T4 Libertà Da  Novelle rusticane Già intorno al 1848, in provincia di Catania, vi furono molti casi di occupazione della terra da parte dei contadini nullatenenti, ma la loro lotta fu vanificata dall’opposizione delle aristocrazie locali e delle classi borghesi benestanti, che riuscirono a evitare l’assegnazione di tali beni demaniali. Nel 1860, all’indomani dello sbarco di Garibaldi a Marsala, in occasione della spedizione dei Mille, i moti insurrezionali presero nuovo slancio, ma incontrarono nuovamente la resistenza dei ceti dirigenti. L’esasperazione dei contadini esplose con uccisioni di notabili e saccheggi, in un crescendo che determinò il duro intervento e la repressione a opera del contingente governativo guidato dal luogotenente di Garibaldi, Nino Bixio. La novella, pubblicata per la prima volta in rivista nel 1882, trae spunto proprio da queste vicende, in particolare dalla rivolta avvenuta a Bronte, una cittadina agricola alle falde dell’Etna. È l’unica opera nella quale Verga sceglie per soggetto un fatto storico realmente avvenuto, anche se omette di nominare i luoghi e i personaggi coinvolti. Una  rivoluzione fallita Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a 1 2   stormo, e cominciarono a gridare in piazza: «Viva la libertà!» 3 Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei , davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette galantuomini 4 bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola. 5       5 «A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!» Innanzi 6 7 a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. «A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima!» A te, ricco epulone, 8 che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! «A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente!» «A te, guardaboschi! 10     che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!» 9 E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! «Ai ! Ai ! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!» galantuomini cappelli 10 Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. «Perché? perché mi ammazzate?» 15     «Anche tu! al diavolo!» Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. «Abbasso i cappelli! Viva la libertà!» «Te’! tu pure!» Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. «Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale!» La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, 20     11 l’inverno della fame, e riempiva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella 12 carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre 13 la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. stesero. Sciorinarono: 1 è la bandiera italiana. un fazzoletto… colori: 2 a martello, per richiamare la popolazione. a stormo: 3 circolo riservato ai benestanti. casino dei : 4 galantuomini copricapi portati dai contadini. berrette bianche: 5 frustare. nerbare: 6 guardie armate addette alla sorveglianza dei campi. campieri: 7 riferimento al protagonista di una parabola evangelica (Luca, 16, 19), noto per la sua avarizia e la sua smodata ricerca dei piaceri della tavola. epulone: 8 il guardaboschi viene accusato di aver denunciato per una misera somma (il tarì era la moneta in corso nel regno di Napoli) i poveri che raccolgono legna nei boschi. guardaboschi… giorno: 9 così vengono indicati i galantuomini che li indossano. : 10 cappelli signora (in dialetto siciliano). gnà: 11 sportello girevole, posto nei muri dei conventi, dove venivano abbandonati i neonati. la Ruota: 12 saziarsi. satollarsi: 13 Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il 14 ventre, e sgozza dalla rabbia. «Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere 25     cosa fosse lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia» don Paolo, il quale 15 tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo 16 fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che 30     17 era nelle bisacce del marito. «Paolo! Paolo!» Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello. 18 Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era 35     rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: «Neddu! Neddu!» Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. 40     19 «Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre;» strappava il cuore! «Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni e tremava come una foglia». Un altro gridò: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!» «Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava 45     versare tutto il resto. Tutti! tutti i !» Non era più la fame, le bastonate, le cappelli soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne 20 più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l’ira in falsetto , colle carni 21 tenere sotto i brindelli delle vesti. «Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta!» Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente! «Te’! Te’!» 50     Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti 22 orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure! La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla 55     chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima 23 c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. «Viva la libertà!» E sfondarono 24 il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. «I campieri dopo!» «I campieri dopo!» Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza 60     25 col lattante al seno, scarmigliata e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: «Mamà! mamà!» Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s’era 65     rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei , un altro per i fianchi, un capelli altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò 70     dalle braccia il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria. mandria. mandra: 14 farmacista. speziale: 15 sua figlia. sua ragazza: 16 verdura. minestra: 17 per bussare alla porta. martello: 18 ciononostante. nonostante: 19 ingiustizie. soperchierie: 20 con voce alterata. in falsetto: 21 camere da letto. alcove: 22 Al tempo dei Borboni, prima dello sbarco dei Mille. Prima: 23 per chi. chi: 24 ingrassati con cibi raffinati. carni… buono: 25 E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi 75     della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a 26 sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare 80     27 secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte. 28 Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano 29 s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando 85     a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. «Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani!» Il casino dei era sbarrato, e non si sapeva dove andare a galantuomini prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio. 90     E come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava 30 tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in 95     cagnesco il vicino. «Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti!» Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei ! cappelli «Se non c’era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa!» E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, 31 32 dopo bisogna tornare a spartire da capo? «Ladro tu e ladro io. Ora che c’era la 100  libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei !» galantuomini Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure. Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva 33 tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per 105  schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli . Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo. infedeli, senza religione. turchi: 26 negli angoli. per i canti: 27 perché appartenevano agli uccisi. deserte: 28 faceva giorno. Aggiornava: 29 man mano che si avvicinava il mezzogiorno (quando il sole è in alto e l’ombra viene meno). come l’ombra… sagrato: 30 redigere gli atti di proprietà. metterla sulla carta: 31 a chi rubava di più, cercando di imbrogliare gli altri. a riffa e a raffa: 32 Nino Bixio (1821-1873), inviato da Garibaldi per reprimere la rivolta. il generale: 33 Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi 110  come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo 34 era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli 115  aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa. 35 Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre 120  interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo «ahi!» ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che 36 non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra 37 due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo 125  alle vigne, in mezzo alle biade color d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti 130  divenivano sempre più gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si 135  38 39 mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I non potevano lavorare le loro terre colle 140  galantuomini proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i . Fecero la galantuomini pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire 40 dal carcere, egli ripeteva: «Sta tranquilla che non ne esce più». Ormai nessuno ci 145  pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi , dinanzi al casino di conversazione, galantuomini col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci. 41 Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il 150  sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia ché capponi davvero si diventava là 42 dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s’era 155  43 imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. 44 «Voi come vi chiamate?» E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, 160  dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici , stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si galantuomini 45 grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano 46 scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi 165  se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: «Sul mio onore e sulla mia coscienza!...» Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: «Dove mi 170  conducete?» «In galera?» «O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la liberta!...» bestemmiando. sacramentando: 34 mortaretti. mortaletti: 35 panca. scranna: 36 a Catania. in città: 37 procurarsi. buscarsi: 38 stazione dei cavalli. stallazzo: 39 preoccupazioni. ubbie: 40 a volar via sono solo gli stracci (cioè, fuori di metafora, a pagare sono sempre gli ultimi). all’aria… cenci: 41 la gabbia dove sono rinchiusi gli imputati. capponaia: 42 di fronte al viso. sul mostaccio: 43 cioè che l’aveva tradito con la moglie. che s’era… con lui: 44 si tratta dei giurati. : 45 galantuomini mormoravano. ciangottavano: 46  >> pagina 227 Dentro il TESTO I contenuti tematici L’immagine demoniaca di una donna inferocita inaugura la descrizione della rivolta: (rr. 7-8). È la prima di una serie di figure messe sulla scena senza una precisa visione gerarchica: nella moltitudine dei ribelli non affiora un singolo protagonista. Al contrario, un soggetto collettivo indefinito ( , r. 1; , r. 1; , r. 2) assorbe le individualità in una massa rabbiosa che ricorda quella dei tumulti per il pane nei . una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto di unghie sciorinarono suonarono cominciarono Promessi sposi Una rappresentazione corale Senza che il narratore spieghi il contesto e presenti un antefatto delle vicende, il lettore viene catapultato in mezzo alle (rr. 4-5), cioè ai contadini e ai popolani, che con falci e scuri si scagliano contro (r. 4) e (r. 13), ossia quanti da secoli esercitano un potere economico senza limiti sulla povera gente, vessata da un dominio arbitrario e tirannico. La violenza dei ribelli nasce proprio dal desiderio, covato a lungo, di emanciparsi dallo sfruttamento: per loro libertà significa conquistare la terra e poter mutare equilibri precostituiti e da troppo tempo inalterati, a costo di sprigionare l’odio represso con un’eccitazione irrazionale ( , r. 96). La strage è la conseguenza di un odio bestiale: quella che il narratore descrive è una cieca , una sollevazione che dà sfogo solo agli istinti, per nulla supportati da un progetto sociale credibile. berrette bianche galantuomini cappelli Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti jacquerie In medias res A differenza di altre novelle, qui Verga lascia trapelare la propria ideologia di conservatore diffidente di ogni cambiamento: omettendo di sottolineare le responsabilità dei ricchi nell’opprimere le misere plebi, egli si sofferma sulle efferatezze dei popolani, passando in rassegna le vittime della loro furia, per lo più innocenti, dal povero don Paolo, modesto proprietario caduto in rovina, al figlio undicenne del notaio, fino alla baronessa che stringe al seno un lattante. D’altra parte, la sanguinosa mattanza non può produrre effetti: la domenica successiva, uccisi tutti i notabili del paese, i rivoltosi si ritrovano senza una guida, incapaci di gestire i propri interessi: il (r. 90) che pende dal campanile del paese, immerso in un silenzio spettrale, è il simbolo del fallimento dell’insurrezione. fazzoletto tricolore, floscio La visione pessimistica verghiana della Storia è insomma presente anche in questa novella: le gerarchie sociali sono un fatto naturale e le differenze tra le classi saranno sempre immutabili (  galantuomini   galantuomini, rr. 140-141). La giustizia sommaria praticata da Bixio e i processi che portano in carcere i responsabili della rivolta costituiscono l’ovvio, disastroso coronamento di un irrealizzabile moto rivoluzionario. Alla fine, tutto rimane come prima, la vita riprende il suo corso e presto o tardi tutti dimenticheranno l’accaduto. Soltanto   (r. 146) terranno vivo il ricordo, traendone la morale   (r. 149): un’amara lezione che rammenta a tutti gli illusi quanto sia inutile combattere contro il fatale corso della vita umana. I non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i qualche madre, qualche vecchiarello che all’aria ci vanno i cenci L’interpretazione verghiana dei fatti  >> pagina 228  Le scelte stilistiche Coerentemente con la poetica verista, il narratore è interno al mondo narrato: ne assume i riferimenti culturali ( , r. 8), modi di dire ( , r. 77) ed espressioni dialettali ( , rr. 19-20). Si mimetizza al punto da sembrare un testimone delle violenze dei contadini. Ma, come abbiamo cercato di mettere in luce, questa volta la fedeltà al vero è sacrificata sull’altare dell’ideologia. La gratuità dell’eccidio e la ferocia dei suoi invasati protagonisti (la cui azione è metaforicamente rappresentata come un incontrollato elemento naturale: , r. 3; , r. 39; , r. 62) emergono chiaramente nella condanna della rivolta, un (r. 75), mentre nel tumulto della barbarie si stagliano i casi pietosi di vittime inerti, travolte dal dilagare della barbarie. Come ha scritto il critico Giancarlo Mazzacurati, «il narratore, perduta ogni equidistanza, scaglia contro la massa infuriata la sua esplicita difesa di classe»: l’ottica dell’anonimo spettatore finisce per lasciare lo spazio a una riflessione personale e sconsolata sull’inutilità del conflitto politico. ricco epulone come in un paese di turchi La gnà Lucia il mare in tempesta il torrente la piena di un fiume carnevale furibondo di luglio La rinuncia all’equidistanza Verso le COMPETENZE COMPRENDERE 1 La novella può essere suddivisa in tre macrosequenze: individuale e attribuisci un titolo a ciascuna di esse. 2 Quale giustificazione viene addotta per l’assassinio del figlio del notaio da parte di uno dei suoi carnefici? 3 Come si comportano i contadini quando pensano a come spartirsi la terra? 4 Che significato ha la frase del carbonaio che chiude la novella? Analizzare 5 Nella prima parte della novella, i contadini e i benestanti vengono indicati con il nome dei rispettivi copricapo: berrette bianche (rr. 4-5 ) e cappelli (r. 13 ). Quale figura retorica usa in questo caso l’autore?  Metafora.  a  Personificazione. b  Metonimia.  c  Sineddoche. d Interpretare 6 Il ritmo narrativo della novella è estremamente vario. Si possono notare, per esempio, la velocità incalzante con la quale vengono seguite le fasi della rivolta e la pacatezza delle scene relative ai giorni successivi. A quale scopo, a tuo giudizio, Verga adotta questa strategia narrativa? 7 Con quale punto di vista vengono rappresentati i giurati? Come spieghi questa scelta dell’autore? 8 Un grande scrittore siciliano del Novecento, Leonardo Sciascia (1921-1989), ha approfondito l’analisi dei fatti di Bronte accusando Verga di averne dato una versione deliberatamente settaria. Per esempio, nella novella si tace il ruolo di uno dei capi della ribellione, un avvocato liberale, Nicolò Lombardo, le cui azioni non potevano certo essere spiegate come uno sbocco improvviso e irrazionale di aggressività. Come spieghi la parzialità dell’interpretazione verghiana?  >> pagina 229  COMPETENZE LINGUISTICHE  Nella novella i nobili e i borghesi vengono indicati con il termine  . Quali altri gruppi sociali oggi vengono a volte indicati, metonimicamente, attraverso un accessorio o un capo d’abbigliamento? 9 cappelli I camici   Le toghe   Le parrucche/i parrucconi   Le sottane   Le divise   Produrre  Sulla base della rappresentazione verghiana, traccia un ritratto di Nino Bixio in circa 20 righe. 10 Scrivere per descrivere.  Anche nei   abbiamo incontrato una celebre rivolta: l’assalto ai forni a seguito del rincaro del pane. Quali analogie e quali differenze cogli nell’atteggiamento dell’autore rispetto all’azione della folla inferocita? Rispondi in un testo di circa 30 righe. 11 Scrivere per confrontare. Promessi sposi La concezione della vita 4 La lucida analisi della realtà che Verga compie nella sua opera può, sia pure indirettamente, servire da denuncia della tragica sconfitta che incombe sull’umanità, nella quotidiana lotta per la sopravvivenza. Non si pensi tuttavia che egli sia tentato di suggerire proposte consolatorie, possibili illusioni e vie di fuga capaci di offrire alternative alla vita di oggi o di domani. Verga non concepisce alcuna possibilità di riscatto o di emancipazione, perché il non deriva dalle ingiustizie o dal corso della Storia, ma è e per questo riguarda indistintamente tutti gli uomini e tutte le classi sociali. dolore connaturato al fatto stesso di esistere L’autore anzi esprime una condanna nei confronti di chi tenta di mutare la propria condizione sociale e di affrancarsi dalle proprie origini. L’unica risposta possibile alla situazione di sofferenza è di natura difensiva: nella novella , per esempio, Verga esalta il «tenace attaccamento di quella povera gente» alla propria terra, ai propri costumi, alla propria mentalità. L’orizzonte dei vinti e dei diseredati sarà sempre chiuso «fra due zolle», al di fuori delle quali ci sono soltanto la rovina e la perdizione: «Allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui». È qui enunciato il cosiddetto « »: come questa, staccata dal proprio scoglio, è destinata a morire, così fatalmente . Fantasticheria ideale dell’ostrica chi abbandona, rifiuta o tenta di emanciparsi dalle proprie radici è condannato a soccombere L’«ideale dell’ostrica»  >> pagina 230  Accettando la teoria darwiniana della “lotta per la vita”, Verga non ripone alcuna fiducia nel , che anzi è visto come una macchina mostruosa, una « » inarrestabile che travolge i più deboli: per sopravvivere al vortice evolutivo, non resta che ancorarsi alla condizione che si è avuta in sorte, difendendosi da ogni interferenza esterna e da ogni tentazione di alleviare il proprio stato. Il destino che si abbatte sugli uomini è infatti invincibile e immutabile. Inutile è contrapporvisi, confidando in un riscatto impossibile, che sia quello promesso dalla Provvidenza divina, oppure quello garantito dai cantori positivisti della scienza, o ancora quello auspicato dai socialisti mediante la lotta di classe. Si può solamente tentare di mitigarne i colpi e le avversità appigliandosi al lavoro, alla famiglia e ai primitivi codici di saggezza e di sopportazione: una mesta, ma rappresenta per Verga l’unico antidoto morale al dolore dell’esistenza e all’urto spietato della civiltà. progresso fiumana dignitosa rassegnazione Le devastanti conseguenze del progresso Alla concezione positiva della Storia di tradizione illuministica e liberale, Verga oppone dunque «la visione di un caotico e ingovernabile divenire del mondo, che trascende la volontà degli uomini ed è indifferente alla loro sorte, rievocando la severa immagine leo­pardiana di natura» (Martinelli). Di questa sorte, Verga vuole essere il testimone: il suo ateismo materialista lo porta a guardare alla realtà senza concepire per l’individuo alcuna felicità, ma soltanto un orizzonte dominato da una grandiosa e oscura fatalità. Scopo ultimo della sua opera è mostrare il , l’impari lotta che si è costretti a ingaggiare per sopravvivere ai meccanismi della Storia e della natura. carattere ineluttabile dell’esperienza umana Il pessimismo verghiano Questa cupa visione del mondo si accentua sempre più, durante la sua parabola di uomo e di scrittore. Con , soprattutto, assistiamo a una crescente disumanizzazione e all’affermarsi di temi quali l’ e l’ . Travolto ogni sentimento di appartenenza e cancellati i vincoli di umanità e solidarietà, il mondo verghiano finisce per essere guidato solo da una , accettata da tutti senza neppure il tentativo di contrastarla. I valori borghesi di profitto e benessere hanno ormai turbato e corrotto gli equilibri di una società secolare e immobile, conducendola alla disgregazione. È un processo senza ritorno, come senza ritorno è la vicenda del manovale Gesualdo fattosi – per sua disgrazia – borghese. Mastro-don Gesualdo alienazione incomunicabilità vorace logica economica Nessuno riesce a sottrarsi al culto della «roba», la proprietà dei beni materiali diventa aspirazione di vita, unico, ossessivo fine dell’esistenza umana. Chi accumula proprietà si illude di avere maggiori probabilità di sopravvivere, mettendosi al riparo dalle insidie di una società in cui ognuno può “farcela” soltanto a scapito degli altri. Al tempo stesso, i beni diventano parte integrante della persona, tanto che chi li possiede non è in grado di distaccarsene (come vediamo nel tragicomico epilogo della vita di Mazzarò, protagonista della novella ). La roba Il motivo della «roba» Il personaggio di rappresenta proprio una del progresso e : ancora ingenuamente fiducioso di poter far convivere «roba» e affetti, finisce per soggiacere alla legge crudele che vede l’una nemica degli altri. Gesualdo vittima delle spietate leggi del determinismo verghiano D’altro canto, per quanto arricchitosi, egli resta e resterà per sempre un “villano”, che ha faticato tanto per entrare nel mondo dei “signori” solo per scoprire che la morale economica che vi regna (e a cui si è dovuto adeguare) lo ha condotto alla solitudine, all’inaridimento e all’incomunicabilità con i suoi cari. Il cancro che lo porta alla tomba è, in questo senso, metaforicamente lo sfacelo della sua «roba» destinata a essere sperperata, in un connubio tragico e significativo: perdere la «roba» è, in fondo, come perdere la vita. L’ambizione rovinosa