Letture critiche L’universale nel particolare di Jorge Luis Borges Nove saggi danteschi raccoglie alcuni interventi dello scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) sulla Divina Commedia composti tra il secondo dopoguerra e gli anni Ottanta del Novecento. La sua lettura del poema dantesco – basata su una cultura vastissima – si intesse di mille riferimenti letterari, suggestioni e spunti critici: per esempio, ritrova nella Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda il Venerabile (del 731 d.C. circa) alcune visioni che anticipano la Commedia, oppure ravvisa nel comportamento del Raskol’nikov di Delitto e castigo di Dostoevskij l’atteggiamento di contraddittoria compassione di Dante di fronte a Beatrice. Nel Prologo, tuttavia, invita a lasciarsi andare alla lettura del poema «con innocenza», godendoselo come un’«illustrazione di vastità universale». Immaginiamo, in una biblioteca orientale, un’illustrazione di molti secoli fa. Forse è araba e ci dicono che vi sono raffigurati tutti i racconti delle Mille e una notte; forse è cinese e sappiamo che illustra un romanzo con centinaia o migliaia di personaggi. Nel tumulto delle sue forme, qualcuna – un albero che somiglia a un cono capovolto, minareti color vermiglio oltre un muro di ferro – richiama la nostra attenzione, poi da questa passiamo ad altre. Declina il giorno, si attenua la luce, e man mano che penetriamo nell’incisione comprendiamo che non c’è cosa sulla terra che non sia anche lì. Ciò che fu, ciò che è e ciò che sarà, la storia del passato e quella del futuro, le cose che ho avuto e quelle che avrò, tutto questo ci aspetta in qualche angolo di quel tranquillo labirinto… Ho immaginato un’opera magica, un’illustrazione che sia anche un microcosmo; il poema di Dante è questa illustrazione di vastità universale. Eppure credo che, se potessimo leggerlo con innocenza (ma tale felicità ci è negata), la prima cosa che noteremmo non sarebbe il suo carattere universale e meno ancora quanto ha di sublime e di grandioso. Molto prima noteremmo, credo, altri aspetti meno gravi e ben più dilettevoli; innanzitutto, forse, quello che evidenziano i dantisti inglesi: la varia e felice invenzione di dettagli precisi. A Dante non basta dire che, avvinghiatisi un uomo e un serpente, l’uomo si trasforma in serpente e il serpente in uomo; paragona questa mutua metamorfosi al fuoco che divora un foglio di carta, preceduto da una frangia rossastra dove il bianco muore e che ancora non è nera (Inferno, XXV, 64). Non gli basta dire che, nell’oscurità del settimo cerchio, i condannati socchiudono gli occhi per guardarlo; li paragona a uomini che si scrutano sotto una luna incerta o al vecchio sarto che infila l’ago (Inferno, XV, 19). […] È noto a tutti che i poeti procedono per iperboli: per Petrarca, o per Góngora, ogni chioma di donna è oro e ogni acqua è cristallo; questo meccanico e grossolano alfabeto di simboli indebolisce il rigore delle parole e sembra fondato sull’indifferenza dell’osservazione imperfetta. Dante si vieta tale errore; nel suo libro non c’è parola che sia ingiustificata. La precisione che ho appena indicato non è un artificio retorico; è affermazione dell’onestà, della pienezza con cui ogni circostanza del poema è stata immaginata. E altrettanto può dirsi dei dettagli di natura psicologica, così ammirevoli e al tempo stesso così semplici. Di tali dettagli è come intessuto il poema; ne citerò alcuni. Le anime destinate all’Inferno piangono e bestemmiano Dio; appena sulla barca di Caronte, il loro timore si trasforma in desiderio e intollerabile ansia (Inferno, III, 124). Dalle labbra di Virgilio Dante apprende che questi non avrà mai accesso al Cielo; subito lo chiama maestro e signo- 350