Sguardi sul NOVECENTO «Scrivere una poesia dopo Auschwitz un atto di barbarie»: questa affermazione categorica pronunciata dal filosofo tedesco Theodor W. Adorno (19031969) pu essere considerata il sigillo simbolico per i sopravvissuti che hanno rinunciato a condividere la memoria pubblica dell orrore, nella convinzione che l arte non potesse sublimare o semplicemente narrare il massacro. Sulla stessa falsariga di questo giudizio lapidario vi la percezione, espressa dal critico e scrittore francese George Steiner (n. 1929), della «morte della lingua tedesca» dinanzi all esperienza del genocidio. Eppure in altri casi l urgenza del racconto supera la consapevolezza dei limiti della parola: Elie Wiesel, per esempio, uno degli autori che presentiamo, scrive che «tacere proibito, parlare impossibile». Nel tentativo di sciogliere questo paradosso, gli intellettuali reduci dai lager (e tra tutti, naturalmente, Primo Levi) riaffermano le proprie responsabilit , la volont disperata (che per alcuni un dovere civile, per altri semplicemente umano, per altri ancora perfino religioso) di sfidare la zona grigia del disimpegno, trasformandosi in «sentinelle che hanno visto la catastrofe, le hanno dato un nome e l hanno interpretata» (Traverso). Arrivo di ebrei ungheresi al campo di concetramento di Auschwitz-Birkenau nel giugno del 1944. La sfida poetica La ricerca di una lingua del lutto in Paul Celan In contrasto con il giudizio di Adorno, il poeta ebreo di origini rumene e di madrelingua tedesca Paul Celan (pseudonimo di Paul Antschel, 1920-1970) scrive, qualche mese dopo la guerra, che «non c nulla al mondo che possa spingere un poeta a cessare di scrivere, neppure il fatto che sia ebreo e il tedesco la lin- gua dei suoi poemi». Egli infatti tenta di cogliere il modo per esprimere Auschwitz e trasformare l orrore in linguaggio: la sua un esplorazione «dentro la lingua della morte», che risponde a un esigenza quasi biologica di «trovare la parola magica e segreta che apra la prigione della storia» (Magris). 1087