L’AUTORE nel tempo Dannunziani e antidannunziani L’opera di d’Annunzio riscuote da subito l’interesse dei più autorevoli lettori italiani del tempo, da Giuseppe Chiarini a Luigi Capuana. Un’eco particolare hanno, per esempio, gli articoli di Enrico Thovez a proposito dei cosiddetti “plagi” dannunziani, cioè tutte le espressioni e le immagini che l’autore attinge da testi, in particolare delle letterature straniere: il critico pubblica sulla “Gazzetta letteraria”, nel 1896, tutte le “prove” delle copiature di d’Annunzio, presenti sia nelle sue prose sia nei suoi versi. E già dalle sue prime opere la critica italiana (come l’intera opinione pubblica) si divide in dannunziani e antidannunziani: proprio si intitola un fortunato saggio, edito nel 1914, del futurista Gian Pietro Lucini. Antidannunziana Il pregiudizio crociano A condizionare l’interpretazione dell’opera di d’Annunzio per quasi mezzo secolo è l’autorità di Benedetto Croce, che riduttivamente giudica il poeta un «dilettante di sensazioni», privo di ideali, senza una profonda umanità, troppo malato di virtuosismo e smania edonistica per poter assurgere alle vette dell’arte. Gli studiosi di scuola crociana si concentrano a loro volta piuttosto su aspetti specifici della sua opera: la musicalità (Attilio Momigliano), la suggestione paesaggistica (Alfredo Gargiulo), l’inquietudine del periodo “notturno” (Emilio Cecchi). Si deve a Walter Binni un primo deciso riconoscimento: in un saggio del 1936, , colloca la figura del poeta all’interno della cultura e della sensibilità europee, direzione nella quale si era già mosso Mario Praz, che in (1930) aveva studiato le componenti estetizzanti nel lessico di d’Annunzio. Un anno dopo la sua morte, nel 1939, un numero monografico dell’autorevole rivista “Letteratura”, superando le diffuse idiosincrasie per gli atteggiamenti dell’uomo e l’enfasi di molta sua produzione, ne celebra la grandezza: in particolare, si rileva per la prima volta l’importanza della prosa “notturna”, per la quale Giuseppe De Robertis conia per d’Annunzio l’epiteto di «clavicembalista» ed Emilio Cecchi quello di «esploratore d’ombra». La poetica del decadentismo La carne, la morte, il diavolo nella letteratura romantica La svalutazione ideologica Nel secondo dopoguerra l’opera di d’Annunzio sembra scontare un grave preconcetto ideologico: nel clima neorealistico – assai lontano dall’ispirazione e dalla poetica dell’autore – il giudizio sulla sua figura viene pesantemente condizionato dalla sua visione del mondo e dal suo rapporto con il fascismo. Influenzata dall’ipoteca politica, la critica opera una generale svalutazione di d’Annunzio: Natalino Sapegno, in un saggio del 1963, lo definisce un «minore», la cui influenza sarebbe limitata alla funzione di antimodello, da parodiare o comunque da superare. Oltre l’ideologia: il recupero critico Dalla metà degli anni Sessanta, però, si assiste a una vera e propria rinascita critica, poggiata su un’impostazione metodologica più corretta. Vengono nuovamente messi in luce i rapporti di d’Annunzio con il Simbolismo e con la tradizione letteraria europea tra XIX e XX secolo, e ciò permette di archiviare il luogo comune di un suo presunto provincialismo; fioriscono studi sulla sua lingua e sul suo stile che ne dimostrano l’importanza anche in relazione agli esiti successivi della letteratura italiana. Studiosi come Ezio Raimondi e Pietro Gibellini indagano le strategie pubblicitarie di d’Annunzio nella società di massa; altri, come Gianni Oliva, operano una lettura inedita del personaggio, sottolineandone le contraddizioni e le malinconiche ambiguità; altri ancora, come Guido Baldi e Gianni Turchetta, studiano la sua produzione romanzesca, meno indagata di quella poetica. Dimostrazione dell’interesse suscitato dal poeta, anche al di fuori della cerchia degli specialisti, sono infine le numerose biografie, da quella scritta da un maestro della letteratura italiana del secondo dopoguerra, Piero Chiara, a quelle di specialisti dannunziani, come Annamaria Andreoli e Giordano Bruno Guerri.