2. Il rischio ambientale 2.1 L’antropologia dei disastri I disastri ambientali, come i terremoti, le frane, le alluvioni, sono situazioni particolarmente gravi in cui o viene profondamente alterato. il nesso vitale fra comunità e ambiente si spezza Con la denominazione “ ” si indica quel filone di ricerche recente, ma già ben consolidato soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, in cui si applicano le teorie e i metodi tipici dell’antropologia culturale allo studio dei disastri intesi soprattutto nel senso di . antropologia dei disastri eventi naturali estremi Da alcuni anni molte discipline, sia nell’ambito delle scienze naturali (statistica, geologia, ingegneria antisismica e così via), sia in quello delle scienze sociali (sociologia delle organizzazioni, psicologia delle emergenze e così via), stanno sviluppando per affrontare il problema delle catastrofi naturali: in questo quadro il contributo dell’antropologia è ritenuto essenziale. approcci specifici I danni che un evento estremo produce in differenti sistemi sociali non dipendono soltanto dalla e dagli , per esempio dalla forza d’urto del sisma, dalla tipologia dei suoli e così via, ma derivano soprattutto dalle che si attivano durante e dopo la crisi, in funzione del tipo di cultura posseduto da ciascun sistema sociale nei confronti di quell’evento. L’antropologia dei disastri parte dal presupposto che gli effetti disastrosi della crisi siano già potenzialmente presenti nel sistema sociale colpito, nascosti come pericolosi in particolari aspetti di una comunità che , come per esempio: fisica dell’evento agenti di impatto reazioni sociali nemici invisibili influiscono sui comportamenti quotidiani delle persone la struttura di parentela; le modalità con cui si svolgono i processi decisionali; il ruolo del sistema di credenze; il modello di sussistenza; il sistema politico. Tutte queste componenti culturali influiscono direttamente sulla . In antropologia con il termine “rischio” si intende il rapporto fra la di un certo evento e la che quell’evento ha di verificarsi. percezione del rischio gravità probabilità L’antropologa britannica , in un libro molto famoso intitolato (1996), è stata la prima studiosa a mostrare come la gravità di un evento e la sua probabilità, pur essendo quantità misurabili in modo matematico e statistico, cioè in modo oggettivo, siano in realtà frutto delle delle persone, che si comportano in modi differenti proprio in base a esse. Mary Douglas |  L’AUTrice | ▶  Rischio e colpa percezioni soggettive può essere statisticamente dimostrato che la probabilità di avere un incidente grave è molto più alta in automobile che in aereo, eppure molte persone hanno una percezione esattamente contraria e si rifiutano di volare per paura di un evento avverso. Esempio: Le , e quindi i che si mettono in pratica in base a esse, possono determinare una all’evento estremo, cioè una maggiore o minore predisposizione a rimanerne più colpiti. percezioni del rischio comportamenti maggiore o minore ▶  vulnerabilità Come si generino queste percezioni è un problema molto complesso in antropologia e vi sono numerosi studi e teorie differenti. Il punto più importante da sottolineare è che (credenze, istituzioni politiche, forme economiche, relazioni familiari e così via) e dunque l’antropologia, che studia proprio questi fattori culturali, ha una grande rilevanza nei seguenti aspetti: tutti i fattori principali di una cultura influiscono sulle percezioni di rischio comprendere il comportamento delle persone prima e dopo un’emergenza; compiere una comunicazione efficace del rischio; tentare di diffondere pratiche per la riduzione della vulnerabilità. : possibilità, per qualcuno o per qualcosa, di subire un danno più o meno grave in conseguenza di una data situazione/evento. vulnerabilità  >> pagina 197    Mary Douglas l’autRICe Mary Douglas (1921-2007), nome di nascita Margaret Mary Tew, nasce a Sanremo, in Italia. All’età di dodici anni, dopo la scomparsa di sua mamma, viene cresciuta dai nonni materni in Inghilterra. Studia antropologia all’università di Oxford fino al 1943, dove interrompe gli studi per servire come volontaria durante la Seconda guerra mondiale e lavorare presso l’ufficio coloniale del governo britannico per poi laurearsi nel 1948. Consegue il dottorato in antropologia nel 1951, svolgendo la sua ricerca etnografica tra la popolazione Lele del Kasai con la supervisione dell’antropologo Evans-Pritchard. Diventa professore associato all’University College di Londra, e vi rimane fino al 1978 per poi trasferirsi negli Stati Uniti, dove ottiene la cattedra in antropologia e religioni alla Northwestern University di Chicago. Muore a Londra nel 2007. I suoi lavori sull’analisi comparata delle religioni, sulla teoria culturale del rischio e sul simbolismo, tra cui ricordiamo (1966), hanno attirato molti lettori al di fuori dell’antropologia, nonché ammirazione e controversie al suo interno. Purezza e Pericolo Nasce a Sanremo, Italia 1921 Consegue il dottorato in antropologia all’università di Oxford 1951 Pubblica 1966 Purezza e Pericolo Ottiene la cattedra in antropologia e religioni alla Northwestern University di Chicago 1978 Muore a Londra 2007 2.2 Il paradigma dell’ineluttabilità L’ , fra le isole di Giava e Sumatra, come una grande ghirlanda intrecciata intorno all’Equatore, è uno splendido ambiente naturale fatto di lussureggianti foreste e vulcani che si alternano a praterie di eucaliptus e sconfinate distese di campi di riso. L’Oceano Indiano e le acque dei vari mari interni che lambiscono le coste dell’arcipelago, come il Mar Cinese Meridionale e il Mar delle Andamane, non sono percepiti dagli indigeni come elementi separatori o barriere, ma, al contrario, costituiscono il , che ha consentito per millenni contatti, scambi e commerci. Un mosaico di etnie – tra cui i Gayo, i Rejang e i Lampong di Sumatra, i Toraja di Sulawesi, i Dayak del Borneo – di credenze, di festività e di rituali è attraversato da rapidi quanto radicali processi di modernizzazione e mutamento socioeconomico. arcipelago indonesiano tessuto vivo di connessione fra le isole Questo meraviglioso arcipelago è stato sconvolto da un terribile disastro naturale. Il 26 dicembre 2004, alle 18.58, a poche miglia a ovest dell’isola di Sumatra, nell’Oceano Indiano, a circa 10 chilometri sotto la crosta terrestre, si è verificato uno dei : 8.9 gradi della scala Richter, pari a 12 gradi della scala Mercalli. Il sisma ha inoltre provocato uno , ossia un gigantesco maremoto in grado di distruggere buona parte di ciò che incontrava sul proprio cammino: dal punto dell’epicentro, una grande onda concentrica ha cominciato la sua folle corsa alla velocità di circa 800 km/h abbattendosi sulle coste di Sumatra, Thailandia, Sri Lanka, India, Malesia, Maldive, provocando più di 200 mila morti. più intensi terremoti mai registrati nella storia dell’umanità tsunami Dopo la catastrofe, molti commentatori televisivi hanno evocato l’immagine di una Madre natura non molto materna e hanno discusso dell’estrema fragilità dell’uomo alla mercé di forze più grandi di lui. Sulla scorta del noto aforisma del filosofo americano Will Durant (1885-1981): «Le civiltà prosperano con il consenso della geologia, che però può cambiare opinione senza alcun preavviso», è stato sollevato il tema della e imprevedibilità di alcuni tipi di eventi naturali estremi. Questo concetto, che si definisce “ ”, si fonda su almeno tre idee implicite: assoluta casualità paradigma dell’ineluttabilità vi sono dei fatti, degli eventi, delle situazioni, che si possono definire in modo non ambiguo come “ ”, e tale definizione è assunta come evidente e non viene problematizzata; disastri naturali si può parlare di “ ” come un dato completamente oggettivo, cioè il concetto di natura può essere formulato in modo del tutto indipendente dalle comunità umane e dai processi di ; natura antropizzazione basta ricorrere semplicemente al “ ” per spiegare le connessioni fra eventi (ritenuti appunto “casuali”) in molti disastri, attribuendo loro un ristretto margine di conoscibilità. caso Vedremo proprio nell’esempio del grande terremoto nel Sud-Est asiatico quanto queste idee siano sbagliate e pericolose in termini di comprensione e prevenzione di un disastro naturale. Lo scienziato olandese (n. 1933), premio Nobel per la chimica nel 1995, ha introdotto la definizione di per il periodo geologico apertosi con la Rivoluzione industriale della seconda metà del Settecento. Per Crutzen la civiltà umana non è più in balia di forze naturali di tale intensità da plasmare la storia geologica del pianeta, poiché l’umanità stessa, con il vertiginoso progresso tecnologico degli ultimi due secoli, è diventata ormai una : «[...] l’Antropocene è l’unica epoca geologica in cui la natura non è una forza esterna che domina sul destino degli uomini: siamo noi, al contrario, a determinare i suoi equilibri». Paul Crutzen Antropocene forza di portata geologica Cartina dell’Indonesia. Sopra, due immagini satellitari di Sumatra, in Indonesia, prima e dopo il devastante terremoto e tsunami che ha colpito l’arcipelago il 26 dicembre 2004.  >> pagina 199  2.3 Le precondizioni del disastro L’antropologia mette in discussione il concetto stesso di , se per calamità naturale intendiamo un evento esclusivamente naturale e del tutto . Le calamità naturali in quanto tali non esistono: esistono piuttosto il naturale divenire di un pianeta attivo e la nostra incapacità di tenerne conto. I disastri non sono eventi repentini e imprevedibili dovuti esclusivamente a bizzarrie climatiche, oppure alla casualità o a tragici errori umani. Sono che si attivano gradualmente durante un e che alla fine precipitano in una situazione catastrofica. Interpretare il disastro in , come un fenomeno che si sviluppa nel corso del tempo, significa considerare che il disastro ha sempre delle : sono le precondizioni sociali, tecnologiche, politiche, economiche i fattori da cui parte l’incubazione di un disastro. calamità naturale indipendente dalle forme di antropizzazione dell’ambiente processi complessi lungo periodo di incubazione modo dinamico precondizioni Nel caso specifico dello tsunami che ha sconvolto il Sud-Est asiatico nel 2004 possiamo individuare almeno tre importanti precondizioni. Secondo l’antropologia, i disastri naturali, come le eruzioni vulcaniche e i terremoti, non sono eventi ineluttabili, davanti ai quali l’uomo non può nulla, ma derivano da processi lunghi e complessi in cui anche l’intervento umano sull’ambiente può essere un fattore scatenante.  >> pagina 200  In lingua tamil, parlata in Sri Lanka, in India, a Singapore e in gran parte dei territori che si affacciano sull’Oceano Indiano, la foresta di è definita da una parola che significa “ ”. Le ricerche antropologiche e i modelli di vulnerabilità per gli tsunami elaborati dagli scienziati naturali in molte aree costiere dell’Indonesia hanno evidenziato gli del disastro provocati dal . La struttura forte e ramificata di queste piante avrebbe agito positivamente sulla frammentazione e la conseguente perdita di potenza distruttiva del fronte d’onda dello tsunami, come ha fatto per esempio, in profondità, la barriera corallina in altre zone. Precondizione ecologica ▶  mangrovie albero-taglia-onde effetti amplificativi decennale e selvaggio abbattimento delle foreste di mangrovie a scopo edilizio : nome comune attribuito a molte specie di piante legnose, che crescono nei paesi tropicali sulle sponde delle lagune salmastre, sulle spiagge basse e fangose, allagate permanentemente o durante l’alta marea, nonché lungo gli estuari dei grandi fiumi. mangrovia La ramificazione delle mangrovie è abbastanza forte da indebolire la potenza delle onde e quindi da agire come deterrente per un disastro naturale come uno tsunami. Precondizione socioeconomica La precondizione ecologica che abbiamo indicato è conseguenza di una pericolosa precondizione socioeconomica del disastro, cioè una ben precisa . In anni recenti, il Sud-Est asiatico è diventato meta di sempre più intensi flussi di turisti da tutto il mondo. Le città e i villaggi del circuito più richiesto, in Thailandia, Singapore, Indonesia, Malesia e in particolare nelle isole di Sumatra, Giava e del Borneo, vengono rappresentati come territori mitici e favolosi, l’ultima frontiera dell’Estremo Oriente misterioso. Il materiale illustrativo delle agenzie turistiche alimenta potenti stereotipi dell’esotico; inoltre, la narrazione del buon selvaggio e dell’eden incontaminato, in questa specifica ideologia turistica, prevede e determina che i grandi alberghi e resort siano costruiti sempre più vicini alla spiaggia e al mare. La macchina edilizia produce dunque una , mutandone radicalmente i . In un’economia dell’ambiente di tipo liberista, nella quale il mercato deve essere mantenuto libero da vincoli dello Stato, in quanto capace di autoregolarsi per garantire il benessere, la natura non è considerata come un , ma è implicitamente intesa come una semplice da cui l’imprenditore può conseguire un profitto per soddisfare il desiderio del consumatore. Fra l’altro, in molte zone del Sud-Est asiatico gli ingenti profitti delle multinazionali del turismo non hanno una reale ricaduta in termini di miglioramento delle condizioni di vita locali; anzi, molte zone rimangono economicamente arretrate: l’indigeno scalzo che porta le valigie del turista accresce il senso stereotipato dell’esotico e del selvaggio. ideologia turistica |  APPROFONDIAMO | ▶  profonda e irreversibile alterazione del ▶  paesaggio fattori di equilibrio bene prezioso e fragile da proteggere merce : in antropologia si intende il prodotto dell’interazione fra le caratteristiche naturali di una data porzione di territorio e i significati che vi sono inscritti attraverso le percezioni, le pratiche, le narrazioni e gli scopi di chi lo abita e lo osserva. paesaggio   L’antropologia del turismo approfondiamo Negli ultimi decenni il turismo è diventato, assieme alle migrazioni, la forma più rappresentativa della mobilità del mondo globale. Quei luoghi che erano considerati “isolati” si stanno aprendo sempre più al turismo a mano a mano che l’economia internazionale si globalizza, grazie anche al miglioramento delle reti transnazionali dei trasporti e delle comunicazioni. Parallelamente, le popolazioni e le culture “oggetto” di conoscenza dei turisti vengono esotizzate e stereotipate per rendere l’esperienza turistica ancora più “autentica”. In antropologia, i primi studi sul turismo risalgono agli anni Settanta del secolo scorso, dove il contributo più importante, (“Ospitanti e ospiti. L’antropologia del turismo”) del 1977, è dell’antropologa statunitense Valene Smith (n. 1926). Questo libro dà il via a una riflessione antropologica riguardante i motivi, le cause, i modi e gli effetti degli spostamenti degli individui che vengono ospitati in contesti “altri” da gruppi di persone di culture differenti, e l’impatto di questi spostamenti sull’ambiente e sulle popolazioni locali. Questo tipo di incontri tra il turista e la popolazione ospitante ha fatto sì che gli antropologi iniziassero a guardare in maniera critica tutta una serie di concetti già trattati dalla disciplina, quali l’identità etnica, il mutamento sociale e culturale, e a ripensare al turismo come a una nuova forma di dominio neocoloniale, in linea quindi con una sorta di organizzazione gerarchica tra “centri” e “periferie” del mondo contemporaneo. I “paesi in via di sviluppo” sono difatti diventati la principale attrazione sia per i turisti benestanti sia per gli imprenditori e le multinazionali, che investono capitali nel settore turistico, incuranti delle conseguenze che i loro investimenti potrebbero avere sul paese, l’ambiente e la popolazione locale, la quale si ritrova all’interno di dinamiche di uno sviluppo indesiderato con pochi benefici. Gli studi antropologici hanno dunque esplorato le asimmetrie delle relazioni di potere negli sviluppi del turismo, gli stereotipi culturali e il fascino dell’esotico, la mercificazione del patrimonio e della cultura, le relazioni fra turismo ed etnia, identità e nazionalismo. Un altro filone importante è quello degli studi antropologici sul turismo sostenibile o “ecoturismo”, ovvero un’alternativa al turismo tradizionale e una ricerca di uno sviluppo che sia ecologicamente sano e rispettoso dei bisogni di tutti i soggetti coinvolti. Hosts and Guests: The Anthropology of Tourism Una folla di turisti sulla spiaggia Maya Bay a Ko Phi Phi Ley, Phuket, in Thailandia.  >> pagina 202  – Scienze umane: Antropologia & Sociologia FINESTRE INTERDISCIPLINARI Il concetto di rischio Il sociologo tedesco Niklas Luhmann (1927-1998) ha evidenziato che la costruzione della concezione moderna di “rischio” inizia nel tardo Medioevo, con la nascita dei primi gruppi di assicuratori nelle grandi città europee, per la tutela dei mercanti-navigatori del Mediterraneo e del Baltico. L’assicurazione era un sistema finanziario basato sulla probabilità di un evento temuto, contro la cui ricaduta economica ci si difendeva tramite la stipula di un contratto specifico. Nei contratti che regolavano chi avrebbe dovuto sopportare il danno nel caso che esso si fosse verificato, si trovano formulazioni quali: (“per rischio e caso”), (“per sicurezza e rischio”), (“per ogni rischio, pericolo e caso”) e così via. Fra il XVI e il XVII secolo, dall’ambito marinaro, il termine si affermò in Europa, assumendo via via significati molteplici: pericolo, audacia, caso, fortuna e così via. ad risicum et fortunam pro securitate et risico ad omnen risicum, periculum et fortunam Per Luhmann il rischio si configura come una esposizione agli effetti di una scelta di cui ci si potrà pentire, ma solo se effettivamente procurerà un danno che si sperava di evitare. Vi è quindi l’idea che non si hanno vantaggi se non si mette in gioco qualcosa, se non “si rischia”, cioè se non si decide di agire accettando l’incompletezza della propria conoscenza e l’incapacità di prevedere il futuro. Emerge qui la nozione di “probabilità”: non potendo prevedere con certezza quali effetti dannosi produrrà la mia scelta, mi chiedo se sono in grado almeno di stabilire le probabilità che si verifichi un evento dannoso a seguito delle mie azioni. Si può dire dunque che il rischio (R) è dato dalla relazione fra il danno (D) associato a un evento e le probabilità (P) che l’evento ha di verificarsi: R = D x P La determinazione complessiva del rischio si attua quindi attraverso due fasi: la determinazione che un dato evento costituisce un pericolo; la determinazione delle probabilità che quel dato pericolo si verifichi davvero. La situazione di rischio ha sempre a che fare con una “decisione”, con l’atto di compiere una scelta fra più alternative, valutando quella migliore sulla base di una conoscenza che non potrà mai essere perfetta ed esaustiva; inoltre la situazione di rischio chiama sempre in causa il fattore “tempo”: la bontà della scelta fatta, l’efficacia dell’azione intrapresa sono funzionali alla bontà degli effetti prodotti, degli obiettivi raggiunti, che tuttavia non si possono mai completamente determinare prima di aver operato la scelta e dato corso all’azione. Le ricerche attuali hanno mostrato che la valutazione del rischio è sempre una “costruzione culturale” che dipende: dal soggetto preposto a valutare che un dato evento è pericoloso; dal tempo necessario per accertare che un dato evento costituisce un pericolo; dal soggetto preposto a valutare le probabilità che il danno si verifichi. Anche quando fosse accertato che le probabilità di incidente per esempio in una centrale nucleare sono dello 0,1%, la decisione che quel rischio è “accettabile” dipende sempre da considerazioni di carattere culturale, sociale e politico, e non da ragionamenti di tipo matematico. Secondo il sociologo tedesco Ulrich Beck (1944-2015), dalla Rivoluzione industriale ottocentesca in poi, cioè dall’epoca della modernità, caratterizzata da una società distributrice di ricchezza, siamo passati gradualmente all’epoca attuale, della post-modernità, caratterizzata dai problemi e dalle paure di una società distributrice di rischio. Vi è però una fondamentale differenza: nei molteplici tentativi utopistici o ideologici di creare il migliore dei mondi possibili, la ricchezza è stata sempre distribuita in modo diseguale; il rischio al contrario sta diventando l’unico “bene” sociale che viene distribuito a ognuno in modo effettivamente democratico. [...] Prima o poi i rischi della modernizzazione colpiscono anche chi li produce o trae profitto da essi. Contengono un che fa saltare lo schema di classe e la dimensione nazionale. I disastri ecologici e le radiazioni atomiche ignorano i confini delle nazioni. [...] Le ricchezze si possono , dai rischi si può solo essere colpiti; essi ci vengono, per così dire, dalla civiltà. effetto boomerang possedere ascritti U. Beck, , Carocci, Roma 2000, pp. 30-31 La società del rischio  >> pagina 203  Precondizione culturale Molte ricerche etnografiche hanno evidenziato che in questa calamità ha avuto un ruolo importante anche una precondizione culturale al disastro, e cioè il . Tutti i gruppi nativi locali come gli isolani delle Andamane, già protagonisti di una celebre monografia etnografica del 1922 di (1881-1955), si sono salvati perché da secoli e non sulla costa. I Dayak del Borneo, i Lampong di Sumatra, i gruppi Onge delle Piccole Andamane, gli Jerowa, gli Shompens della Grande Nicobare hanno sviluppato una . totale disinteresse per i saperi ecologici nativi Alfred R. Radcliffe-Brown costruiscono i loro villaggi nell’interno comprensione sensoriale del paesaggio estremamente accurata L’antropologo britannico (n. 1948) è fra i maggiori studiosi contemporanei dei saperi ecologici nativi legati al paesaggio. Nei suoi libri ha evidenziato che il paesaggio non va inteso in modo semplicemente passivo, come fosse un panorama che ci si ferma ad ammirare per la sua bellezza, ma va compreso in , come uno spazio di vita i cui elementi diventano . Le popolazioni locali colgono perfettamente le pericolosità di certi fenomeni naturali; sin nei più piccoli segnali d’allarme: l’intensità del vento, il colore dell’acqua, il comportamento degli animali. Gli isolani delle Andamane non dispongono di tecnologie né di sistemi di allerta contro gli tsunami. Essi hanno agito e non contro natura, conservando la più di quanto non abbiano saputo fare gli esperti. I nativi non hanno dimenticato che abitano in una regione di terremoti e si sono protetti rifugiandosi nella boscaglia non appena hanno capito, , che quella marea era fuori fase rispetto al ritmo consueto. Tim Ingold modo attivo patrimonio culturale sanno leggere il paesaggio secondo natura memoria della terra interpretando in modo attivo il cambiamento del paesaggio In quella regione, fenomeni sismici di grande intensità sono accaduti molte volte nell’arco dei secoli, e la loro conoscenza è stata codificata e incorporata in leggende, narrazioni mitiche, storie locali e fiabe da tramandare: ciò mostra il grande valore di una . Al contrario, in Thailandia i responsabili del Dipartimento meteorologico hanno sottovalutato l’allarme perché la loro memoria si era focalizzata sul 1998 quando era stato previsto uno tsunami sulla costa di Puket che poi però non si era verificato. Furono condannati da tutti per aver allontanato i turisti provocando ingenti danni economici senza un reale motivo. etnodiversità che salva la vita La precondizione culturale in questa circostanza è stata quindi il non dare ascolto alle e alla . conoscenze dei nativi memoria della terra ⇒ |  T3 malalaka p. 209 La degli Zafimaniry  >> pagina 204  2.4 Storicizzare la vulnerabilità Gli antropologi americani contemporanei e sono considerati i maggiori studiosi ad avere dato impulso all’antropologia dei disastri. Uno dei loro volumi più famosi, dal titolo (2002), riassume il punto chiave di questo ambito di studi: per l’antropologia culturale il disastro è un fenomeno che si manifesta nel ; è sempre un processo dinamico causato dalle interazioni profonde fra queste tre sfere. Contro la semplificazione interpretativa dei fenomeni, che riduce tutto a una questione tecnico-fisica, e contro il fatalismo irresponsabile per cui gli esseri umani sono in balia di una natura imprevedibile e capricciosa, fare antropologia dei disastri significa studiare la , cioè il suo , mediante due operazioni: Susanna Hoffman Anthony Oliver-Smith Catastrofe e cultura: l’antropologia dei disastri punto di connessione fra società, tecnologia e ambiente struttura diacronica dell’evento estremo divenire nel tempo ricostruire la storia politica, economica, culturale dei gruppi sociali coinvolti; ricostruire la storia fisica, climatica e geologica dei territori coinvolti. Porre in relazione fra loro le con le significa e individuare le , per comprenderne la dinamica e poterlo evitare. biografie di comunità biografie di luoghi storicizzare la vulnerabilità precondizioni di un disastro per lo studio Che cosa si intende con il termine “rischio” in antropologia? 1. Che cos’è l’antropologia dei disastri? 2. Perché l’antropologia critica l’idea che i disastri naturali siano per lo più ineluttabili? 3.     Per discutere INSIEME Pensa al disastro ambientale avvenuto recentemente che più ti ha colpito, e cerca le notizie sui giornali, leggendo i commenti dei politici, le opinioni dei cittadini e dei testimoni diretti. Come viene interpretato e spiegato il disastro da queste persone? Discutine in classe con i tuoi compagni.