trecci CINEMA in La mandragola di Alberto Lattuada Nel 1965 il regista Alberto Lattuada (1914-2005) si misura con La mandragola di Machiavelli, uno dei testi di riferimento del teatro italiano. Lattuada ha già attinto dalla letteratura (per esempio, tra il 1947 e il 1953 ha tratto Il delitto di Giovanni Episcopo da d’Annunzio, Il mulino del Po da Bacchelli, Il cappotto da Gogol’, La lupa da Verga) e conosce dunque gli ostacoli da superare per tradurre in immagini un’opera che già gode di vita propria nella tradizione. Un fotogramma della di Lattuada. Mandragola Dal palcoscenico al grande schermo La commedia di Machiavelli offre un preciso impianto teatrale, un solido sviluppo narrativo, dialoghi efficaci, personaggi definiti e una profonda lucidità di pensiero nel raccontare le “regole del gioco” del mondo in cui visse l’autore. Sfruttando l’inesorabile spirito d’osservazione di Machiavelli (e il suo anticlericalismo), Lattuada reinventa nel linguaggio cinematografico il testo di partenza: per rendere l’opera più appetibile al pubblico contemporaneo, adatta ritmo e situazioni, alleggerisce i toni (meno pessimistici), utilizza i corpi femminili (anche quello di una statua antica, la cui nudità desta scandalo) e gli spazi esterni, urbani e non (la scena dello stregone in cerca della mandragola). La rilettura di Lattuada parte dagli ambienti. L’azione si svolge a Firenze ma il set è Urbino, che conserva lo spirito del glorioso passato e vanta architetture affini a quelle fiorentine; così, la fotografia di Tonino Delli Colli trasmette le atmosfere del primo Cinquecento senza distrarre lo spettatore con scenari da cartolina. Inoltre, sul piano linguistico, il “fiorentino” è usato esclusivamente da contorno per qualche siparietto di colore. Soprattutto, Lattuada accentua un elemento: nel celebrare il trionfo dell’arguzia sulla stoltezza, introduce una malizia di fondo che conferisce al film un’anima quasi settecentesca (il seduttore Callimaco sembra possedere qualche tratto di Don Giovanni). Le manipolazioni del regista sono evidenti in alcune scene aggiuntive: la predica “alla Savonarola” che si vede all’inizio (la scena contribuisce a storicizzare la narrazione, segnando il passaggio dal Medioevo al Rinascimento) si contrappone al sotteso erotismo della giocosa sequenza alle terme, dove gli uomini disposti a pagare un sovrappiù possono spiare le donne seminude nelle loro spensierate abluzioni. Lattuada però non scade mai nella farsa: la sensualità che si respira è estranea alla deriva pruriginosa cui si sta abbandonando un certo cinema italiano negli anni Sessanta. Una commedia dalla parte della donna Per Lattuada la dimensione del desiderio erotico è resa da un semplice ma intrigante meccanismo: celare la bellezza femminile, poi farla intravedere, quindi sottrarla di nuovo. Fulcro dell’intera vicenda diventa perciò il corpo dell’avvenente Lucrezia: le forme perfette di Rosanna Schiaffino sono l’oggetto del desiderio dello scaltro Callimaco (Philippe Leroy) ma anche della macchina da presa. Lattuada se ne serve per condannare la corruzione della borghesia: Romolo Valli conferisce tinte grottesche allo sciocco messer Nicia, e nel finale rivela una maliziosa consapevolezza nel sacrificare le grazie della bellissima moglie per garantirsi la trasmissione del patrimonio. Dunque l’attualità della di Lattuada si avverte anche nell’esaltazione della donna, non solo in senso estetico. Di fronte a un’ingiusta condanna per sterilità (chi non può procreare è invece Nicia), l’austera Lucrezia sceglie coscientemente la vendetta tramutandosi da simulacro della virtù in fedifraga voluttuosa; costretta dagli eventi a piegarsi all’interesse del “maschio”, la donna è capace di uscirne vincitrice traendo un personale appagamento. Mandragola A modernizzare l’intreccio concorre anche l’interpretazione di Totò, che apporta alla forza comica di fra’ Timoteo un carattere da Pulcinella, bilanciando impudenza e candore, opportunismo e saggezza: «È la volontà che pecca, non il corpo», spiega a Lucrezia per convincerla che il suo adulterio non è peccato. Con la gestualità e le espressioni del viso, Totò trasforma la spregevole e immorale invenzione di Machiavelli in una spassosa macchietta, che induce noi spettatori più al divertimento che all’indignazione.