Il secondo Novecento e gli anni Duemila – L'autore: Carlo Emilio Gadda La vita Le opere • Nasce a Milano 1893   • Muore il padre 1909   • Si arruola volontario nella Prima guerra mondiale • A Caporetto è fatto prigioniero e trasferito in Germania 1915 1917   • Torna in Italia e apprende della morte in guerra del fratello Enrico 1919   • Si laurea in Ingegneria 1920   • Lavora come ingegnere in Argentina 1924–1929   1922–1924 (pubblicata in volume nel 1970) La meccanica • Si trasferisce a Roma 1925   • Abbandona definitivamente la professione di ingegnere 1931 La Madonna dei filosofi 1934 Il castello di Udine • Muore la madre 1936 1938–1941 (pubblicato in volume nel 1963) La cognizione del dolore 1938–1943 (pubblicata in volume nel 1944) L’Adalgisa • Si trasferisce a Firenze 1940   1944–1945 (pubblicato nel 1967) Eros e Priapo 1946 (pubblicato in volume nel 1957) Quer pasticciaccio brutto de via Merulana • Si sposta a Roma con un impiego alla Rai 1950   1955 Giornale di guerra e di prigionia • Muore a Roma 1973   3 I grandi temi Lo stile espressionistico Quando ci si accosta a Gadda per la prima volta, ciò che colpisce è una certa difficoltà di lettura, sostanzialmente a causa di due fattori di ordine stilistico. , la costruzione della frase è spesso stravolta, con soggetto, predicato e complemento collocati in posizioni diverse da quelle consuete, e con la frequente presenza di incisi, digressioni, commenti. , la scrittura offre un’impressionante varietà di elementi linguistici: di diverse discipline (ingegneria, filosofia, matematica, medicina ecc.), arcaismi e vocaboli presi dai diversi repertori letterari del passato, inserti in , citazioni latine e greche, e . Dal punto di vista sintattico Dal punto di vista lessicale tecnicismi lingua straniera lemmi dialettali neologismi Il linguistico pastiche La lingua di Gadda mescola aulico e comico, alternando momenti lirici a espressioni sconce e oscene: per tale contaminazione essa si inserisce all’interno della , che annovera autori come Folengo e Rabelais, e in quella più ampia linea espressionistica che si fa risalire fino a Dante. Attraverso questo filtro linguistico Gadda intende rappresentare la realtà in modo deformato, osservandola da e spesso contraddittori, perché la complessità del mondo si può rendere solo con pari complessità di stili e registri. Egli stesso, parlando in terza persona, scrive che la sua scrittura è la riproduzione del ridondante disordine della realtà: «Barocco è il mondo, e il Gadda ne ha percepito e ritratto la baroccaggine». tradizione maccheronica punti di vista molteplici Una lingua barocca per una realtà barocca  >> pag. 852  La forma più efficace per esprimere il caos e la molteplicità del reale è – agli occhi dello scrittore lombardo – quella dell’elenco. Egli procede infatti per accumulazione, . Questo impulso alla catalogazione può talvolta risultare eccessivo e forzato, ma Gadda non intende rinunciare mai all’obiettivo di cogliere “enciclopedicamente” la totalità degli aspetti, convinto che la comprensione delle cose possa avvenire solo all’interno di una sintesi ideale di tutto il sapere. La sua scrittura tende in tal modo a procedere dall’enumerazione all’onnicomprensività o, per usare i termini del critico Gian Carlo Roscioni, dal (enumerare i singoli elementi uno per uno) all’ (abbracciare tutte le cose con lo sguardo): la smania di registrare e inventariare i segni, anche minimi, del mondo significa impossessarsene linguisticamente, accatastando tutte le possibili forme nelle quali esso si manifesta. In questo contesto, assume un significato profondo , a tutto ciò che a una prima lettura appare come secondario e poco rilevante. Al contrario, l’attenzione ossessiva per il particolare significa per Gadda cercare di , di contatti, di somiglianze, nella convinzione che un qualsiasi fatto non sia conoscibile nella sua interezza se non dopo averlo scomposto negli elementi che lo costituiscono e averlo messo in rapporto con altri fatti, altri contesti, altre realtà. giustapponendo nomi, aggettivi, verbi singula enumerare omnia circumspicere la propensione ai dettagli, alle digressioni, alle note sbrogliare un groviglio di relazioni Enumerazione e onnicomprensività  T1  L’incendio di via Keplero Accoppiamenti giudiziosi Uscito per la prima volta nel 1940 sulla rivista “Il Tesoretto”, ma scritto tra il 1930 e il 1935, questo racconto – di cui riportiamo una parte – offre il primo esempio, dal punto di vista cronologico, della straordinaria creatività linguistica gaddiana. La di un evento descrizione espressionistica Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riuscì fatto al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano seminude nel ferragosto e la lor prole globale, fuor dal tanfo e dallo spavento repentino della casa, poi diversi maschi, poi alcune signore povere e al dir d’ognuno alquanto malandate in gamba, che apparvero ossute e bianche e spettinate, in sottane bianche di pizzo, anzi che nere e composte come al solito verso la chiesa, poi alcuni signori un po’ rattoppati pure loro, poi Anacarsi Rotunno, il poeta italo–americano, poi la domestica del garibaldino agonizzante del quinto piano, poi l’Achille con la bambina e il pappagallo, poi il Balossi in mutande con in braccio la Carpioni, anzi mi sbaglio, la Maldifassi, che pareva che il diavolo fosse 1 5 2 3 10 neologismo che allude al concetto di “simultaneità”, caro ai canoni estetici e formali dell’arte letteraria e pittorica dei Futuristi, di cui viene chiamato in causa il fondatore, Filippo Tommaso Marinetti, che ha il titolo di Eccellenza, in quanto da poco nominato da Mussolini Accademico d’Italia (1929). l’insieme numeroso dei figli. nelle gambe. 1 simultanare: 2 prole globale: 3 in gamba:  >> pag. 853  dietro a spennarla, da tanto che la strillava anche lei. Poi, finalmente, fra persistenti urla, angosce, lacrime, bambini, gridi e strazianti richiami e atterraggi di fortuna e fagotti di roba buttati a salvazione giù dalle finestre, quando già si sentivano arrivare i pompieri a tutta carriera e due autocarri si vuotavano già d’un tre dozzine di guardie municipali in tenuta bianca, ed era in arrivo anche l’autolettiga della Croce Verde, allora, infine, dalle due finestre a destra del terzo, e poco dopo del quarto, il fuoco non poté a meno di liberare anche le sue proprie spaventose faville, tanto attese!, e lingue, a tratti subitanei, serpigne e rosse, celerissime nel manifestarsi e svanire, con tortiglioni neri di fumo, questo però pecioso e crasso come d’un arrosto infernale, e libidinoso solo di morularsi a globi e riglobi o intrefolarsi11 come un pitone nero su di se stesso, uscito dal profondo e dal sottoterra tra sinistri barbagli; e farfalloni ardenti, così parvero, forse carta o più probabilmente stoffa o pegamoide bruciata, che andarono a svolazzare per tutto il cielo insudiciato da quel fumo, nel nuovo terrore delle scarmigliate, alcune a piè nudi nella polvere della strada incompiuta, altre in ciabatte senza badare alla piscia e alle polpette di cavallo, fra gli stridi e i pianti dei loro mille nati. Sentivano già la testa, e i capegli, vanamente ondulati, avvampare in un’orrida, vivente face. Urlarono le sirene dalle ciminiere o dagli stabilimenti vicini verso il cielo torrefatto: e la trama criptosimbolica delle cose elettriche perfezionò gli appelli disperati dell’angoscia. Dalle stazioni lontane, spalancatesi, le batterie delle autopompe fuoruscirono in corsa, impulsi pronti e celeri a sovvenire a ogni sùbito male delle fiamme, nel mentre l’ultimo pompiere del quinto drappello, spiccato un salto, gli riuscì d’abbrancare con la sinistra l’ultimo ferro del reggiscala dell’autoscala di coda già in voltata fuori dal portone, e viceversa con la destra si finiva ancora d’abbottonare la bottoniera della giacca di servizio. La sonnolenza impomatata dei guidatori d’automobili che falciano via con il parafango i ginocchi de’ claudicanti vecchi alle svolte e, svaccati dentro macchina, ma saette pazze di fuori, stracciano via i cantoni ai più garibaldofrusti marciapiedi della metropoli, ecco sonerie elettriche premonitrici li bloccarono improvvisamente ai cantoni, poi, subito, l’avvento delle trasvolanti sirene. Inchiodati i tram, i cavalli trattenuti al morso dal cavallaro, disceso di serpa: i cavalli col carro contro il culo, l’occhio, all’angolo, imbiancato da un ignoto motivo di terrore. […] «L’incendio», dissero poi tutti, «è una delle cose più terribili che sia». Ed è vero: fra 15 4 5 20 6 7 8 9 10 12 25 13 14 15 16 17 30 18 19 20 21 35 22 23 40 24 25 26 45 per salvarli. a gran velocità. improvvisi. simili a serpi. termini rari e letterari che rimandano alla pece e alla densità del fumo. desideroso. moltiplicarsi. Come spiega lo stesso Gadda in un racconto del , “morulazione” è termine tecnico della biogenesi che sta a indicare «il processo de’ consecutivi sdoppiamenti d’una cellula fecondata […]. I nùvoli d’incenso o di fumo vengono a morularsi in quanto un globo ne dà due, i due ne dàn quattro, ecc. ecc.» ( ). avvolgersi. bagliori che incutono timore e paura. prodotto simile al cuoio. l’aggettivo sostantivato designa le donne, ritratte non di rado da Gadda in riferimento ai loro capelli. escrementi. il capriccio dell’acconciatura è vanificato dalle fiamme. termine aulico per “torcia”, “fiaccola”. così denso di fumo da sembrare abbrustolito. probabile ironica perifrasi tecnica per indicare il telefono, in grado di comunicare in modo più efficace la richiesta d’aiuto ai vigili del fuoco. le squadre. intervenire a ogni danno improvviso ( ) provocato dal fuoco. imbrillantinata; in Gadda ricorre spesso la descrizione dei capelli maschili acconciati con la brillantina. nelle curve. Le macchine vanno così veloci che nell’affrontare le curve rischiano di investire i passanti. gli automobilisti sono seduti in modo scomposto e rilassato nelle auto, ma corrono come fulmini. rompono gli angoli (dei marciapiedi). Deriva dal milanese strasciacantón, epiteto che viene riferito ad «autisti o maldestri» ( ). I marciapiedi sono così vecchi ( ) che sembrano risalire ai tempi di Garibaldi. il sedile della carrozza dove si siede il cocchiere. 4 a salvazione: 5 a tutta carriera: 6 subitanei: 7 serpigne: 8 pecioso e crasso: 9 libidinoso: 10 morularsi: Castello di Udine Imagine di Calvi 11 intrefolarsi: 12 sinistri barbagli: 13 pegamoide: 14 scarmigliate: 15 polpette: 16 vanamente ondulati: 17 face: 18 torrefatto: 19 trama… angoscia: 20 le batterie: 21 sovvenire… fiamme: sùbito 22 impomatata: 23 alle svolte: 24 svaccati dentro macchina, ma saette pazze di fuori: 25 stracciano via i cantoni ai più garibaldofrusti: trasandati L’Adalgisa frusti 26 serpa:  >> pag. 854  la generosità e la perplessità de’ pompieri d’oro: fra cataratte d’acqua potabile sopra le ottomane pisciose e verdi, ma stavolta minacciate da un ben brutto rosso, e, sopra i cifoni e i credenzoni, custodi magari d’un mezz’etto di gorgonzola sudato, ma leccati già dalla fiamma come il capriolo dal pitone: con zampilli, spilli liquidi, dai serpi inturgiditi e fradici dei tubi di canapa, e lunghe, lancinanti zagaglie dagli idranti d’ottone, che finiscono in bianche zazzere e nube nel cielo dell’agosto torrido: e isolatori di porcellana semi–usti cader giù a pezzi a frantumarsi del tutto contro il marciapiede patatràf!: e fili di telefoni bruciati che svolavano via nella sera dalle lor mensole fatte roventi, con penisole nere e volanti di cartone e mongolfiere di tappezzeria carbonizzata, e giù, tra i piedi degli uomini, e dietro le scale mobili, anse e rigiri e impennate di tubi che sprizzano zampilli parabolici da tutte le parti nella mota della strada, vetri in briciole in un pantano d’acque e di melma, pitali di ferro smaltato ripieni di carote buttati giù di finestra, ancora adesso!, contro gli stivaloni dei salvatori, i gambali dei genieri, dei carabinieri, degli ingegneri comandanti dei pompieri: e il protervo e indefesso cic–ciàc, e cicìc e ciciàc, delle ciabatte femminine a raccoglier pezzi di pettine, o schegge di specchio, e immagini benedette di San Vincenzo de’ Liguori dentro lo sguazzo di quella catastrofica lavanderia.41 27 28 29 30 31 50 32 33 34 35 55 36 37 38 60 39 40 l’oro allude sia al colore dell’elmetto, sia all’espressione “avere un cuore d’oro”. cascate. tipo di divano. Pisciose si riferisce al fatto che grondano acqua in seguito all’intervento dei pompieri e è il loro colore originale. italianizzazione del milanese , “comodino”, “tavolino da notte”. il formaggio a temperatura ambiente o al calore genera delle bollicine d’acqua sulla superficie, come se “sudasse”. i tubi assomigliano a serpenti resi duri e rigidi ( ) dall’acqua che vi passa attraverso. armi simili a corte lance. La metafora suggerisce il paragone tra il getto d’acqua e il colpo delle lance. capigliature disordinate. materiale per l’isolamento elettrico, fatto di porcellana, e che l’incendio ha in parte bruciato. fango. vasi da notte. soldati appartenenti al corpo del genio militare. superbo e instancabile. si tratta di un incrocio tra due diversi santi: san Vincenzo de’ Paoli (1581–1660) e sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696–1787). il diluvio provocato dall’intervento dei vigili del fuoco. 27 pompieri d’oro: 28 cataratte: 29 ottomane pisciose e verdi: verdi 30 cifoni: cifòn 31 gorgonzola sudato: 32 serpi inturgiditi: inturgiditi 33 zagaglie: 34 zazzere: 35 isolatori di porcellana semi–usti: 36 mota: 37 pitali: 38 genieri: 39 protervo e indefesso: 40 San Vincenzo de’ Liguori: 41 catastrofica lavanderia: Dentro il testo       I contenuti tematici L’ cala il lettore in una sorta di aura mitica: (r. 1). Subito dopo il richiamo ironico alle tecniche futuriste, incapaci di descrivere il fulmineo precipitare degli eventi, si entra direttamente e bruscamente nell’azione. Lo sconvolgimento provocato dall’improvviso incendio viene reso con la fuga caotica e terrorizzata dall’ (r. 3) da parte degli inquilini, presentati genericamente o esplicitamente (nome e/o cognome), per dare il senso del simultaneo accavallarsi delle persone spinte all’esterno e in qualche modo rese simili dall’infuriare del fuoco. Sul finire della prima parte antologizzata entrano in scena i pompieri, che – anch’essi frettolosamente – si dirigono verso il luogo del disastro. La loro azione viene poi riportata nella seconda parte, nella quale si descrivono la lotta dell’acqua contro il fuoco e il palazzo avvolto dal fumo e immerso in una enorme pozza di fango. incipit Se ne raccontavano di cotte e di crude ululante topaia L’irrompere del fuoco e l’intervento dei pompieri: un quadro d’insieme All’interno di questa rappresentazione frenetica non mancano gli attacchi comici al perbenismo borghese e alle sue ipocrisie: la (r. 5), che sta sottilmente a indicare i figli legittimi e illegittimi; le signore che, normalmente ben vestite e ordinate nell’atto di dirigersi in chiesa, vengono raffigurate in frivole (r. 8); il riferimento alla pegamoide (r. 25), sorta di succedaneo più economico del cuoio (fatto di una sostanza a base di celluloide); l’elemento scatologico degli escrementi di cavallo; l’accenno fugace ai capelli che sono (r. 29), sia perché segno di civetteria femminile, sia perché ormai l’acconciatura è rovinata dalla fretta e dalla paura; l’accorrere (r. 60) per cercare di salvare da quella catastrofe oggetti che mescolano il profano (la vanità di pettini e di specchi) al sacro (l’immagine votiva del santo). prole globale sottane bianche di pizzo vanamente ondulati vanamente protervo e indefesso La ridicolizzazione della borghesia  >> pag. 855  Le scelte stilistiche L’aspetto più interessante del racconto non sta però nello sviluppo della trama, di per sé molto semplice, bensì nello stile utilizzato dall’autore. Già dalle prime righe si possono cogliere appieno alcuni degli aspetti caratteristici dell’espressionismo gaddiano: la frenesia e la confusione sono rese da una inesauribile elencazione di persone, cose, azioni, con una tecnica paratattica* che accosta elementi diversi in lunghissime sequenze, da leggersi tutte d’un fiato. Il periodo (r. 4) a (r. 13) si interrompe per un breve attimo con il punto fermo, per riprendere subito in un altro lunghissimo elenco, da (rr. 13–14) fino a (r. 28); lo stesso procedimento si trova anche in seguito. Se nella prima sequenza la tecnica dell’accumulo* si basa sull’uso dell’avverbio , nella seconda viene utilizzata la congiunzione . La differenza è sottile, ma in grado di rendere nel primo caso l’impressione di una velocissima catena di azioni, nel secondo la contemporaneità di un confuso e ingarbugliato quadro d’insieme: tutta la seconda parte del brano è infatti racchiusa in un periodo lungo e articolato, da (r. 45) a (r. 62), interrotto solo da virgole e due punti. che va da che ne disprigionò fuori la strillava anche lei Poi, finalmente, fra persistenti urla i pianti dei loro mille nati poi e Ed è vero catastrofica lavanderia Il procedimento per accumulazione La punteggiatura è, come sempre accade in Gadda, usata senza risparmio, a volte sovvertendo le regole. Peculiare della sua scrittura è per esempio l’uso dei due punti, allo scopo non solo di introdurre un elenco, ma anche di segnare una pausa nel lungo periodo, assumendo così il valore della virgola o del punto e virgola (come si vede dalla r. 45 alla r. 60). Di rilievo sono anche gli elementi linguistici più tipici del *, come il frequente ricorso a vocaboli fuori dal comune. Gadda non disdegna né il prestito di termini tecnici da altre discipline (il , r. 22, che deriva dalla genetica), né la variante aulica di alcuni vocaboli ( per “avvolgersi”, r. 22; per “capelli”, rr. 28-29; per “bruciacchiati”, r. 52), né ancora il ricorso a dialettismi (cifoni per “comodini”, r. 48), neologismi e invenzioni linguistiche: il ironico verso i Futuristi (r. 2), il (r. 7) che richiama la locuzione “essere (male) in gamba”, i (r. 22) come ripetizione di globi, i marciapiedi (r. 40). pastiche morularsi intrefolarsi capegli semiusti simultanare malandate in gamba riglobi garibaldofrusti Il ricorso alla parola rara Non meno ricca è la presenza di figure retoriche, dalle metafore* (le lingue di fuoco che sono , r. 20), alle similitudini* (il fumo che si attorciglia , r. 23), alle iperboli* (i pianti dei , r. 28), alle onomatopee* che rendono la dimensione auditiva del brano: il (r. 53) che riproduce il rumore degli isolatori di porcellana caduti a terra, e il (r. 60) che descrive il ciabattare delle donne. A volte ne viene utilizzata più d’una nello stesso sintagma*: (r. 3), per esempio, ha sia aspetti metonimici* (a ululare non è il palazzo, ovviamente, ma chi vi abita) che metaforici (gli inquilini vengono assimilati a tanti topi che fuggono dalla propria tana), rendendo efficacemente, a livello uditivo e visivo, la concitazione di quegli attimi. serpigne come un pitone nero su di se stesso mille nati patatràf! cic–ciàc, e cicìc e ciciàc ululante topaia L’uso delle figure retoriche  >> pag. 856  Verso le competenze       COMPRENDERE In quante scene è suddiviso il brano? Prova a riassumerle brevemente e dai a ciascuna un titolo. 1 ANALIZZARE Le sequenze di questo brano hanno come protagonisti prima il fuoco e poi l’acqua. Evidenzia le frasi in cui ci si riferisce all’uno e all’altra. 2 Riporta nella tabella i termini che ritieni più significativi per ogni registro linguistico. 3 Registro basso Registro medio Registro alto Nel brano sono presenti diverse parole composte. Rintracciale e spiegane la funzione espressiva 4 . INTERPRETARE Perché l’autore esordisce citando il futurista Filippo Tommaso Marinetti (r. 2)? 5 A quale scopo, secondo la tua opinione, Gadda si sofferma sull’ (r. 34)? 6 ultimo pompiere del quinto drappello PRODURRE Sull’esempio di Gadda prova a creare 10 neologismi relativi alla vita a scuola. Danne la definizione e spiegane brevemente l’origine. 7 Il groviglio psicanalitico Come si è visto, Gadda è stato un autore molto prolifico, avendo scritto tanto, al limite della grafomania, sia per la pubblicazione della sua produzione narrativa e saggistica sia per motivi privati (i diari e i moltissimi carteggi). Ancor prima della letteratura, si può affermare che sia in sé ad assumere per lui un ruolo particolare. Già prima di comprendere la propria natura di letterato, per esempio, durante l’esperienza della Prima guerra mondiale, egli sembra utilizzare la scrittura per cercare di ritrovare un ordine nella realtà che lo circonda, o meglio per opporre al caos dominante sequenze razionali di pensieri, descrizioni, concetti o persino operazioni di analisi matematica che egli traccia sulla pagina. Il rapporto di Gadda con il mondo è dettato infatti da un’ finalizzata a restituire razionalità al groviglio delle cose e a dare loro un senso. Tale tentativo di ricostruzione concettuale viene applicato dall’autore sia alla sfera dell’esteriorità sia a quella dell’interiorità, e – per quanto concerne quest’ultima – all’essere umano in generale e a sé stesso. La critica ha sottolineato, a più riprese, come l’irrefrenabile impulso di Gadda all’autobiografismo si traduca nei suoi scritti nella proiezione costante delle proprie nevrosi e ossessioni: tale processo svela i suoi sforzi di psicanalizzare, spiegare, comprendere la propria vita e dare un senso ai traumi che l’hanno così fortemente condizionata. È in questo impegno gnoseologico che la sua prova a farsi , in quanto si pone l’obiettivo di scavare a fondo nei disturbi psicologici del proprio io (l’autore allude a un «male oscuro» che lo attanaglia) e nel labirinto di un mondo degenerato e insensato. l’atto dello scrivere esigenza conoscitiva scrittura terapia La scrittura come strumento di ordine e comprensione di sé In particolare, il centro di gravità della nevrosi dello scrittore è rappresentato dal , a sua volta tristemente condizionato dalla morte del fratello Enrico. Gadda percepisce in lei una “carenza affettiva”, un’incapacità a donarsi a lui che è il figlio sopravvissuto, quello meno bello, meno energico, meno vitale; ciò lo induce a considerare sé stesso una «prova difettiva di natura», come se egli non fosse idoneo a meritare l’amore e le carezze della madre. Parla a più riprese, in molti saggi e articoli dedicati ad altre figure emblematiche della Storia o della letteratura (Baudelaire, Leopardi, Rimbaud ecc.), di esempi di «delusione filiale», di madri che verso i figli mostrano una «certa ritenutezza»; e legge in questo rapporto la base di «quell’aggrovigliato complesso di cause e concause biologiche e mentali che Freud ha tentato appunto di sgrovigliare» ( ). Un verso virgiliano, tratto dalla IV egloga, torna con frequenza nelle sue dissertazioni a suggellare e dare forza a questo discorso: , tradotto da lui stesso come « ». conflitto con la madre Psicanalisi e letteratura Cui non risere parentes colui a cui i genitori non hanno potuto sorridere Il dramma affettivo  >> pag. 857  Dalla negazione affettiva deriva un sentimento aspramente conflittuale verso quella figura che viene vista come «madre sbagliata», «castrante». Durante tutta la vita, l’immagine di questa donna austera e severa permane nell’immaginario dello scrittore lombardo; anche se nel periodo successivo alla sua morte si scatena in lui un assillo diverso ma altrettanto doloroso: il . La distanza e l’odio provati in vita vengono trasfigurati in colpa, come se le ragioni di quella negazione e di quella morte fossero da addossarsi a lui, alla sua imperfezione, alle sue incapacità. Gadda si sente allora completamente solo; ed è anche per questo, per provare a lenire quella ferita, che dedica alla madre un capolavoro assoluto come . rimorso La cognizione del dolore La «madre sbagliata»  T2  La mamma , II, cap. 5 La cognizione del dolore Il luogo in cui trova migliore espressione il complesso rapporto tra Gadda e la madre è il romanzo , che somiglia molto a un processo in cui l’autore interpreta «tutte le parti: di pubblico accusatore, di colpevole, di innocente, di difensore e di giudice» (Citati), esagerando le proprie colpe fino al punto di calunniarsi e descriversi come patricida e matricida. Tra queste pagine di disperata violenza, ad apertura della seconda parte del romanzo, emerge proprio la figura sulla quale si appunta tutta la rabbia dello scrittore: la madre. La cognizione del dolore L’ e il dolore per la uragano morte del figlio Vagava, sola, nella casa. Ed erano quei muri, quel rame, tutto ciò che le era rimasto? di una vita. Le avevano precisato il nome, crudele e nero, del monte: dove era caduto: e l’altro, desolatamente sereno, della terra dove lo avevano portato e dimesso, col volto ridonato alla pace e alla dimenticanza, privo di ogni risposta, per sempre. Il figlio che le aveva sorriso, brevi primavere! che così dolcemente, passionatamente, l’aveva carezzata, baciata. Dopo un anno, a Pastrufazio, un sottufficiale d’arma le si era presentato con un diploma, le aveva consegnato un libercolo, pregandola di voler apporre la sua firma su di un altro brogliaccio: e in così dire le aveva porto una matita copiativa. Prima le aveva chiesto: «è lei la signora Elisabetta François?». Impallidendo all’udir pronunziare il suo nome, che era il nome dello strazio, aveva risposto: «sì, sono io». Tremando, come al feroce rincrudire8 d’una condanna. A cui, dopo il primo grido orribile, la buia voce dell’eternità la seguitava a chiamare. 1 2 5 3 4 5 6 10 7 pentole, padelle e utensili da cucina, che all’epoca erano spesso in rame e che venivano appesi al muro. condotto e sepolto. è la capitale del Maradagàl e corrisponde nella realtà a Milano. della gendarmeria territoriale (N.d.A.). registro. nella prima versione, apparsa sulla rivista “Letteratura”, il nome della donna è Adelaide François, in esplicito riferimento ai nomi veri della madre (Adele) e del padre (Francesco) dello scrittore. aaa aaa 1 quel rame: 2 portato e dimesso: 3 Pastrufazio: 4 d’arma: 5 brogliaccio: 6 Elisabetta François: 7 il nome dello strazio: 8 aaa  >> pag. 858  Avanti che se ne andasse, quando con un tintinnare della catenella raccolse a sé, dopo il registro, anche la spada luccicante, ella gli aveva detto come a trattenerlo: «posso offrirle un bicchiere di Nevado?»: stringendo l’una nell’altra le mani scarne. Ma quello non volle accettare. Le era parso che somigliasse stranamente a chi aveva occupato il fulgore breve del tempo: del consumato tempo. I battiti del cuore glie lo dicevano: e sentì di dover riamare, con un tremito dei labbri, la riapparita presenza: ma sapeva bene che nessuno, nessuno mai, ritorna. Vagava nella casa: e talora dischiudeva le gelosie d’una finestra, che il sole entrasse, nella grande stanza. La luce allora incontrava le sue vesti dimesse, quasi povere: i piccoli ripieghi di cui aveva potuto medicare, resistendo al pianto, l’abito umiliato della vecchiezza. Ma che cosa era il sole? Quale giorno portava? sopra i latrati del buio. Ella ne conosceva le dimensioni e l’intrinseco, la distanza dalla terra, dai rimanenti pianeti tutti: e il loro andare e rivolvere; molte cose aveva imparato e insegnato: e i matemi e le quadrature di Keplero che perseguono nella vacuità degli spazî senza senso18 l’ellisse del nostro disperato dolore. Vagava, nella casa, come cercando il sentiero misterioso che l’avrebbe condotta ad incontrare qualcuno: o forse una solitudine soltanto, priva d’ogni pietà e d’ogni imagine. Dalla cucina senza più fuoco alle stanze, senza più voci: occupate da poche mosche. E intorno alla casa vedeva ancora la campagna, il sole. Il cielo, così vasto sopra il tempo dissolto, si adombrava talora delle sue cupe nuvole; che vaporavano rotonde e bianche dai monti e cumulate e poi annerate ad un tratto parevano minacciare chi è sola nella casa, lontani i figli, terribilmente. Ciò accadde anche nello scorcio di quella estate, in un pomeriggio dei primi di settembre, dopo la lunga calura che tutti dicevano sarebbe durata senza fine: trascorsi una diecina di giorni da quando aveva fatto chiamare la custode, con le chiavi: e, da lei accompagnata, era voluta discendere al Cimitero. Quella minaccia la feriva nel profondo. Era l’urto, era lo scherno di forze o di esseri non conosciuti, e tuttavia inesorabili alla persecuzione: il male che risorge ancora, ancora e sempre, dopo i chiari mattini della speranza. Ciò che più la soleva sgomentare fu sempre il malanimo impreveduto di chi non avesse cagione alcuna da odiarla, o da offenderla: di quelli a cui la sua fiducia così pura si era così trasportatamente rivolta, come ad eguali e a fratelli in una superiore società delle anime. Allora ogni soccorrevole esperienza e memoria, valore e lavoro, e soccorso della città e della gente, si scancellava a un tratto dalla desolazione dell’istinto mortificato, l’intimo vigore della consapevolezza si smarriva: come di bimba urtata dalla folla, travolta. La folla imbarbarita degli evi persi, la tenebra delle cose e delle anime erano 9 15 10 20 11 12 13 14 15 25 16 17 19 30 20 21 22 35 23 40 24 25 26 45 27 28 prima di andarsene. qualità di vino bianco. persiane. affinché. la sinestesia fa riferimento al buio della morte. si riferisce al sole. la natura chimica e fisica. girare. i matemi hanno il significato di formule e calcoli molto difficili, mentre “quadratura” è un antico termine tecnico che indica la soluzione delle equazioni differenziali. destituiti di apparato sensorio e quindi di sensitiva (N.d.A.), ossia incapaci di provare sensazioni. la misurazione dell’orbita della Terra diventa metaforicamente la misura del dolore umano. consumato. le nuvole fanno ombra al cielo stesso, rendendolo più cupo. le nuvole, prima bianche e rotonde, diventano improvvisamente nere, minacciando il temporale. Il verbo “cumulare” infatti indica la trasformazione delle nuvole in cumuli– nembi, tipici dei temporali. l’incombere del temporale. nella. ragione. con trasporto. tutte le certezze della donna ( di ciò che aveva fatto per gli altri) vengono meno di fronte al terrore. le genti barbare del passato ( ). 9 Avanti che se ne andasse: 10 Nevado: 11 gelosie: 12 che: 13 sopra i latrati del buio: 14 ne: 15 l’intrinseco: 16 rivolvere: 17 i e le quadrature di Keplero: matemi 18 che perseguono… senza senso: 19 l’ellisse… dolore: 20 dissolto: 21 si adombrava talora delle sue cupe nuvole: 22 che vaporavano… ad un tratto: 23 Quella minaccia: 24 alla: 25 cagione: 26 trasportatamente: 27 Allora ogni soccorrevole… si smarriva: la consapevolezza 28 La folla… persi: evi persi  >> pag. 858  un torbido enigma, davanti a cui si chiedeva angosciata – (ignara come smarrita bimba) – perché, perché. L’uragano, e anche quel giorno, soleva percorrere con lunghi ululati le gole paurose delle montagne, e sfociava poi nell’aperto contro le case e gli opifici degli uomini. Dopo ogni tetro accumulo di sua rancura, per tutto il cielo si disfrenava alle folgori, come nel guasto e nelle rapine un capitanaccio dei lanzi a gozzovigliare tra sinistre luci e spari. Il vento, che le aveva rapito il figlio verso smemoranti cipressi, ad ogni finestra pareva cercare anche lei, anche lei, nella casa. Dalla finestretta delle scale, una raffica, irrompendo, l’aveva ghermita per i capegli: scricchiolavano da parer istiantare i pianciti e le loro intravature di legno: come fasciame, come di nave in fortuna: e gli infissi chiusi, barrati, gonfiati da quel furore del di fuori. Ed ella, simile ad animale di già ferito, se avverta sopra di sé ancora ed ancora le trombe efferate della caccia, si raccolse come poteva nella sua stremata condizione a ritrovare un rifugio, da basso, nel sottoscala: scendendo, scendendo: in un canto. Vincendo paurosamente quel vuoto d’ogni gradino, tentandoli uno dopo l’altro, col piede, aggrappandosi alla ringhiera con le mani che non sapevano più prendere, scendendo, scendendo, giù, giù, verso il buio e l’umidore39 del fondo. 50 29 55 30 31 32 33 34 35 60 36 37 38 65 fabbriche. dopo aver raccolto la sua rabbia e il suo rancore ( ), l’uragano esplode violentemente in una tempesta di fulmini, come avrebbe potuto fare un losco capitano dei lanzichenecchi ( ) intento alle sue razzie tra lampi e spari di pistola. Anche in questo caso il verbo “accumulare” rimanda al cumulo–nembo. il vento della morte che le aveva portato via il figlio conducendolo verso il cimitero. I sono poiché simboleggiano l’oblio causato dalla morte. afferrata. capelli. le liste di legno (le ) del pavimento ( ) scricchiolavano tanto da sembrare che stessero per cedere e schiantarsi ( ). come il rivestimento della struttura di una nave che si trova in pericolo, in balia della sorte. È una citazione dantesca («ond’ el piegò come nave in fortuna», , XXXII, 116). quando sente. i crudeli suoni dei corni da caccia. in un angolo. umidità. 29 opifici: 30 Dopo… spari: rancura lanzi 31 Il vento… cipressi: cipressi smemoranti 32 ghermita: 33 capegli: 34 scricchiolavano… legno: intravature pianciti istiantare 35 come fasciame… fortuna: Purgatorio 36 se avverta: 37 le trombe… caccia: 38 in un canto: 39 umidore: Dentro il testo       I contenuti tematici In questo capitolo la madre entra per la prima volta direttamente sulla scena del romanzo: in precedenza era stata soltanto evocata nei discorsi degli abitanti di Lukones o nelle parole di Gonzalo. Le prime due sequenze sono incentrate sulla rievocazione accorata della perdita del figlio in guerra, un ricordo che sembra tormentare senza requie la povera donna, incapace di trovare altra ragione di vita. Il dolore è così devastante da essere ormai indissolubilmente racchiuso in semplici nomi: quello del monte su cui l’aereo del soldato è precipitato e quello del luogo in cui è stato seppellito il corpo (rr. 2–3). È sufficiente ascoltare quei nomi perché essa ripiombi nell’abisso dell’assenza del figlio prediletto e perché si scatenino in lei il pianto e lo strazio. Il ricordo del figlio morto La donna si muove nella casa senza sapere dove andare o cosa fare: il termine viene usato ben tre volte, nel primo, terzo e quarto capoverso, a esprimere la mancanza di scopo e di direzione. Sia le cose sia i gesti denotano una quotidianità ormai privata, per sempre, di senso: le pentole di rame appese al muro ( rr. 1–2), le persiane aperte per far entrare il sole ( rr. 23–24), la cucina vuota ( r. 30), regno ormai soltanto delle mosche, sinistre presenze che Gadda evoca molto spesso come simbolo di morte. vagava tutto ciò che le era rimasto? di una vita, Ma che cosa era il sole? Quale giorno portava? sopra i latrati del buio, senza più fuoco alle stanze, senza più voci, Vagare senza una meta  >> pag. 860  Nel secondo capoverso compare un elemento che cela un significato psicanalitico profondo. La donna sembra riconoscere nel sottufficiale il figlio perduto, tanto che risorge in lei il desiderio di amare. Si tratta però di un’illusione, in quanto non soltanto quel figlio non tornerà più (rapito dal vento , r. 55), ma anche l’altro – Gonzalo – è ormai lontano, lontano (rr. 34–35). I due figli, per ragioni diverse, sono sullo stesso piano, ormai irraggiungibili, e nel suo destino di madre perduta, nel suo (r. 28) ci sono esclusivamente tristezza e abbandono. Non a caso, mentre un uragano si avvicina, la donna viene descritta come una bimba indifesa e sgomenta davanti all’infuriare della tempesta che incombe drammaticamente, emblema di una vita straziata e agonizzante. È rimasta sola ad affrontare la vita, perché il figlio sopravvissuto non è che un estraneo, un misantropo incapace di affetto, a sua volta vittima disgraziata di un oscuro e incomunicabile rovello interiore. verso smemoranti cipressi terribilmente sentiero misterioso Una speranza disattesa Le scelte stilistiche La figura tragica della donna viene avvolta da un linguaggio dolente ed evocativo, fatto di avverbi e termini rari e preziosi ( , r. 4; , rr. 18–19; , r. 30; , r. 33; , r. 43; , r. 65), sintagmi di lirica bellezza che prediligono la struttura aggettivo-nome-complemento ( , r. 11; , r. 12) o nome–aggettivo–complemento ( , r. 17; , rr. 22–23). La prosa tende al verso poetico, con la ripetizione di alcuni vocaboli a rafforzare l’ineluttabilità della perdita ( , rr. 40–41) e l’impiego anaforico* di quel posto a inizio di tre capoversi per richiamare l’ossessiva ripetizione dei gesti e dei comportamenti in cui la donna è piombata dopo la tragedia, incapace di uscire dall’orbita di quella sofferenza ( , r. 27). dimenticanza riapparita imagine vaporavano trasportatamente umidore feroce rincrudire d’una condanna buia voce dell’eternità fulgore breve del tempo abito umiliato della vecchiezza nessuno, nessuno mai, ritorna, r. 19; il male che risorge ancora, ancora e sempre vagava l’ellisse del nostro disperato dolore Un lirico omaggio alla madre È uno stile che si mantiene alto e che lascia poco spazio al *: uno stile che al tempo stesso omaggia la madre, i suoi gusti di donna colta e di insegnante, e la immerge in un tessuto lessicale ricchissimo, in una cadenza ritmica che sembra ripeterne il pianto, con l’uso intenso della punteggiatura che spezza continuamente la frase come in un continuo singhiozzo: (rr. 1–2). Soltanto dopo queste prime sequenze, e poi nel resto del capitolo, i periodi diventano più lunghi, dando di nuovo spazio al racconto. pastiche Vagava, / sola, / nella casa. / Ed erano quei muri, / quel rame, / tutto ciò che le era rimasto? / di una vita Come in un pianto Da notare è anche il tempo verbale scelto. L’imperfetto infatti, specialmente nei primi capoversi, rende l’azione in movimento e confonde i momenti temporali in un fluire continuo di passato, presente e futuro, restituendo il senso del non finito e il groviglio di sensazioni e dolore che segna la madre nella sua progressiva «cognizione del dolore» della vita. Il tempo imperfetto Verso le competenze       COMPRENDERE Suddividi il brano in sequenze e riassumilo. 1 ANALIZZARE Il testo è ricco di ripetizioni e di anafore. Individuane almeno cinque e specificane il significato. 2 Quali sono gli elementi stilistici che accentuano il tono poetico e struggente del brano? Fai qualche esempio. 3 INTERPRETARE Quali sono gli elementi autobiografici che Gadda inserisce in queste pagine? 4 A un certo punto Gadda parla di (r. 32): perché? Che significato ha il tempo all’interno del brano? 5 tempo dissolto Come descriveresti la figura della madre dal punto di vista emotivo e psicologico? 6