T6 La morte di Gesualdo , IV, cap. 5 Mastro-don Gesualdo Riportiamo le pagine finali del romanzo. Gesualdo, nel palazzo ducale del genero, assiste impotente e rassegnato al disfacimento di tutto ciò che ha costruito. Abbandonato dai familiari, rifiutato dalla nobiltà, egli vorrebbe almeno stabilire un dialogo sincero con la figlia Isabella. Ma ciò non è possibile e il vecchio muore in una solitudine senza affetti, dopo una straziante agonia sotto lo sguardo malevolo della servitù. La triste  di un  fine  uomo solo Parve a don Gesualdo d’entrare in un altro mondo, allorché fu in casa della figliuola. Era un palazzone così vasto che ci si smarriva dentro. Da per tutto cortinaggi 1 e tappeti che non si sapeva dove mettere i piedi – sin dallo scalone di marmo – e il portiere, un pezzo grosso addirittura, con tanto di barba e di soprabitone, vi squadrava dall’alto al basso, accigliato, se per disgrazia avevate una faccia che non 5      lo persuadesse, e vi gridava dietro dal suo gabbione: «C’è lo stoino per pulirsi le 2 scarpe!». Un esercito di mangiapane, staffieri e camerieri, che sbadigliavano a 3 4 bocca chiusa, camminavano in punta di piedi, e vi servivano senza dire una parola o fare un passo di più, con tanta degnazione da farvene passar la voglia. Ogni cosa 5 regolata a suon di campanello, con un cerimoniale di messa cantata – per avere un 10     6 bicchier d’acqua, o per entrare nelle stanze della figliuola. Lo stesso duca, all’ora di pranzo, si vestiva come se andasse a nozze. Il povero don Gesualdo, nei primi giorni, s’era fatto animo per contentare la figliuola, e s’era messo in gala anche lui per venire a tavola, legato e impastoiato, 7 8 con un ronzìo nelle orecchie, le mani esitanti, l’occhio inquieto, le fauci strette da 15     9 tutto quell’apparato, dal cameriere che gli contava i bocconi dietro le spalle, e di cui ogni momento vedevasi il guanto di cotone allungarsi a tradimento e togliervi la roba dinanzi. L’intimidiva pure la cravatta bianca del genero, le credenze alte e scintillanti come altari, e la tovaglia finissima, che s’aveva sempre paura di lasciarvi cadere qualche cosa. Tanto che macchinava di prendere a quattr’occhi la figliuola, 20     e dirle il fatto suo. Il duca, per fortuna, lo tolse d’impiccio, dicendo ad Isabella, dopo il caffè, col sigaro in bocca e il capo appoggiato alla spalliera del seggiolone: «Mia cara, d’oggi innanzi credo che sarebbe meglio far servire papà nelle sue stanze. Avrà le sue ore, le sue abitudini… Poi, col regime speciale che richiede il suo stato di salute…». 25     10 «Certo, certo», balbettò don Gesualdo. «Stavo per dirvelo… Sarei più contento anch’io… Non voglio essere d’incomodo…». «No. Non dico per questo. Voi ci fate a ogni modo piacere, caro mio». Gesualdo, malato  stanco, ospite della figlia tendaggi. cortinaggi: 1 piccola stuoia. stoino: 2 fannulloni. mangiapane: 3 sono i servi incaricati di reggere la staffa al signore nel momento in cui questi saliva a cavallo, e di seguirlo poi camminando a piedi accanto alla staffa. staffieri: 4 di essere serviti. passar la voglia: 5 il punto di vista di Gesualdo comunica il fastidio per i costumi e le abitudini dell’insensata vita aristocratica. Ogni cosa… cantata: 6 si era vestito a festa. s’era messo in gala: 7 impacciato. impastoiato: 8 la gola chiusa. le fauci strette: 9 il duca si esprime con un linguaggio falso e cerimonioso, che connota la sua indole ipocrita e affettata. Mia cara… salute: 10 Egli si mostrava proprio un buon figliuolo col suocero. Gli riempiva il bicchierino; lo incoraggiava a fumare un sigaro; lo assicurava infine che gli trovava miglior 30     cera, da che era arrivato a Palermo, e il cambiamento d’aria e una buona cura l’avrebbero guarito del tutto. Poi gli toccò anche il tasto degli interessi. Mostravasi giudizioso; cercava il modo e la maniera d’avere il piacere di tenersi il suocero in casa un pezzo, senza timore che gli affari di lui andassero a rotta di collo… Una 11 procura generale… una specie d’ … Don Gesualdo si sentì morire il sorriso 35     alter ego 12 in bocca. Non c’era che fare. Il genero, nel viso, nelle parole, sin nel tono della voce, anche quando voleva fare l’amabile e pigliarvi bel bello, aveva qualcosa che vi respingeva indietro, e vi faceva cascar le braccia, uno che avesse voluto buttargliele al collo, proprio come a un figlio, e dirgli: «Tè! per la buona parola, adesso! Pazienza il resto! Fai quello che vuoi!». 40     Talché don Gesualdo scendeva raramente dalla figliuola. Ci si sentiva a disagio col signor genero; temeva sempre che ripigliasse l’antifona dell’ . Gli mancava 13 alter ego l’aria, lì fra tutti quei ninnoli. Gli toccava chiedere quasi licenza al servitore che faceva la guardia in anticamera per poter vedere la sua figliuola, e scapparsene appena giungeva qualche visita. L’avevano collocato in un quartierino al pian di 45     sopra, poche stanze che chiamavano , dove Isabella andava a vederlo la foresteria ogni mattina, in veste da camera, spesso senza neppure mettersi a sedere, amorevole e premurosa, è vero, ma in certo modo che al pover’uomo sembrava d’essere davvero un forestiero. Essa alcune volte era pallida così che pareva non avesse chiuso     occhio neppur lei. Aveva una certa ruga fra le ciglia, qualcosa negli occhi, che 50 a lui, vecchio e pratico del mondo, non andavan punto a genio. Avrebbe voluto pigliarsi anche lei fra le braccia, stretta stretta, e chiederle piano in un orecchio: «Cos’hai?… dimmelo!… Confidati a me che dei guai ne ho passati tanti, e non posso tradirti!». Ma anch’essa ritirava le corna come fa la lumaca. Stava chiusa, parlava di rado 55     anche della mamma, quasi il chiodo le fosse rimasto lì, fisso… accusando lo stomaco peloso dei Trao, che vi chiudevano il rancore e la diffidenza, implacabili! 14 L’ipocrisia del genero e l’ostilità della figlia senza preoccuparsi se i suoi affari andavano male. senza timore… collo: 11 l’autorizzazione a operare per proprio conto. In questo caso, viene richiesta a Gesualdo la rinuncia a curare i propri interessi a causa delle sue condizioni di salute. : 12 alter ego il discorso ripetuto continuamente. l’antifona: 13 rivelando la ritrosia ( ) tipica dei Trao. «Nel linguaggio parlato il pelo indica una sorta di fascia, di pelle o di pelliccia, in cui si avvolge il segreto, che quindi non si diffonde all’esterno, si contiene dentro lo stomaco, ivi chiuso, e impenetrabile» (Di Salvo). Il rancore della figlia Isabella è dovuto all’imposizione subita da parte del padre Gesualdo, il quale aveva ostacolato il suo amore per il cugino Corrado, imponendole un matrimonio non voluto con il duca di Leyra. accusando… Trao: 14 lo stomaco peloso Perciò lui doveva ricacciare indietro le parole buone e anche le lagrime, che gli si gonfiavano grosse grosse dentro, e tenersi per sé i propri guai. Passava i giorni malinconici dietro l’invetriata, a veder strigliare i cavalli e lavare le carrozze, 60     15 nella corte vasta quanto una piazza. Degli stallieri, in manica di camicia e coi piedi nudi negli zoccoli, cantavano, vociavano, barattavano delle chiacchiere e degli strambotti coi domestici, i quali perdevano il tempo alle finestre, col 16 grembialone sino al collo, o in panciotto rosso, strascicando svogliatamente uno strofinaccio fra le mani ruvide, con le barzellette sguaiate, dei musi beffardi di 65     mascalzoni ben rasi e ben pettinati che sembravano togliersi allora una maschera. I cocchieri poi, degli altri pezzi grossi, stavano a guardare, col sigaro in bocca e le mani nelle tasche delle giacchette attillate, discorrendo di tanto in tanto col guardaportone che veniva dal suo casotto a fare una fumatina, accennando con dei segni e dei versacci alle cameriere che si vedevano passare dietro le invetriate 70     dei balconi, oppure facevano capolino provocanti, sfacciate, a buttar giù delle parolacce e delle risate di male femmine con certi visi da Madonna. Don Gesualdo pensava intanto quanti bei denari dovevano scorrere per quelle mani; tutta quella gente che mangiava e beveva alle spalle di sua figlia, sulla dote che egli le aveva dato, su l’Alìa e su Donninga, le belle terre che aveva covato cogli 75     17 occhi tanto tempo, sera e mattina, e misurato col desiderio, e sognato la notte, e acquistato palmo a palmo, giorno per giorno, togliendosi il pane di bocca: le povere terre nude che bisognava arare e seminare; i mulini, le case, i magazzini che aveva fabbricato con tanti stenti, con tanti sacrifici, un sasso dopo l’altro. La Canziria, Mangalavite, la casa, tutto, tutto sarebbe passato per quelle mani. Chi 80     avrebbe potuto difendere la sua roba dopo la sua morte, ahimé, povera roba! Chi sapeva quel che era costata? Il signor duca, lui, quando usciva di casa, a testa alta, col sigaro in bocca e il pomo del bastoncino nella tasca del pastrano, fermavasi appena a dare un’occhiata ai suoi cavalli, ossequiato come il Santissimo Sagramento, le finestre si chiudevano in fretta, ciascuno correva al suo posto, tutti a 85     capo scoperto, il guardaportone col berretto gallonato in mano, ritto dinanzi 18 alla sua vetrina, gli stallieri immobili accanto alla groppa delle loro bestie, colla striglia appoggiata all’anca, il cocchiere maggiore, un signorone, piegato in due a passare la rivista e prendere gli ordini: una commedia che durava cinque minuti. Dopo, appena lui voltava le spalle, ricominciava il chiasso e la baraonda, 90     dalle finestre, dalle arcate del portico che metteva alle scuderie, dalla cucina che fumava e fiammeggiava sotto il tetto, piena di sguatteri vestiti di bianco, quasi il palazzo fosse abbandonato in mano a un’orda famelica, pagata apposta per scialarsela sino al tocco della campana che annunziava qualche visita – un’altra 19 solennità anche quella. – La duchessa certi giorni si metteva in pompa magna 95     ad aspettare le visite come un’anima di purgatorio. Arrivava di tanto in tanto 20 una carrozza fiammante; passava come un lampo dinanzi al portinaio, che aveva appena il tempo di cacciare la pipa nella falda del soprabito e di appendersi alla campana; delle dame e degli staffieri in gala sguisciavano frettolosi sotto l’alto 21 vestibolo, e dopo dieci minuti tornavano ad uscire per correre altrove a rompicollo; 100  proprio della gente che sembrava presa a giornata per questo. Lui invece passava il tempo a contare le tegole dirimpetto, a calcolare, con l’amore e la sollecitudine del suo antico mestiere, quel che erano costate le finestre scolpite, i 22 pilastri massicci, gli scalini di marmo, quei mobili sontuosi, quelle stoffe, quella gente, quei cavalli che mangiavano, e inghiottivano il denaro come la terra inghiottiva 105  la semente, come beveva l’acqua, senza renderlo però, senza dar frutto, sempre più affamati, sempre più divoranti, simili a quel male che gli consumava le viscere. Quante cose si sarebbero potute fare con quel denaro! Quanti buoni colpi di zappa, quanto sudore di villani si sarebbero pagati! Delle fattorie, dei villaggi interi da fabbricare… delle terre da seminare, a perdita di vista… E un 110  23 esercito di mietitori a giugno, del grano da raccogliere a montagne, del denaro a fiumi da intascare!… Allora gli si gonfiava il cuore al vedere i passeri che schiamazzavano su quelle tegole, il sole che moriva sul cornicione senza scendere mai giù sino alle finestre. Pensava alle strade polverose, ai bei campi dorati e verdi, al cinguettìo lungo le siepi, alle belle mattinate che facevano fumare i solchi!… 115  Oramai!… oramai!… La servitù e il declino del patrimonio vetrata. invetriata: 15 scambiavano chiacchiere e battute volgari (propriamente gli strambotti sono componimenti poetici d’intonazione popolare; qui nel significato di fandonie). barattavano… strambotti: 16 possedimenti terrieri di Gesualdo, come quelli citati in seguito. su l’Alìa e su Donninga: 17 ornato di galloni, strisce di stoffa usate soprattutto nelle uniformi militari per indicare il grado. gallonato: 18 godere di ogni comodità. scialarsela: 19 inquieta. come… purgatorio: 20 suonare ripetutamente la campana per annunciare l’arrivo di visitatori. appendersi alla campana: 21 Gesualdo era stato muratore. antico mestiere: 22 a perdita d’occhio. a perdita di vista: 23 Adesso era chiuso fra quattro mura, col brusìo incessante della città negli orecchi, lo scampanìo di tante chiese che gli martellava sul capo, consumato lentamente dalla febbre, roso dai dolori che gli facevano mordere il guanciale, a volte, per non seccare il domestico che sbadigliava nella stanza accanto. Nei primi giorni, il 120  cambiamento, l’aria nuova, forse anche qualche medicina indovinata, per sbaglio, avevano fatto il miracolo, gli avevano fatto credere di potersi guarire. Dopo era 24 ricaduto peggio di prima. Neppure i migliori medici di Palermo avevano saputo trovar rimedio a quella malattia scomunicata! tal quale come i medici ignoranti 25 del suo paese, e costavano di più, per giunta! Venivano l’uno dopo l’altro, dei dottoroni 125  che tenevano carrozza, e si facevano pagare anche il servitore che lasciavano in anticamera. L’osservavano, lo tastavano, lo interrogavano quasi avessero da fare con un ragazzo o un contadino. Lo mostravano agli apprendisti come il zanni 26 fa vedere alla fiera il gallo con le corna, oppure la pecora con due code, facendo la spiegazione con parole misteriose. Rispondevano appena, a fior di labbra, se il 130  povero diavolo si faceva lecito di voler sapere che malattia covava in corpo, quasi 27 egli non avesse che vederci, colla sua pelle! Gli avevano fatto comperare anch’essi 28 un’intera farmacia: dei rimedi che si contavano a gocce, come l’oro, degli unguenti che si spalmavano con un pennello e aprivano delle piaghe vive, dei veleni che davano delle coliche più forti e mettevano come del rame nella bocca, dei bagni e 135  dei sudoriferi che lo lasciavano sfinito, senza forza di muovere il capo, vedendo già l’ombra della morte da per tutto. «Signori miei, a che giuoco giuochiamo?», voleva dire. «Allora, se è sempre la stessa musica, me ne torno al mio paese…». Almeno laggiù lo rispettavano pei suoi denari, e lo lasciavano sfogare, se pretendeva 140  di sapere come li spendeva per la sua salute. Mentre qui gli pareva d’essere all’ospedale, curato per carità. Doveva stare in suggezione anche del genero che veniva ad accompagnare i pezzi grossi chiamati a consulto. Parlavano sottovoce fra di loro, voltandogli le spalle, senza curarsi di lui che aspettava a bocca aperta una parola di vita o di morte. Oppure gli facevano l’elemosina di una risposta che non 145  diceva niente, di un sorrisetto che significava addirittura «Arrivederci in Paradiso, buon uomo!». C’erano persino di quelli che gli voltavano le spalle, come si tenessero offesi. Egli indovinava che doveva essere qualche cosa di grave, al viso stesso che facevano i medici, alle alzate di spalle scoraggianti, alle lunghe fermate col genero, e al borbottìo che durava un pezzo fra di loro in anticamera. Infine non si 150  tenne più. Un giorno che quei signori tornavano a ripetere la stessa pantomima, 29 ne afferrò uno per la falda, prima d’andarsene. «Signor dottore, parlate con me! Sono io il malato, infine! Non sono un ragazzo. Voglio sapere di che si tratta, giacché si giuoca sulla mia pelle!». Colui invece cominciò a fare una scenata col duca, quasi gli si fosse mancato 155  di rispetto in casa sua. Ci volle del bello e del buono per calmarlo, e perché non piantasse lì malato e malattia una volta per sempre. Don Gesualdo udì che gli dicevano sottovoce: «Compatitelo… Non conosce gli usi… È un uomo primitivo… nello stato di natura…». Sicché il poveraccio dovette mandar giù tutto, e rivolgersi alla figliuola, 160  per sapere qualche cosa. «Che hanno detto i medici? Dimmi la verità?… È una malattia grave, di’?…». E come le vide gonfiare negli occhi le lagrime, malgrado che tentasse di cacciarle indietro, infuriò. Non voleva morire. Si sentiva un’energia disperata d’alzarsi e andarsene via da quella casa maledetta. 165  «Non dico per te… Hai fatto di tutto… Non mi manca nulla… Ma io non ci sono avvezzo, vedi… Mi par di soffocare qui dentro…». Neppur lei non ci stava bene in quella casa. Il cuore glielo diceva, al povero padre. Sembrava che fossero in perfetto accordo, marito e moglie; discorrevano cortesemente fra di loro, dinanzi ai domestici; il duca passava quasi sempre una 170  mezz’oretta nel salottino della moglie dopo pranzo; andava a darle il buon giorno ogni mattina, prima della colazione; per i Morti, a Natale, per la festa di Santa Rosalia, e nella ricorrenza del suo onomastico o dell’anniversario del loro matrimonio, 30 le regalava dei gioielli, che essa aveva fatto ammirare al babbo, in prova del bene che le voleva il marito. 175  «Ah, ah… capisco… dev’essere costata una bella somma!… Però non sei contenta… si vede benissimo che non sei contenta…». Leggeva in fondo agli occhi di lei un altro segreto, un’altra ansietà mortale, che non la lasciava neppure quand’era vicino a lui, che le dava dei sussulti, allorché udiva un passo all’improvviso, o suonava ad ora insolita la campana che annunziava il 180  duca; e dei pallori mortali, certi sguardi rapidi in cui gli pareva di scorgere un rimprovero. Alcune volte l’aveva vista giungere correndo, pallida, tremante come una foglia, balbettando delle scuse. Una notte, tardi, mentre era in letto coi suoi guai, aveva udito un’agitazione insolita nel piano di sotto, degli usci che sbattevano, la voce della cameriera che strillava, quasi chiamasse aiuto, una voce che lo fece rizzare spaventato 185  sul letto. Ma sua figlia il giorno dopo non gli volle dir nulla; sembrava anzi che le sue domande l’infastidissero. Misuravano fino le parole e i sospiri in quella casa, ciascuno chiudendosi in corpo i propri guai, il duca col sorriso freddo, Isabella con la buona grazia che le aveva fatto insegnare in collegio. Le tende e i tappeti soffocavano ogni cosa. Però, quando se li vedeva dinanzi a lui, marito e moglie, così tranquilli, 190  che nessuno avrebbe sospettato quel che covava sotto, si sentiva freddo nella schiena. Del resto, che poteva farci? Ne aveva abbastanza dei suoi guai. Il peggio di tutti stava lui che aveva la morte sul collo. Quand’egli avrebbe chiuso gli occhi tutti gli altri si sarebbero data pace, come egli stesso s’era data pace dopo la morte di suo padre e di sua moglie. Ciascuno tira l’acqua al suo mulino. Ne aveva data tanta 195  dell’acqua per far macinare gli altri! Speranza, Diodata, tutti gli altri… un vero 31 fiume. Anche lì, in quel palazzo di cuccagna, era tutto opera sua; e intanto non trovava riposo fra i lenzuoli di tela fine, sui guanciali di piume; soffocava fra i cortinaggi e le belle stoffe di seta che gli toglievano il sole. I denari che spendeva per far andare la baracca, i rumori della corte, il cameriere che gli tenevano dietro l’uscio 200  a contargli i sospiri, insino al cuoco che gli preparava certe brode insipide che non riusciva a mandar giù, ogni cosa l’attossicava; non digeriva più neanche i bocconi 32 prelibati, erano tanti chiodi nelle sue carni. «Mi lasciano morir di fame, capisci!», lagnavasi colla figliuola, alle volte, cogli occhi accesi dalla disperazione. – Non è per risparmiare… Sarà della roba buona… 205  Ma il mio stomaco non c’è avvezzo… Rimandatemi a casa mia. Voglio chiuder gli occhi dove son nato!». […] [ Gesualdo, sentendo la fine vicina, vuole stilare il testamento. Poi ha un ultimo dialogo con ] la figlia. La malattia e gli inutili consulti dei «dottoroni» uso dialettale per “guarire”. potersi guarire: 24 maledetta. scomunicata: 25 il servo sciocco o il buffone, figure della commedia dell’arte. zanni: 26 osava. si faceva lecito: 27 come se non avesse a che fare con la propria pelle; come se il corpo non fosse suo. quasi egli non avesse che vederci, colla sua pelle: 28 scena. La pantomima è una rappresentazione scenica muta, in cui l’azione è affidata unicamente al gesto, all’espressione del volto, ai movimenti del corpo, alla danza. pantomima: 29 patrona di Palermo, la cui festa si svolge nel mese di luglio. Santa Rosalia: 30 la prima era la sorella di Gesualdo, la seconda la sua serva e concubina, dalla quale aveva avuto due figli illegittimi (Nunzio e Gesualdo). Speranza, Diodata: 31 avvelenava. attossicava: 32 Ansimava perché aveva il fiato corto, ed anche per l’emozione. Guardava intorno, sospettoso, e seguitava ad accennare del capo, in silenzio, col respiro affannato. Ella pure volse verso l’uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano 210  scarna, e trinciò una croce in aria, per significare ch’era finita, e perdonava a tutti, 33 34 prima d’andarsene. «Senti… Ho da parlarti… intanto che siamo soli…». Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle mani erranti che l’accarezzavano. L’accarezzò anche lui sui capelli, lentamente, 215  35 senza dire una parola. Di lì a un po’ riprese: «Ti dico di sì. Non sono un ragazzo… Non perdiamo tempo inutilmente». Poi gli venne una tenerezza. «Ti dispiace, eh?… ti dispiace a te pure?…». 36 La voce gli si era intenerita anch’essa, gli occhi, tristi, s’erano fatti più dolci, e qualcosa gli tremava sulle labbra. «Ti ho voluto bene… anch’io… quanto ho potuto… 220  come ho potuto… Quando uno fa quello che può…». 37 Allora l’attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fisso per vedere se voleva lei pure, e l’abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei capelli fini. «Non ti fo male, di’?… come quand’eri bambina?…». 225  38 Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza e di passione, quei sospetti odiosi che dei bricconi, nelle questioni d’interessi, 39 avevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli indietro, e cambiò discorso. «Parliamo dei nostri affari. Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso…». 230  40 Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per chiudere gli occhi. «Ma no, parliamone!», insisteva lui. «Sono discorsi serii. Non ho tempo da perdere adesso». Il viso gli si andava oscurando, il rancore antico gli corruscava   235  41 42 negli occhi. «Allora vuol dire che non te ne importa nulla… come a tuo marito…». Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al letto, cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori che gli avevano dati, lei e suo marito, 43 con tutti quei debiti… Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla: 240  «Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!… quando tuo marito torna a proporti di firmare delle carte!… Lui non sa cosa vuol dire!». Spiegava quel che gli erano costati, quei poderi, l’Alìa, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava come erano venuti a lui, uno dopo l’altro, a poco a poco, le terre seminative, i pascoli, le vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o 245  cattive. Gli tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accendeva tuttora il sangue in viso, gli spuntavano le lagrime agli occhi: «Mangalavite, sai… la conosci anche tu… ci sei stata con tua madre… Quaranta salme di terreni, tutti alberati!… ti 44 rammenti… i belli aranci?… anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca, negli ultimi giorni!… 300 migliaia l’anno, ne davano! Circa 300  onze! E la Salonia… 250    45 dei seminati d’oro… della terra che fa miracoli… benedetto sia tuo nonno che vi lasciò le ossa!…». Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino. «Basta», disse poi. «Ho da dirti un’altra cosa… Senti…». La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l’effetto che avrebbe 250  fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui supino che esitava e cercava le parole. «Senti!… Ho degli scrupoli di coscienza… Vorrei lasciare qualche legato a 46 delle persone verso cui ho degli obblighi… Poca cosa… Non sarà molto per te 47 che sei ricca… Farai conto di essere una regalìa che tuo padre ti domanda… in 260  48 punto di morte… se ho fatto qualcosa anch’io per te…». «Ah, babbo, babbo!… che parole!», singhiozzò Isabella. «Lo farai, eh? lo farai?… anche se tuo marito non volesse…». Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se l’avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel 265  segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui quell’altro segreto, quell’altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola. 49 E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse indovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi 270  in sé, superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare Motta, com’essa era Trao, diffidente, ostile, di un’altra pasta. Allentò le braccia, e non 50 51 aggiunse altro. «Ora fammi chiamare un prete», terminò con un altro tono di voce. «Voglio 52 fare i miei conti con Domeneddio». 275  Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio. 53 Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte, peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto l’udì agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella 280  canzone che non finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c’era. 54 «Mia figlia!», borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la sua. «Chiamatemi mia figlia!». «Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla», rispose il domestico, e tornò a coricarsi. Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva 285  peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando 55 delle bestemmie e delle parolacce. 290  «Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo adesso? Vuol passar mattana! Che cerca?». 56 57 Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse 58 il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare a dormire gli andò via a un tratto. «Ohi! ohi! Che facciamo adesso?», balbettò grattandosi il capo. 295  Gli ultimi desideri di Gesualdo morente fece in aria un gesto come a disegnare una croce. trinciò… aria: 33 il complemento oggetto retto dalla preposizione “a” è un tipico costrutto dialettale siciliano. perdonava a tutti: 34 frenetiche, in movimento. erranti: 35 Gesualdo prova a convincere sé stesso di non essere solo. Ma la domanda rivolta alla figlia rivela che si tratta di un pietoso autoinganno. ti dispiace a te pure?: 36 Gesualdo ripete termini e frasi per poi non concluderle: è la conseguenza dell’affanno della sua voce, ma anche dell’emozione da cui è attanagliato. Ti ho voluto… può: 37 quando la barba del padre, in atto di baciarla, le pungeva il volto. come… bambina: 38 Verga si riferisce alle dicerie – peraltro fondate – che Isabella non fosse realmente figlia di Gesualdo, ma il frutto di una relazione avuta dalla moglie prima del loro matrimonio. quei sospetti odiosi: 39 l’interesse economico fa breccia nell’animo di Gesualdo anche alla vigilia della morte. Parliamo… affari: 40 Gesualdo ha intuito l’inutilità dei suoi sforzi e l’impossibilità del colloquio: tuttavia non rinuncerà a cercare fino alla fine la solidarietà della figlia. Il viso… oscurando: 41 lampeggiava. corruscava: 42 sofferenze, dispiaceri. crepacuori: 43 la salma era un’unità di misura di capacità, usata particolarmente in Sicilia, corrispondente a circa 275 litri. salme: 44 una cifra ragguardevole a quei tempi. 300 onze: 45 lascito testamentario. legato: 46 allude a Diodata e ai figli illegittimi che aveva avuto da lei. a delle persone: 47 che sia. di essere: 48 anche Isabella aveva avuto un figlio illegittimo dalla relazione con un cugino. quell’altro segreto: 49 Gesualdo percepisce tutta l’estraneità che lo separa dalla figlia: lui è Motta, lei è Trao (dal cognome della madre). E lui allora… Trao: 50 si sciolse dall’abbraccio, quasi in un gesto di resa: il solco di incomunicabilità tra Gesualdo e la figlia non può essere colmato. Allentò le braccia: 51 il timbro vocale della tenerezza paterna è ormai dissolto. con… voce: 52 con l’alternarsi di miglioramenti e peggioramenti. fra alternative di meglio e di peggio: 53 quei lamenti. L’espressione esprime il punto di vista del servitore, malevolo e seccato. quella canzone: 54 pronunciando a denti stretti. masticando: 55 voglia acuta e improvvisa, capriccio. uzzolo: 56 vuol fare il matto! Vuol passar mattana!: 57 sollevò. tolse: 58 Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio aspettare un po’, o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava 300  a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei 59 cavalli, e picchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò 60 a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto, spalancò le vetrate, e s’affacciò a 61 prendere una boccata d’aria, fumando. Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra. 305  «Mattinata, eh, don Leopoldo?». «E nottata pure!», rispose il cameriere sbadigliando. «M’è toccato a me questo regalo!». L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece 310  segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio. «Ah… così… alla chetichella?…», osservò il portinaio che strascicava la scopa e le ciabatte per l’androne. Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a un po’ la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in 315  bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nella stanza accanto. «Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica… E neanche lui… non vi mette più le mani addosso di sicuro…». «Zitto, scomunicato!… No, ho paura, poveretto… Ha cessato di penare». 320  «Ed io pure», soggiunse don Leopoldo. Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano – uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. «Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi… Basta, dei morti non si parla». 325  «Si vede com’era nato…», osservò gravemente il cocchiere maggiore. «Guardate 62 che mani!». «Già, son le mani che hanno fatto la pappa! …Vedete cos’è nascer fortunati… 63 Intanto vi muore nella battista come un principe!…». 64 «Allora», disse il portinaio, «devo andare a chiudere il portone?». 330  65 «Sicuro, eh! È roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa». La morte di Gesualdo e il coro funebre dei servitori sono le prime luci dell’alba. La finestra cominciava a imbiancare: 59 spazzole di ferro per pulire il pelo dei cavalli. striglie: 60 le tende del letto a baldacchino di Gesualdo. le cortine del letto: 61 si vedono, cioè, le sue origini plebee. Si vede com’era nato: 62 la calce impastata da cui Gesualdo ha ricavato la propria ricchezza. la pappa: 63 batista, tessuto di cotone pregiato, fine e leggero. battista: 64 in segno di lutto. chiudere il portone: 65  >> pagina 245  Dentro il TESTO I contenuti tematici Come avviene nella novella ( T5, p. 231), anche in la morte rivela il fallimento della vicenda umana del protagonista: accolto malato e stanco nella dimora della figlia Isabella, egli trascorre gli ultimi giorni come un (r. 49), oggetto delle ipocrite attenzioni del genero e della fredda indifferenza della figlia, che non gli perdona di averla costretta a un matrimonio infelice al solo fine di garantirsi un titolo nobiliare prestigioso. Perfino i servi, sfaccendati nell’indolente organizzazione della casa, lo guardano con disprezzo, invidiosi della scalata sociale realizzata da un uomo dalle origini umili come le loro. La roba ▶  Mastro-don Gesualdo forestiero La solitudine e il fallimento affettivo di Gesualdo Proprio alla fine dell’esistenza, Gesualdo capisce l’inutilità della ricchezza, unica ragione della sua vita operosa. Ora che la solitudine in cui è immerso non è più riscattata dal lavoro e dalla lotta, che lo avevano tenuto impegnato celandogli l’ostilità del mondo, intuisce che la sta per sfuggirgli e sarà presto destinata alla rovina. Le terre abbandonate, lo spreco delle risorse, i lussi della casa gli fanno comprendere di essere uno sconfitto non soltanto sul piano degli affetti, ma anche su quello della che, per una sorta di spietata legge del contrappasso, sarà dissipata dal genero spiantato e scialacquatore roba roba La catastrofe di un aspirante borghese Il destino di Gesualdo è pertanto quello di un tragico «personaggio bifronte» (Cigliana), nuovo padrone invidiato dai suoi, ma anche vilipeso dai galantuomini in quanto , bifolco rifatto. La sua scalata sociale si è trasformata in un fallimento umano doloroso e in un isolamento che è la conseguenza della rottura del patto di solidarietà con la classe sociale da cui proviene. parvenu Anch’egli, come Mazzarò, ha costruito, mantenuto e accresciuto il proprio patrimonio grazie alla fatica e al sacrificio. Tuttavia, mentre Mazzarò, chiuso nella propria grettezza, non può concepire altro che un perpetuo bisogno di possesso, Gesualdo si concede un’infrazione che si rivelerà fatale: il matrimonio. Per quanto tale decisione sia sempre dettata da motivi di convenienza, essa è di fatto la causa di tutti i suoi mali, economici e affettivi. Una vittima dell’ambizione sociale  >> pagina 246 La sconfitta del personaggio matura tragicamente nei suoi ultimi momenti di vita. Invano Gesualdo si era appigliato all’idea che la roba potesse sopravvivergli: a sancire la sua resa definitiva è la coscienza che ciò non potrà accadere. Il pensiero rivolto ai figli illegittimi avuti prima del matrimonio, le (r. 259), è destinato a cadere nel vuoto. Isabella, a cui chiede di lasciar loro qualcosa del patrimonio che sta per ereditare, non è capace infatti di entrare davvero in contatto con lui, e i suoi occhi, dopo una breve, inespressa commozione, tornano indifferenti e insensibili: la distanza che separa padre e figlia si traduce così nello sdegnoso ritrarsi di Isabella, nella sua indisponibilità alla confidenza e nel riapparire della (r. 270), di fronte alla quale a Gesualdo non resta che rinunciare a ogni tentativo di comunicazione. persone verso cui ha degli obblighi ruga ostinata dei Trao fra le ciglia In quegli occhi e nello sconforto senza lacrime di Gesualdo, rassegnato con dignità alla sconfitta ( , rr. 272-273), Verga proietta il proprio radicale pessimismo sulle possibilità di salvezza dell’uomo, costretto a vivere in un mondo spogliato di ogni idealità, asservito alla sola morale utilitaristica e privato di ogni autentica religione degli affetti. Allentò le braccia, e non aggiunse altro Una morte tragica Hieronymus Bosch, , 1485-1490. Washington DC, Kress Collection. La Morte e l’Avaro  >> pagina 247 Le scelte stilistiche All’inizio del passo è lo stesso protagonista a scrutare la realtà del palazzo in cui è ospitato: la condizione di escluso in cui si trova gli permette di valutare la vacuità e l’insensatezza che vi regna. Anche durante il colloquio con Isabella, dietro l’apparenza di un’osservazione neutrale compiuta da un narratore esterno, a essere registrati sono soprattutto gli stati d’animo di Gesualdo: (rr. 222-223), (r. 255), (r. 266). guardandola fisso per vedere se voleva lei pure La guardò fissamente E mentre la guardava Lo sguardo di Gesualdo Le fasi finali dell’agonia del protagonista vengono descritte invece attraverso il punto di vista del domestico: è lui a prestare al narratore la chiave di valutazione dei fatti, simboleggiata da una serie di espressioni che sottintendono il suo cinismo e il disprezzo per il moribondo ( , r. 280; , r. 281; , r. 286; e , r. 291: gli ultimi due termini sono toscanismi propri del linguaggio di scuderia e riferiti ai cavalli imbizzarriti). Alla sua voce si unisce quella degli altri lacchè, che con straniante crudeltà descrivono le atroci sofferenze del padrone come fossero capricci di un villano bizzoso, fumano come se nulla fosse accanto al cadavere e si guardano bene dall’evitare commenti sulle ruvide (r. 328). Al lettore non resta che avvertire lo sconsolato pessimismo di Verga dinanzi alla glaciale imperturbabilità della folla crudele dei servitori. Eppure, proprio in conclusione, il narratore si concede una deroga all’impersonalità: l’epiteto che riserva al morente alla r. 160 tradisce un sentimento di pietà per il tragico fallimento di un uomo ingannato dal miraggio della ricchezza e della potenza e dalla tragica illusione di governare il destino. capricci canzone contrabbasso uzzolo mattana mani che hanno fatto la pappa poveraccio La morte come una fredda  routine Verso le COMPETENZE COMPRENDERE Qual è il responso dei medici riuniti a consulto sulla malattia di Gesualdo? 1 Che cosa confida il protagonista alla figlia in punto di morte? 2 Che cosa intuisce Gesualdo quando guarda negli occhi la figlia? 3 ANALIZZARE Elenca tutte le manifestazioni di lusso a causa delle quali il patrimonio di Gesualdo andrà in rovina. 4 Trova nel testo le espressioni che denunciano il fastidio o l’invidia dei servitori nei confronti del protagonista. 5 Quali artifici vengono adottati dal narratore nelle battute di dialogo per rendere l’immediatezza del parlato? 6 INTERPRETARE Perché Gesualdo prova irritazione per l’atteggiamento della servitù del palazzo? 7 Il colloquio tra il protagonista e la figlia è costellato di punti di sospensione: perché? 8 Nella sofferenza provata da Gesualdo dinanzi allo sperpero del genero si può cogliere la differenza tra due mentalità, espressione di due diverse classi sociali. Sei d’accordo con quest’affermazione? Motiva la tua risposta. 9 10 Come reagisce Gesualdo davanti alla morte ormai imminente? Produrre  Dopo aver letto la novella   (  T5, p. 231) e il brano del romanzo (  T6, p. 237), metti in luce in un breve testo argomentativo di circa 30 righe le differenze esistenti nel rapporto che i due protagonisti intrattengono con la  . 11 Scrivere per argomentare. La roba ▶ ▶ roba  Ritieni che oggi la ricchezza e l’ambizione di scalare la società siano obiettivi diffusi presso i tuoi contemporanei? Quale peso ha, a tuo giudizio, l’appartenenza a una classe sociale nelle dinamiche e nelle relazioni tra gli individui? Rifletti su questi problemi esponendo il tuo punto di vista in un testo di circa 2 facciate di foglio protocollo. 12 Scrivere per esporre  >> pagina 248  I grandi temi di Verga 1 Il Verismo e le sue tecniche il protagonista corale la rappresentazione dei fatti senza giudizio da parte dell’autore •  l’artificio della “regressione” • • l’uso del discorso indiretto libero • la tecnica dello straniamento • la rivoluzione linguistica:resa antiletteraria del parlato • 2 La rappresentazione degli umili la descrizione di ambienti arcaici e selvaggi •  la ripresa delle usanze e delle strutture culturali tradizionali • la descrizione delle dure condizioni di vita del mondo degli umili senza partecipazione emotiva né compassione da parte del narratore • 3 Le passioni di un mondo arcaico le motivazioni irrazionali delle azioni •  il destino tragico degli esclusi dalla comunità • la ribellione senza riscatto • la persistenza, nella prima produzione verista, di elementi romantici • 4 La concezione della vita il dolore connaturato all’esistenza • l’«ideale dell’ostrica»: chi abbandonale proprie origini o le rifiuta soccombe • la sfiducia nel progresso che travolgei più deboli • la cupa visione del mondo • la logica economica che impediscei rapporti umani e la comunicazione vera • il culto della «roba» •