata da motivi di convenienza, essa è di fatto la causa di tutti i suoi mali, economici e affettivi. Gesualdo si concede un’infrazione fatale: il matrimonio Una vittima dell’ambizione sociale C’è inoltre un’altra differenza tra i due uomini. Mentre in punto di morte Mazzarò vuole portare con sé la che ha accumulato, Gesualdo si appiglia disperatamente all’idea che essa possa sopravvivergli: a sancire la sua resa definitiva è la coscienza che questo non potrà accadere. Pur assillato anch’egli dall’attaccamento ai beni materiali, e benché incline come Mazzarò a una vita consacrata alla parsimonia e alla rinuncia, Gesualdo non può definirsi interamente né avaro né egoista, come notiamo dal pensiero rivolto ai figli illegittimi avuti prima del matrimonio, le ha (r. 218). Isabella, a cui chiede di lasciar loro qualcosa del patrimonio che sta per ereditare, non è capace però di entrare davvero in contatto con lui e i suoi occhi, dopo una breve, inespressa commozione, tornano indifferenti e insensibili: la distanza che separa padre e figlia si traduce così nello sdegnoso ritrarsi di Isabella, nella sua indisponibilità alla confidenza e nel riapparire della (r. 229), di fronte alla quale a Gesualdo non resta che rinunciare a ogni tentativo di comunicazione. In quegli occhi e nello sconforto senza lacrime di Gesualdo, rassegnato con dignità alla sconfitta ( rr. 231-232), Verga proietta il proprio radicale pessimismo sulle possibilità di salvezza dell’uomo, costretto a vivere in un mondo senza ideali, schiavo della sola morale utilitaristica e privato di vera affettività. roba persone verso cui degli obblighi ruga ostinata dei Trao fra le ciglia Allentò le braccia, e non aggiunse altro, Mazzarò e Gesualdo: la diversità di due “vinti” Le scelte stilistiche A differenza dell’“oppresso” Rosso Malpelo, che la società condanna alla marginalità, Mazzarò è un “oppressore”, ma eroe di un mondo che ne riconosce i valori e per questo lo rispetta e lo ammira. Ciò spiega perché Verga scelga, per raccontarne le imprese, la voce di un narratore complice, che aderisce alla sua mentalità e alla sua visione della vita. A eccezione dell’ (in cui il punto di vista è quello di un viandante che si presuppone colto) e del breve intermezzo dell’umile (r. 6), che non comprende le scelte di Mazzarò, il racconto sembra ispirato direttamente dalle convinzioni del protagonista. Così assistiamo, in un certo qual modo, alla sua celebrazione: dall’anonimo narratore popolare che con stupita ammirazione descrive come normali, anzi come lodevoli, i metodi del protagonista, non giungerà mai una parola di censura della sua ingordigia economica, mai un dubbio sul suo comportamento, mai il sospetto che la folle rincorsa del denaro lo abbia portato a recidere ogni legame con gli uomini e anche con sé stesso. Perfino la considerazione della morte della madre come fardello economico ( rr. 53-55) viene ritenuta del tutto normale: ma in realtà è evidente che spingendo alle estreme conseguenze la legittimazione delle azioni e della mentalità del protagonista, l’autore in chi legge o anche un moto di nauseata indignazione. Il modo in cui il narratore descrive le vicende del protagonista contiene perfino un che di leggendario o di fiabesco, a cui collaborano in modo decisivo accumulazioni* e iterazioni* ( r. 11) nonché l’uso delle iperboli*, spia evidente della trasfigurazione mitica di Mazzarò operata dall’immaginario popolare ( rr. 24-25). È il lettore a dover cogliere, dietro alla straniante impersonalità di Verga, il dramma di un uomo che, per dedicare alla la propria vita, finisce per essere travolto dall’inutilità dei suoi sforzi, nel delirante, finale abbraccio con tutto ciò che ha conquistato. incipit lettighiere Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto, induce una presa di distanza E cammina e cammina, Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, roba L’artificio dello straniamento nella … Roba >> pag. 178 La stessa si può rilevare nella delle ultime pagine di . È lo stesso protagonista che osserva la realtà del palazzo in cui è ospitato: la condizione di escluso in cui si trova gli permette di valutare la vacuità e l’insensatezza che vi regna. Anche durante il colloquio con Isabella, dietro l’apparenza di un’osservazione neutrale compiuta da un narratore esterno, a essere registrati sono soprattutto gli stati d’animo di Gesualdo: (rr. 181-182); (r. 214); (r. 225). Le fasi finali dell’agonia del protagonista vengono descritte attraverso il punto di vista del domestico con una serie di espressioni che sottintendono il suo cinismo e il disprezzo per il moribondo ( , r. 239; , r. 240; , r. 245; , r. 250: gli ultimi due termini sono toscanismi propri del linguaggio di scuderia e riferiti ai cavalli imbizzarriti). Al lettore non resta che avvertire lo sconsolato pessimismo di Verga, il quale non evita di concedersi però una deroga all’impersonalità: l’epiteto che riserva al morente alla r. 120 tradisce un sentimento di pietà per il tragico fallimento di un uomo ingannato dal miraggio della ricchezza e della potenza e dalla tragica illusione di governare il destino. ottica straniante variabilità dei punti di vista Mastro-don Gesualdo guardandola fisso per vedere se voleva lei pure La guardò fissamente E mentre la guardava capricci canzone contrabbasso uzzolo e mattana poveraccio … e in Mastro-don Gesualdo Verso le competenze La roba COMPRENDERE La novella può essere divisa in tre sequenze fondamentali: la descrizione della di Mazzarò; la sua storia; la conclusione della vicenda. Individua nel testo queste parti e riassumine il contenuto. 1 roba ANALIZZARE Individua le espressioni popolari presenti nella novella. 2 La presentazione iniziale di Mazzarò è affidata al punto di vista di un viandante sconosciuto, che osserva la proprietà del protagonista. Da quali elementi possiamo supporre il suo alto livello culturale? 3 INTERPRETARE Il testo è ricco di similitudini che si riferiscono al mondo naturale ( , r. 16; , r. 137) e animale ( , r. 31; , rr. 61-62). Perché, secondo te? 4 folto come un bosco come un fiume ricco come un maiale numerosi come le lunghe file dei corvi PRODURRE Mazzarò può essere considerato un perfetto esemplare di avaro. In che cosa consiste per te l’avarizia, anche in riferimento alla società di oggi? Esponi le tue idee in un testo espositivo e argomentativo di circa 30 righe. 5 La morte di Gesualdo COMPRENDERE Dove e in che modo muore Gesualdo? 6 ANALIZZARE Trova le espressioni che denunciano il fastidio o l’invidia dei servitori nei confronti del protagonista. 7 INTERPRETARE Il colloquio tra il protagonista e la figlia è costellato di punti di sospensione. Perché? 8