Il primo Novecento – L'autore: Umberto Saba il carattere Una gioia di vivere oscurata da una profonda sofferenza interiore La biografia di Saba è quella di un uomo mite, che vive un’intera esistenza cercando di superare una sofferenza dalle origini antiche, in parte mitigata dagli affetti familiari ma mai del tutto sopita. La madre, lasciata dal marito quando è ancora incinta, si distacca a sua volta dal figlio, affidandolo a una balia, per poi riprenderlo con sé quando il legame del bambino con quest’ultima è diventato molto forte. La separazione dalla balia gli causa dunque un secondo trauma, e inoltre il ricongiungimento con la madre non avviene senza difficoltà: la donna ha un carattere duro e austero, ed è costantemente angosciata dai problemi economici, oltre che abbattuta per l’abbandono da parte del marito (che il poeta conoscerà soltanto nel 1905). I disturbi psicologici di cui soffre Saba, e che sfoceranno più tardi in quell’ansia cronica con cui dovrà convivere per tutta la vita, sono forse anche conseguenza di questa situazione familiare tormentata. Il poeta racconta di sentirsi minacciato da un ricorrente «pensiero coatto» di carattere distruttivo, e nel 1929 scrive: «È una nevrosi ossessiva, dalla quale non trovo scampo, nemmeno momentaneo. L’unica cosa che posso ancora sognare è una malattia mortale, la quale mi tolga dal mondo senza che io ci metta la mano». Sotto la superficie solare della sua poesia, caratterizzata sin dalle prime prove da ritmi quasi cantabili, si nasconde infatti un’acuta sofferenza interiore: «Quante rose a nascondere un abisso!», recita un suo verso ( ). Un intenso amore per la vita lo porta a bramare un rapporto armonioso con la realtà, che gli appare tuttavia sotto una luce drammatica, raramente foriera di serenità e pacificazione. Come osserva Giulio Ferroni, Saba avverte costantemente un bisogno «di comunicazione tenera e affettuosa con il mondo, di partecipazione alla vita collettiva, ma ostacolato da un senso angoscioso della propria diversità, dalla minaccia della nevrosi». I traumi infantili Il senso di vuoto Secondo congedo 2 Le opere La prima e più importante attività creativa di Saba è quella poetica. Egli pubblica diverse raccolte, tutte in seguito confluite nel . L’opera ha avuto varie edizioni, sensibilmente diverse tra loro e di volta in volta arricchite dai nuovi componimenti: la prima è del 1921, la seconda del 1945, mentre l’ultima e definitiva (dopo alcune altre) esce postuma nel 1961. Al è dedicata la seconda parte dell’unità ( p. 521). Canzoniere Canzoniere ► La produzione in versi Strettamente legata al è (1948), una sorta di . Nel 1946 esce la raccolta , che presenta brevi testi scritti quasi tutti l’anno precedente, oltre a pochi brani risalenti agli anni Trenta. L’autore manifesta qui una – che si esercita su temi sociali, politici, culturali e letterari – e una volta a demistificare le forzature e le rigidità delle ideologie. Nel 1956 viene pubblicato il volume , che contiene testi memorialistici e narrativi scritti per lo più negli anni Dieci e caratterizzati da uno . Un ricco , infine, attende ancora di essere ordinato. Canzoniere Storia e cronistoria del Canzoniere autocommento del poeta ai propri versi Scorciatoie e raccontini tendenza all’aforisma vena ironica Ricordi–Racconti stile aereo e a tratti fiabesco epistolario Gli scritti in prosa Il Ernesto, scritto nel ma rimasto e pubblicato postumo soltanto nel 1975, affronta un tema che, ai tempi della sua stesura, rappresentava ancora un tabù: l’ . Protagonista dell’opera – ispirata a un’esperienza giovanile dell’autore – è Ernesto, di Saba, un ragazzo di sedici anni che affronta la propria iniziazione alla vita attraverso una relazione con un uomo ventottenne. Ernesto supera la sua fase omosessuale, che rimane però latente nel suo inconscio (il libro si interrompe proprio con l’incontro tra il protagonista e un giovane della sua età, Ilio). Il libero esercizio della sessualità è narrato come un fatto positivo e naturale, ed è descritto con affettuosa ingenuità, sebbene lo scrittore, a distanza di tanti anni, guardi a quell’episodio della propria giovinezza non senza una certa sofferenza. romanzo autobiografico 1953 incompiuto omosessualità alter ego Ernesto >> pag. 508 La vita Le opere • Nasce a Trieste 1883 • Si trasferisce a Firenze ed entra in contatto con gli intellettuali della “Voce” 1905 • Svolge il servizio militare a Firenze e a Salerno 1907–1908 • Rientra a Trieste e sposa Carolina Wölfler, detta Lina 1909 • Nasce la figlia Linuccia 1910 Poesie • A Trieste rileva la libreria antiquaria che gestirà per tutta la vita 1919 1921 Prima edizione del Canzoniere • A causa delle leggi razziali lascia Trieste per Parigi 1938 1945 Seconda edizione del Canzoniere 1946 Scorciatoie e raccontini 1948 Storia e cronistoria del Canzoniere • Muore la moglie Lina 1956 Ricordi–Racconti • Muore a Gorizia 1957 1961 Edizione definitiva del Canzoniere 1975 Pubblicazione di Ernesto 3 I grandi temi La concezione della poesia In – un articolo scritto nel 1911 per la “La Voce”, che però lo rifiuta, e pubblicato nel 1959, cioè solo dopo la morte dell’autore – Saba individua il compito fondamentale del poeta nel «fare la poesia onesta». L’idea di ha a che fare sia con i , sia con lo : la poesia deve essere lo , mentre le devono essere . Quello che resta da fare ai poeti onestà contenuti stile specchio sincero dell’interiorità del poeta scelte stilistiche semplici e antiretoriche Una nuova idea di poesia: l’onestà Saba approda così a una (soprattutto antidannunziana) e nettamente ( p. 687), lontana cioè dal filone della “poesia pura” espresso dall’Ermetismo. L’autore continuerà a rivendicare questa scelta lungo tutto il suo percorso, fino a renderla esplicita in (1948), testo di grande importanza per una piena comprensione della sua poetica. L’intera opera di Saba – pur con accenti diversi nelle sue varie fasi – appare perciò lontana dalla ricerca di uno stile “puro” e di un linguaggio assoluto. Egli ritiene che il poeta debba rifarsi alla grande tradizione italiana che va da e (presenza evidente sin dal titolo della sua raccolta poetica) a , stemperando però gli stilemi solenni in un linguaggio complessivamente più semplice, come dichiara nella lirica : «Amai trite parole che non uno / osava. M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo». , paradossalmente, sono obiettivi più difficili da raggiungere rispetto all’oscurità di molta parte della poesia del tempo. poetica di tipo antisimbolista, antidecadente antinovecentista ► Storia e cronistoria del Canzoniere Dante Petrarca Leopardi Amai Semplicità e trasparenza L’antinovecentismo di Saba Ne consegue, dal punto di vista formale, il prevalente nella lirica europea tra Otto e Novecento, a vantaggio di un . Del patrimonio retorico e stilistico classico Saba fa un uso per così dire artigianale e antieloquente: la rima e la verseggiatura raffinata, l’iperbato, l’ , l’uso sapiente della metafora sono tutte testimonianze di una poesia colta, che però egli inserisce in uno ; la storia letteraria è conosciuta e interiorizzata dal poeta, ma i suoi modi vengono applicati a tematiche semplici, comuni e quotidiane. rifiuto dello sperimentalismo metrico recupero della tradizione enjambement stile dimesso Le conseguenze sul piano formale Sandro Botticelli, , 1470-1480. Londra, National Gallery. Ritratto di giovane uomo T1 La poesia onesta Quello che resta da fare ai poeti Presentiamo ampi stralci dell’articolo scritto da Saba nel 1911, un documento molto importante per la comprensione dell’arte e della personalità dell’autore. e della Verità menzogna letteratura Ai poeti resta da fare la poesia onesta. C’è un contrapposto, che se può sembrare artificioso, pure rende abbastanza bene il mio pensiero. Il contrapposto è fra i due uomini nostri più compiutamente noti che meglio si prestano a dare un esempio pratico di quello che intendo per onestà e disonestà letteraria: è fra Alessandro Manzoni e Gabriele d’Annunzio: fra gli e i , e il secondo libro delle Laudi e la Nave: fra versi mediocri ed immortali e magnifici versi per la più parte caduchi. L’onestà dell’uno e la nessuna onestà dell’altro, così verso loro stessi come verso il lettore (perché chi ha un candido rispetto per l’anima propria, lo ha anche, all’infuori della stima o disistima,4 per quella cui si rivolge) sono i due termini cui può benissimo ridursi la differenza dei due valori. A chi sa andare ogni poco oltre la superficie dei versi, apparisce in quelli del Manzoni la costante e rara cura di non dire una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione: mentre vede che l’artificio del d’Annunzio non è solo formale ma anche sostanziale, egli si esagera o addirittura si finge passioni ed ammirazioni che non sono mai state nel suo temperamento: e questo imperdonabile peccato contro lo spirito egli lo commette al solo e ben meschino scopo di ottenere una strofa più appariscente, un verso più clamoroso. Egli si ubriaca per aumentarsi, l’altro è il più astemio e il più sobrio dei poeti italiani: per non travisare il proprio io e non ingannare con false apparenze quello del lettore, resta se mai al di qua dell’ispirazione. Questa austerità, in lui innata, era poi accresciuta da motivi religiosi; perché certo egli credeva che Dio che gli aveva dato il genio, gli avrebbe chiesto conto di ogni parola, direi quasi di ogni interpunzione. Ne viene che quando ad uno dei due manca con la perfetta espressione la perfetta opera 1 5 Inni Sacri Cori dell’Adelchi 2 3 10 5 6 15 7 8 20 9 contrapposizione. destinati a cadere, cioè a essere dimenticati. genuino. indipendentemente da quanto si stimi il prossimo. spesso. forma meno comune per “appare”. maggiormente capace di impressionare il lettore. al fine di sembrare più grande di quello che è. si ferma prima di uno slancio che possa apparire eccessivo. 1 contrapposto: 2 caduchi: 3 candido: 4 all’infuori… disistima: 5 ogni poco: 6 apparisce: 7 più appariscente: 8 per aumentarsi: 9 resta… dell’ispirazione: >> pag. 510 d’arte,se questi è il Manzoni, non per tanto egli ci diventa antipatico, come uno che erra per imperizia o per paura di derogare da quello che in buona fede ritiene sia il giusto ed il vero; se invece è il d’Annunzio egli ci irrita e disgusta come un individuo che spenda la sua ammirevole eloquenza meridionale per imporci una mercanzia sospetta. […] Chi non fa versi per il sincero bisogno di aiutare col ritmo l’espressione della sua passione, ma ha intenzioni bottegaie o ambiziose, e pubblicare un libro è per lui come urgere una decorazione o aprire un negozio, non può nemmeno immaginare quale tenace sforzo dell’intelletto, e quale disinteressata grandezza d’animo occorra per resistere ad ogni lenocinio, e mantenersi puri ed onesti di fronte a se stessi: anche quando il verso menzognero è, preso singolarmente, il migliore. […] L’onestà letteraria è prima un non sforzare mai l’ispirazione, poi non tentare, per meschini motivi di ambizione o di successo, di farla parere più vasta e trascendente di quanto per avventura essa sia: è reazione, durante il lavoro, alla pigrizia intellettuale che impedisce allo scandaglio di toccare il fondo; reazione alla dolcezza di lasciarsi prender la mano dal ritmo, dalla rima, da quello che volgarmente si chiama la vena. Benché esser originali e ritrovar se stessi sieno termini equivalenti, chi non riconosce in pratica che il primo è l’effetto e il secondo la causa; e parte non dal bisogno di riconoscersi ma da uno sfrenato desiderio dell’originalità, per cui non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quello che gli altri hanno detto; non ritroverà mai la sua vera natura, non dirà mai alcunché di inaspettato. Bisogna – non mi si prenda alla lettera – essere originali nostro malgrado. Ed infatti, quali artisti lo sono meno che quelli in cui è visibile lo sforzo per diventarlo? Essi non riescono il più delle volte ad essere nemmeno personali: e vanno tanto più famosi per la spudoratezza dei furti e la vastità dei saccheggi: in quanto che nello stesso tempo che compiono una rapina la condannano, e si affermano miliardari che vivono del proprio. Anche mi apparisce dannosa la paura di ripeter se stessi: quando un sentimento è innato ed è innato il bisogno dell’espressione, è naturale che fino che l’uomo non può uscire dal proprio io, quel sentimento e quell’espressione si ripetano, con l’ossessione di chi sente qualcosa che la parola e il suono e tutte le arti e tutti i mezzi esteriori non possono mai rendere alla perfezione: quindi l’inappagamento dopo ogni opera e la speranza di dir meglio la prossima volta. Sono pieni di ripetizioni il del Petrarca e quello del Leopardi e la parte più sublime della “Il Paradiso”; perché questi poeti cercavano di sfogare una loro grande passione e non di sbalordire come dei giocolieri, che guai se ripetono due volte lo stesso numero. E se l’ispirazione è sincera, e subisce quindi l’influenza del particolar momento in cui nasce, c’è sempre, per quante volte si ripeta, qualcosa che la contraddistingue; una inaspettata freschezza o una più grande stanchezza, uno scorcio di spettatore o di paesaggio, una diversa stagione od ora del giorno; qualcosa che dà al verso il suo colore unico e che solo l’occhio del profano può confondere con l’impressione antecedente. Né questa 25 10 11 12 30 13 14 15 35 16 17 40 18 45 19 50 20 55 Canzoniere Commedia 60 65 non per questo. incapacità, inesperienza. allontanarsi. agisce per interesse. chiedere, sollecitare. attrattiva, come quelle dello stile e della forma quando siano fini a sé stesse. per caso. che risparmia all’autore di scandagliare fino in profondità il proprio io, la propria interiorità. siano. i due termini si riferiscono ai prelievi da autori imitati, o addirittura copiati. Forse Saba si riferisce qui a d’Annunzio, che più volte era stato accusato di plagi letterari. si dichiarano. 10 non per tanto: 11 imperizia: 12 derogare: 13 ha intenzioni bottegaie: 14 urgere: 15 lenocinio: 16 per avventura: 17 che impedisce… il fondo: 18 sieno: 19 furti… saccheggi: 20 si affermano: >> pag. 511 onestà è possibile che in chi21 ha la religione dell’arte, e l’ama per se stessa e non per la speranza della gloria, ma il paradiso del successo o il purgatorio dell’insuccesso, se non lo lasciano del tutto indifferente, non menomano il suo amore e non lo fanno, per avidità di battimani, volgere né a destra né a sinistra. […] A questa maggiore onestà nel metodo di lavoro, deve necessariamente corrispondere un più austero programma di vita. Il poeta deve tendere ad un tipo morale il più remoto possibile da quello del letterato di professione, ed avvicinarsi invece a quello dei ricercatori di verità esteriori o interiori, le quali, salvo forse la più alta forma di intellettualità che occorre per investigare le seconde, sono tutt’una cosa. […] 70 e questa onestà è possibile solamente in chi. 21 Né… che in chi: Dentro il testo I contenuti tematici Prima di Saba, il concetto di onestà non era mai comparso nella riflessione letteraria. Le finalità della poesia erano individuate piuttosto nelle categorie del dilettevole e dell’utile, o in una combinazione delle due, come nella famosa formula dell’ (l’unione, appunto, di utile e piacevole) coniata dal poeta latino Orazio, in base alla quale la poesia ha il compito di intrattenere, ma anche di fornire validi insegnamenti etici. Le poetiche simboliste e decadenti si distaccano da questa impostazione, puntando all’espressione di verità profonde attraverso un linguaggio prezioso e cifrato, indagando il potere evocativo della parola perseguendo (come avviene in d’Annunzio) un obiettivo di eleganza e musicalità della versificazione. Saba ha un’idea diversa. Egli identifica, all’interno della storia letteraria italiana, due distinte tendenze: quella rappresentata dai (rr. 6–7) di Manzoni, e quella recentemente incarnata da Gabriele d’Annunzio, con i suoi (r. 7). Il primo è esempio di onestà, essendo sempre coerente e sincero con sé stesso, e quindi libero dalla tentazione della retorica (non dice mai , rr. 13–14). D’Annunzio, invece, è disonesto sia sul piano dello stile sia su quello dei contenuti (il suo […] , rr. 14–15), giacché egli deforma la realtà e i suoi stessi sentimenti. utile dulci versi mediocri ed immortali magnifici versi per la più parte caduchi una parola che non corrisponda perfettamente alla sua visione artificio non è solo formale ma anche sostanziale Manzoni contro d’Annunzio Saba è dunque in aperta polemica con la poesia a lui contemporanea, richiamandosi piuttosto ai padri nobili del canone letterario – Dante, Petrarca, Parini, Manzoni, Leopardi – e proponendo un deciso «ritorno alle origini». Per Saba scrivere versi significa […] (rr. 30–31). Egli sostiene, in altri termini, un’identità tra vita e letteratura, un’immediata trasposizione della prima nella seconda. Lo (r. 39) del poeta deve scendere nelle profondità dell’animo, senza pretendere che la poesia tratti di questioni universali. L’originalità è un valore, ma può essere raggiunta solo attraverso un rigoroso esercizio della sincerità. Non bisogna temere, quando occorra, di utilizzare parole già usate da altri ( , rr. 44–45), né tanto meno di ripetere sé stessi, anche perché lo sforzo di apparire originali suggerisce spesso soluzioni false e finisce con il produrre il risultato opposto. La poesia onesta è possibile solo per gli autori che mettono al primo posto l’arte, e non la propria ambizione ( , r. 67), senza farsi influenzare dal successo o dall’insuccesso. aiutare col ritmo l’espressione della passione scandaglio dire anche quello che gli altri hanno detto la speranza della gloria Il programma poetico di Saba >> pag. 512 Verso le competenze COMPRENDERE Con quali argomenti Saba accoglie il modello di Manzoni e rifiuta quello di d’Annunzio? 1 Perché Saba invita i poeti a non temere di ripetersi? 2 ANALIZZARE Analizza la metafora dello (r. 39). Dopo aver chiarito il significato letterale del vocabolo, spiega a quale scopo l’autore lo impiega qui. 3 scandaglio Evidenzia nel brano le frasi che si riferiscono all’importanza della tradizione. 4 INTERPRETARE In che senso l’autore pensa che (rr. 41– 42)? E che cosa intende quando afferma che […] (r. 46)? 5 esser originali e ritrovar se stessi sieno termini equivalenti Bisogna essere originali nostro malgrado PRODURRE Facendo riferimento alle idee espresse da Saba nel suo articolo, quale pensi potesse essere la sua posizione nei confronti dei Futuristi e dei Crepuscolari? Affronta l’argomento in un testo argomentativo di circa 30 righe. 6 Autobiografismo e confessione La , per Saba, è anzitutto un modo per . Il suo – quasi un diario, una sorta di confessione prolungata nel tempo – è il tentativo di conquistare un , aderendo in modo immediato, quasi fisico, alla realtà, senza complicazioni filosofiche né tanto meno velleità superomistiche. Saba parla del dovere di acquisire la « », ossia la capacità di guardare la propria intimità in maniera schietta e diretta. Conoscere sé stessi è però un lavoro faticoso, che costa sacrifici, e la scrittura comporta quindi un impegno costante e denso. scrittura comprendere la propria interiorità Canzoniere senso integro e non frantumato dell’esistenza chiarezza interiore La letteratura come autocoscienza Per riuscire nel suo intento Saba utilizza, senza dichiararlo apertamente, gli strumenti della psicanalisi. I temi autobiografici del vengono infatti affrontati attraverso il filtro della teoria freudiana, cui l’autore si accosta inizialmente per ragioni di tipo terapeutico. Soffrendo fin dall’adolescenza di forti (nel 1929 scrive all’amico scrittore Alberto Carocci che ci sono giorni in cui non riesce né a mangiare né a dormire: «Tutte le forze distruttive della psiche si sono aperte un varco nella mia anima: e, per colmo di sventura, ho un’inibizione al suicidio, che sarebbe la sola soluzione logica a questo stato di cose»), si sottopone a una terapia psicanalitica con il dottor Edoardo Weiss (1889–1970), allievo di Freud e fondatore, nel 1932, della Società italiana di psicanalisi. La conoscenza di Freud conferma a Saba alcune intuizioni sull’importanza delle esperienze infantili nella formazione della personalità, e la psicanalisi gli appare di conseguenza un fondamentale . Ma, come in Svevo, affiora anche in lui la sfiducia verso gli effetti terapeutici del trattamento e del ruolo che la stessa letteratura può avere nella cura della psiche. L’angoscia che pervade il poeta investe così anche la sua passione più grande: «M’è subentrata», scrive ancora a Carocci, «un’intima invincibile avversione alla letteratura. Essa non m’interessa più: e vorrei distruggere tutto quello che ho fatto». Canzoniere crisi depressive strumento per la conoscenza dell’animo umano L’incontro con la psicanalisi Particolarmente evidente è la presenza di alcune categorie freudiane – conscio/inconscio, divieto sociale, trasgressione della norma interiorizzata, rimozione – nel romanzo . Si tratta di un (anche se scritto in terza persona, come del resto ), in cui l’autore, ormai anziano, rievoca alcuni momenti significativi della propria adolescenza, forse per confrontarsi con quanto di irrisolto è ancora sepolto nel suo io più profondo. Ernesto libro–confessione Storia e cronistoria del Canzoniere Un racconto di sé >> pag. 513 Se nel si ha spesso l’impressione che certi temi siano affrontati per via indiretta o in modo allusivo, qui l’autore appare molto esplicito, mettendo da parte finzioni e autocensure e impiegando un . Allo stesso tempo, il fatto che Saba si rifiuti di pubblicare il libro (che uscirà postumo nel 1975) testimonia di come molte questioni della sua vita psichica siano rimaste senza soluzione. Canzoniere linguaggio diretto ed estremamente realistico T2 La scoperta dell’eros Ernesto Ernesto, protagonista del romanzo, lavora come impiegato in un magazzino di granaglie. Nel brano che segue, tratto dalle pagine iniziali dell’opera, egli intrattiene una conversazione con un operaio più anziano, che nel corso del racconto lo condurrà a un’inattesa esperienza sessuale. Le battute del dialogo sono in dialetto triestino. e Amicizia attrazione «Cossa el gà? El sè stanco?». «No. Son rabiado». «Con chi?». «Col paron. Con quel strozin. Un fiorin e mezo per caricar e scaricar due cari». «El gà ragion lei». Questo dialogo (che riporto, come i seguenti, in dialetto; un dialetto un pò ammorbidito e con l’ortografia il più possibile italianizzata, nella speranza che il lettore – se questo racconto avrà mai un lettore – possa tradurlo da sé) si svolgeva a Trieste, negli ultimissimi anni dell’Ottocento. Gli interlocutori erano un uomo – un bracciante avventizio – ed un ragazzo. L’uomo era seduto su un mucchio di sacchi di farina, in un magazzino di Via …… Portava in testa un grande fazzoletto rosso, che gli scendeva più giù delle spalle (questo per proteggere il collo dallo strofinamento dei sacchi). Era un uomo giovane, sebbene apparisse – come notava Ernesto – un pò stanco; ed il suo aspetto aveva qualcosa di lontanamente zingaresco; ma di uno zingaresco molto attenuato, molto addomesticato. Ernesto era un ragazzo di sedici anni, praticante di commercio in una ditta che comperava farina dai grandi mulini dell’Ungheria, e la rivendeva ai fornai della città. Aveva i capelli castani, riccioluti e leggeri, gli occhi color nocciola (come quelli di certi cani barboni); camminava alquanto dinoccolato, con la grazia dell’adolescenza, che si crede sgraziata, e si teme ridicola. In quel momento stava in piedi, appoggiato alla porta aperta del magazzino, attendendo il ritorno del carro, che doveva arrivare presto, con l’ultimo carico della giornata, e guardava l’uomo come se lo vedesse per la prima volta, sebbene, per necessità di lavoro ed anche, un poco, per simpatia, lo conoscesse e gli parlasse da mesi. L’uomo teneva la testa fra le mani; in attitudine – come pensava Ernesto – affaticata; o – come diceva lui – arrabbiata. «El gà ragion lei», ripetè Ernesto, «el paron sè proprio un strozin; anca mi lo odio (ma, a guardar bene il ragazzo, pareva improbabile che egli potesse davvero 1 2 3 4 5 5 10 6 15 7 20 25 8 che cos’ha? È stanco? arrabbiato, adirato. il padrone ( ) è detto “strozzino” perché non paga adeguatamente i suoi operai. carri. po’ (la grafia è scorretta rispetto alla norma dell’italiano scritto ma coerente con il contesto dialettale). occasionale, non assunto regolarmente. in maniera ciondolante e un po’ slegata. anch’io. 1 Cossa… stanco: 2 rabiado: 3 strozin: paron 4 cari: 5 pò: 6 avventizio: 7 dinoccolato: 8 anca mi: >> pag. 514 odiare qualcuno) e quando el me manda in piaza a ciamar un omo, e che el me disi quanto che el vol spender, me sento venir mal. La ciamo sempre lei; ma gò vergogna de offrirghe cussì poco. Sè el lavor che fazo meno volentieri de tuti». L’uomo si sciolse dalla sua posa concentrata e guardò con tenerezza Ernesto. «So», disse, «che el sè bon. Se un giorno la diventerà, come che mi ghe auguro, paron, no la traterà certo chi che lavorerà per lei come me trata mi el suo paron de adesso. Un fiorin e mezo per tre cari», riprese, «e due omini soli. El se la suga (cava) con poco quel ladro: nol sa cossa che vol dir sfadigar, spezialmente adesso che scominzia el caldo. Due fiorini per omo saria ancora poco. Se no la ghe fussi lei, che ghe parlo cussì volentieri, no vederio l’ora che rivi el caro, per finir la giornada e distirarme in t’un leto». Era una giornata della primavera inoltrata, e la via era piena di sole. Ma, dentro il magazzino, faceva fresco, un fresco umido, che odorava di farina. «Perché nol se senta?», disse – dopo un breve silenzio – l’uomo. «El se acomodi qua (ed accennò un posto molto vicino al suo). Se la gà paura de sporcarse, ghe distiro soto el mio sacheto (giacca)». E fece l’atto di prenderlo, perché, nell’attesa del carro, si era già messo in maniche di camicia. «No ghe sè bisogno», rispose Ernesto. «La farina no lassa sporco; basta una spolverada e no se vedi più gnente. E pò ghe tegno poco che se vedi o no». Impedì all’uomo di distendere, come voleva, la giacca, e sedette, con un sorriso, accanto a lui. Anche l’uomo sorrise. Non pareva più né stanco, né arrabbiato. «Dopo», disse, «se el permeti, ghe neterò mi». Stettero un poco in silenzio, guardandosi. «La sè un bon ragazo», ripetè l’uomo, «e anca», aggiunse, «bel. Cussì bel che sè un piazer guardarla». «Mi bel?», rise Ernesto. «Nissun me lo gà mai dito». «Gnanca sua mama?». «Ela meno de tuti. No me ricordo che la me gabi mai dado un baso, né fata una careza. La diseva sempre, e la disi ancora, che i fioi no bisogna viziarli». «E a lei ghe gavessi piasso che sua mama la basi?». «Sì, quando che iero putel. Adeso no me importa più. Ma vorio almeno che la me disessi qualche volta una bona parola». «E no la ghe la disi mai?». «No, mai», rispose Ernesto; «o assai de raro». «Che pecà», disse l’uomo, «che sia cussì povero e cussì mal vestido». «Perché?», chiese Ernesto. «Perché, se no, me piasessi tanto diventar suo amico; andar qualche domenica a spasso insieme». «Gnanca mi», disse Ernesto, «son rico. El sa cossa che guadagno?». «No. Ma lei la gà i genitori che, lori, i sarà richi… Quanto el guadagna?». 9 30 10 11 35 12 40 13 14 45 15 16 50 17 18 55 19 20 21 22 60 65 chiamare, ingaggiare. è il lavoro che, fra tutti, faccio meno volentieri. Ernesto compie controvoglia la mansione, affidatagli dal principale, di ingaggiare operai avventizi, poiché sa che il salario offerto loro è troppo basso, e dunque si vergogna – sebbene non ne abbia colpa – di offrire condizioni di lavoro così svantaggiose. lei è buono. stendermi. non si siede. le stendo. mi interessa poco. la pulirò io. nessuno me l’ha mai detto. neanche. che mi abbia mai dato un bacio. figli. le sarebbe piaciuto che sua madre la baciasse? ragazzo. 9 ciamar: 10 Sè… de tuti: 11 el sè bon: 12 distirarme: 13 nol se senta: 14 ghe distiro: 15 ghe tegno poco: 16 ghe neterò mi: 17 Nissun… dito: 18 Gnanca: 19 che… baso: 20 fioi: 21 ghe gavessi piasso che sua mama la basi?: 22 putel: >> pag. 515 «Trenta corone al mese. E devo darghene venti a mia mama. Sè vero che ela la me vesti (Ernesto portava degli abiti comperati fatti; forse – sebbene non lo dicesse volentieri – gli sarebbe piaciuto vestir bene, come, un tempo, certi suoi compagni di scuola); ma a mi me resta poco». «Ma intanto la fa pratica». «No me piasi far l’impiegato», rispose Ernesto; «me piaseria far tuto altro». «Cossa, per esempio?». Il ragazzo non rispose alla domanda. «E come el spendi le diese corone che ghe resta? El va de le done?». (Queste ultime parole furono dette come se l’uomo avesse temuto una risposta affermativa). «No. A le done no ghe penso ancora. Gò deciso de no pensarghe prima de aver diciaoto-dicianove ani compidi». (Forse aveva dimenticato che, due anni prima, sua madre aveva dovuto licenziare una giovane serva, alla quale Ernesto dava continuamente noia in cucina. D’allora la povera donna aveva assunto sempre, per precauzione, delle domestiche vecchie, brutte, deformi: avrebbero formato una vera collezione di mostri. Del resto, duravano poco: dopo uno o due mesi si licenziavano o venivano licenziate). «E lei», domandò, «el sè sposado?». L’uomo rise. «Mi no», disse; «son puto. No me interessa le babe (donne)». «Quanti ani el gà?», domandò ancora Ernesto. «Vintioto… Mostro de più; no sè vero?». «No so», rispose Ernesto. «Mi ghe ne gò sedici, presto diciasette. Fra un mese». «Nol vol dirme cossa che el fa de le diese corone che ghe avanza?», insistè l’uomo. «El sè ben curioso», rise Ernesto. «Quele fazo presto a spenderle: un poco in paste, un poco in teatro. Vado in teatro quasi ogni domenica dopopranzo. Me piasi assai le tragedie. Lei nol va mai in teatro?». «Cossa el vol che vado a far in teatro? Son un povero bastardo (trovatello); un ignorante, che sa apena leger e scriver el suo nome». […] «Questo e altro ghe gò dito. El sè mato, ma no proprio cativo. Dopo el sciafo el me gà regalà un fiorin. Sè già tre ani che el me regala un fiorin ogni setimana; sta domenica el me ne gà dadi due invece de uno. Forsi el iera pentido; e po, come che ghe gò dito, el sè più mato che cativo». «Quasi quasi», rise l’uomo, «ghe convegniria far una barufa ogni setimana». «No me piasi le barufe. No per mi, ma per mia mama. La se fa venir ogni volta mal. La ghe vol assai ben a suo fradel». «Anca a lei la ghe vol ben; più de quanto che la credi. Come se fa a viverghe vizin e a no volerghe ben?». «Perché el me disi ste robe?». L’uomo posò una mano sul dorso di quella che il ragazzo teneva distesa sul sacco. Appariva turbato. «Pecà!», disse; e parve sorpreso e contento che il ragazzo non avesse ritirato la mano. «Pecà de cossa?». «De quel che ghe gò dito prima. Che no podemo esser amici, andar a spasso insieme». 23 70 24 75 25 26 80 85 27 90 95 28 29 100 30 105 110 confezionati. mi piacerebbe fare un lavoro completamente diverso. dieci. va a donne? scapolo. schiaffo. baruffa, litigio. a viverle vicino. 23 comperati fatti: 24 me piaseria far tuto altro: 25 diese: 26 El va de le done?: 27 puto: 28 sciafo: 29 barufa: 30 a viverghe vizin: >> pag. 516 «Per la diferenza de età?». «No». «Perché la sè mal vestido? Ghe gò già dito che de ste robe no me importa gnente. Anzi…». L’uomo tacque a lungo. Pareva in conflitto con sé stesso: quasi volesse dire e non dire qualcosa. Ernesto sentiva che la mano poggiata sulla sua tremava. Poi – come chi arrischia il tutto per il tutto – disse all’improvviso, fissando bene il suo interlocutore negli occhi, e con voce alterata: «Ma el sa cossa che vol dir per un ragazo come lei diventar amico de un omo come mi? Perché, se nol lo sa ancora, no son mi che voio insegnarghelo». Tacque di nuovo un momento; poi, visto che il ragazzo era diventato rosso ed abbassava la testa, ma non ritirava la mano, aggiunse, quasi aggressivo: «El lo sa?». Ernesto sciolse dalla stretta, che si era fatta più forte, la mano divenuta un pò molle e sudata, e la posò timidamente sulla gamba dell’uomo. Risalì adagio, fino a sfiorargli appena, e come per caso, il sesso. Poi alzò la testa. Sorrise luminoso, e guardò l’uomo arditamente in faccia. Questi sentì uno sbigottimento invaderlo. La saliva gli si era seccata in bocca, e il cuore gli batteva a fargli male. Ma non seppe dire altro che un «El gà capì?» che pareva rivolto più a sé stesso che al ragazzo. Ci fu un lungo silenzio, che Ernesto interruppe per il primo. «Gò capì», disse, «ma… dove?». «Come dove?», rispose, trasognato, l’uomo. Ernesto pareva più sciolto di lui. «Per far le robe che no se devi far», – disse, «no bisogna restar soli?». «Certo», rispose l’uomo. «E lei dove el volessi che restemo soli?», domandò, sottovoce, Ernesto, che aveva già perso un poco della sua baldanza. «Stasera in campagna. Conosso un logo…». «La sera no posso», disse il ragazzo. «Perché? El va a dormir presto?». «Magari podessi! Pico (casco) del sono. Invece me toca andar alle scole serali». «E nol le pol saltar una sera?». «No posso. Me compagna mia mama». «La gà paura che nol vadi?». «No credo; la sa che no ghe digo bugie. Ma la ciol el pretesto de compagnarme per far un poco de moto. La vol che studio stenografia e tedesco; la disi sempre che senza el tedesco no se pol far cariera… E po in campagna gaverio paura». «Paura de mi?». «No. No de lei». «De cossa allora? Se la se vergogna de sti mii vestiti, posso meterme quei de le feste». «Podaria passar qualchidun e véderne». «No in quel logo che so mi». «Gaverio paura lo stesso… Perché no qua, in sto magazin?». «Ma ghe sè sempre gente. E a venir insieme fora de ora (Ernesto aveva le chiavi del magazzino, e l’uomo lo sapeva) se daria sospeto. Per disgrazia, el paron sta proprio de fazada. E sua moglie, che la sè più diavolo de lui, la sè sempre a la finestra». 115 120 125 130 135 140 31 145 32 150 33 155 34 prende. avrei. potrebbe. qui di fronte. 31 la ciol: 32 gaverio: 33 Podaria: 34 de fazada: >> pag. 517 «Nol pol cercar un pretesto? Far finta, per esempio, de aver dimenticà qualcossa? Mi, quando che gò de finir un lavor de premura, vegno in ufficio el dopopranzo prima che sia l’ora de averzer: a le due invece che a le tre. Anche per questo el paron me lassa le ciave. Qualche volta resto solo più de un’ora; lei el poderia sempre dir… Oh, ecco el caro!». Nel quadrato della porta aperta si videro avanzare prima le teste, poi i corpi di due robusti cavalli da tiro. Indi apparvero il carro ed il carrettiere a piedi, con le redini e la frusta in mano. Prima ancora che i cavalli obbedissero all’ordine di fermarsi, un altro uomo, grosso questi e grasso, che era andato a fare il carico, discese con un salto dai sacchi sui quali stava seduto, come un turco, a gambe incrociate, e chiamò, in termini d’avvinazzato, il compagno. «Parleremo dopo», disse l’uomo al ragazzo, in fretta e con voce roca. Si rimise in testa il fazzoletto, di cui si era liberato durante il dialogo con Ernesto, e s’avviò alla fatica che l’aspettava. Sotto, le gambe gli tremavano un poco. 35 160 165 170 aprire. 35 averzer: Dentro il testo I contenuti tematici In questo brano il narratore racconta il primo approccio dell’ (come lo chiama, senza indicarne mai il nome, in tutto il romanzo) al giovane Ernesto, figura che ha diversi tratti in comune con Saba stesso, a partire dal difficile rapporto con la madre e dall’assenza del padre. L’uomo, attratto da Ernesto, gli rivolge dei complimenti ( […] […] rr. 51–52; rr. 102–103), ma è anche preoccupato di non dichiarare troppo apertamente il proprio interesse nei suoi confronti per i diffusi pregiudizi verso gli omosessuali ( r. 106; r. 118). Per parte sua, Ernesto appare dapprima imbarazzato ( rr. 120–121); poi, superata l’esitazione, mostra spavalderia e audacia ( rr. 125–126), tanto da suggerire all’altro il modo migliore per incontrarsi da soli. uomo La sè un bon ragazo e anca bel. Cussì bel che sè un piazer guardarla, Come se fa a viverghe vizin e a no volerghe ben, Appariva turbato, con voce alterata, il ragazzo era diventato rosso ed abbassava la testa, Sorrise luminoso, e guardò l’uomo arditamente in faccia, Esitazione e coraggio Negli anni in cui viene scritta quest’opera l’omosessualità è oggetto di forte disapprovazione sociale, al punto che l’autore non ha la certezza che il libro venga pubblicato ( r. 8). In una lettera, egli si riferisce a con queste parole: «Quello che ho scritto è così bello, così incantevolmente bello». La frase è stata così commentata dallo scrittore Alberto Moravia: «In queste parole noi pensiamo che bisogna leggere piuttosto l’esaltazione di chi è riuscito a vincere se stesso e a debellare con la verità un antico tabù, che l’autocompiacimento ingenuo di un artista. Se la frase viene modificata così “quello che ho scritto è così vero, così coraggiosamente vero” le parole di Saba diventano oltre che più commoventi anche più significative. Diventano, cioè, una chiave per capire il libro». se questo racconto avrà mai un lettore, Ernesto La verità dell’autore su sé stesso Le scelte stilistiche Ambientato a Trieste, è fortemente radicato nei luoghi e nell’epoca in cui si svolgono le vicende, e restituisce un ritratto realistico del mondo del lavoro e delle inquietudini politico–sociali che attraversano la città in quegli anni. Il ricorso al dialetto, soprattutto nei dialoghi, è coerente con un intento di resa fedele dell’atmosfera, sebbene non abbia soltanto una funzione realistica. Il realismo di Saba, infatti, non è di tipo mimetico o veristico; lo mostra la caratterizzazione di Ernesto, che per l’innocenza, la disponibilità e la libertà di cui dà prova – caratteristiche che risultano improbabili «in una città come Trieste alla fine dell’Ottocento e in un clima culturale fondamentalmente sessuofobico » (Gnerre) – rimane sostanzialmente fuori dalla Storia e dalla società. Ernesto L’opzione dialettale tra realismo e intento liberatorio >> pag. 518 Il dialetto è inoltre lo strumento grazie al quale Saba è riuscito a trattare argomenti considerati scabrosi e a superare il secolare tabù relativo alla rappresentazione letteraria dell’omosessualità. Esso assume quindi, in questo romanzo, non soltanto un forte sapore di autenticità, ma anche un profondo valore liberatorio. Verso le competenze COMPRENDERE Come vengono descritti fisicamente i due protagonisti del dialogo, ed Ernesto? 1 l’uomo Quale aspetto tipico dell’adolescenza viene sottolineato nella descrizione del ragazzo? 2 Di che cosa si rammarica con Ernesto? Perché? 3 l’uomo ANALIZZARE Da quali atteggiamenti si intuiscono l’emozione e l’agitazione dell’ ? 4 uomo Rintraccia nel testo i commenti del narratore a proposito del protagonista. In quali di questi è ravvisabile una certa ironia? 5 INTERPRETARE Da che cosa ti sembra che Ernesto sia spinto verso ? Motiva la tua risposta con opportuni riferimenti al brano. 6 l’uomo I grandi temi di Saba La concezione della poesia • la «poesia onesta», intesa come impegno di sincerità e «chiarezza interiore» • il recupero della tradizione lirica italiana: Dante, Petrarca, Leopardi • l’aspirazione alla semplicità: adesione alla vita e rappresentazione realistica • la predilezione per le parole comuni e le rime “facili” • la distanza dalla “poesia pura” di derivazione simbolista e l’“antinovecentismo” Autobiografismo e confessione • letteratura come autocoscienza: la tensione verso la «chiarezza interiore» • la psicanalisi come terapia e come strumento di conoscenza dell’animo umano • l’esigenza di confessione “integrale” nel romanzo Ernesto