CONSONANZE CONTEMPORANEE Sebastiano Vassalli LA CHIMERA Al celeberrimo dei , con la minuziosa descrizione del paesaggio in cui saranno ambientate le vicende di Renzo e Lucia, si è evidentemente ispirato Sebastiano Vassalli (1941-2015) per quello del suo romanzo (1990). Un’opera che rimanda sotto molti aspetti al capolavoro manzoniano; anche in questo caso abbiamo una storia ambientata nel Seicento, vi leggiamo i casi di personaggi umili a contatto con signori potenti, vi troviamo trattati temi vicini a quelli che occupano la riflessione di Manzoni: il potere, la politica, la Chiesa, la giustizia o più spesso l’ingiustizia... Eppure manca qualcosa: Dio, la Provvidenza, la fede. Non c’è nessuna consolazione trascendente, nessuna mano che dall’alto solleva il derelitto o ascolta il suo grido. incipit Promessi sposi La chimera – romanzo di grande successo (gli fu assegnato il prestigioso premio Strega), tradotto in diverse lingue – rivela però la vera passione di Vassalli: la Storia, quella grande, capace di proiettarsi anche nelle vicissitudini delle esistenze individuali; qui, in particolare, in quella della protagonista, Antonia, una “strega” destinata al rogo. La sua è una storia minuta di quotidianità che si intreccia con la Storia dell’Italia del Seicento. Il contesto che emerge dal romanzo è soffocante e intransigente e rivela una Chiesa segnata da una forte volontà di dominio, indisponibile ad accogliere i “diversi” o gli “irregolari”. Riportiamo le prime pagine del romanzo. La chimera Dalle finestre di questa casa si vede il nulla. Soprattutto d’inverno: le montagne scompaiono, il cielo e la pianura diventano un tutto indistinto, l’autostrada non c’è più, non c’è più niente. Nelle mattine d’estate, e nelle sere d’autunno, il nulla invece è una pianura vaporante, con qualche albero qua e là e un’autostrada che affiora dalla nebbia per scavalcare altre due strade, due volte: laggiù, su quei cavalcavia, si muovono piccole automobili, e camion non più grandi dei modellini esposti nelle vetrine dei negozi di giocattoli. Capita anche di tanto in tanto – diciamo venti, trenta volte in un anno – che il nulla si trasformi in un paesaggio nitidissimo, in una cartolina dai colori scintillanti; ciò si verifica soprattutto in primavera, quando il cielo è blu come l’acqua delle risaie in cui si rispecchia, l’autostrada è così vicina che sembra di poterla toccare e le Alpi cariche di neve stanno là, in un certo modo che ti si allarga il cuore solamente a guardarle. Si vede allora un orizzonte molto vasto, di decine e di centinaia di chilometri; con le città e i villaggi e le opere dell’uomo inerpicate sui fianchi delle montagne, e i fiumi che incominciano là dove finiscono le nevi, e le strade, e lo scintillìo di impercettibili automobili su quelle strade: un crocevia di vite, di storie, di destini, di sogni; un palcoscenico grande come un’intera regione, sopra cui si rappresentano, da sempre, le vicende e le gesta dei viventi in questa parte di mondo. Un’illusione… Davanti a queste finestre, e a questo nulla, mi è accaduto spesso di pensare a Zardino: che fu un villaggio come quegli altri che si vedono laggiù, un po’ a sinistra e un po’ oltre il secondo cavalcavia; sotto la montagna più grande e più imponente di questa parte d’Europa, il Monte Rosa. Nelle giornate-cartolina, il paesaggio di questi luoghi è dominato ed è anche fortemente caratterizzato dalla presenza di quella montagna di granito e di ghiaccio che s’innalza sui picchi circostanti quanto quelli sulla pianura: un “macigno bianco” – così lo descrisse all’inizio del secolo il mio babbo matto, il poeta Dino Campana – attorno a cui “corrono le vette / a destra a sinistra all’infinito / come negli occhi del prigioniero”. Campana era arrivato a Novara una sera di settembre, in treno, senza vedere niente perché fuori era già buio e la mattina del giorno successivo, attraverso le inferriate di un carcere, gli era apparso il Monte Rosa in un “cielo pieno di picchi / bianchi che corrono”: un’immagine inafferrabile e lontana come quell’amore che lui allora stava inseguendo e che mai avrebbe raggiunto, perché non esisteva… Una chimera! Da lassù, dalla sommità della chimera, per un percorso tortuoso e in più punti scavato nella roccia viva, discende a valle il fiume Sesia, che nel linguaggio delle popolazioni locali ha un dolce suono femminile: la Sesia, ed è il più bizzarro e imprevedibile di tutti i fiumi che nascono dalle Alpi ed anche il più subdolo, il più rovinoso per gli uomini e le cose lungo il suo percorso. Ancora oggi le sue piene improvvise arrivano in pianura con onde d’acqua fangosa alte alcuni metri: e chissà quanti danni produrrebbero se il lavorio degli uomini, secolo dopo secolo, non avesse imposto al fiume due lunghissime briglie di terrapieno e ciottoli e in qualche tratto di cemento, che lo frenano e lo accompagnano fino alla confluenza nel Po. Nei secoli scorsi, invece, ogni pochi anni capitava che il Sesia straripasse, cambiando corso; qua spostandosi di cento metri, là d’un miglio; creando stagni e paludi dove prima c’erano terreni coltivati, cancellando dalle mappe interi feudi e villaggi e addirittura modificando i confini tra gli Stati: che in questa parte d’Italia, all’inizio del Seicento, erano a occidente il Ducato di Savoia, un’appendice meridionale della Francia, e a oriente il Ducato di Milano, soggetto allora al Re di Spagna. È così, forse, che è scomparso Zardino. Circa la metà del Seicento, o poco prima, dicono gli storici: un villaggio d’una trentina di portato via da un’alluvione del Sesia con i suoi abitanti, e mai più ricostruito; ma la faccenda è tutt’altro che certa. Altre cause possibili della sparizione del paese – il cui nome, nei documenti medievali, risulta spesso ingentilito in “Giardino” – potrebbero essere la peste del 1630, che spopolò decine di villaggi in tutta la pianura del Po; o una battaglia; o un incendio; o chissà che altro. 1 fuochi In questo paesaggio che ho cercato di descrivere e che oggi – come spesso capita – è nebbioso, c’è sepolta una storia: una grande storia, d’una ragazza che visse tra il 1590 e il 1610 e che si chiamò Antonia, e delle persone che furono vive insieme a lei, e che lei conobbe; di quell’epoca e di questi luoghi. Già da tempo mi proponevo di riportare quella storia alla luce, raccontandola, tirandola fuori dal nulla come il sole d’aprile fa venire fuori la cartolina della pianura e il Monte Rosa, e avevo anche pensato di raccontare questi luoghi, e il mondo dove Antonia era vissuta: ma poi sempre mi dissuadevano la distanza di quel mondo dal nostro, e l’oblio che l’avvolge. Chi si ricorda più nel nostro secolo ventesimo – mi dicevo – del vescovo Bascapè, del bandito Caccetta, del boia Bernardo Sasso, del canonico Cavagna, dei , dei , del Seicento? Di Antonia, poi, si ignorava tutto: che esistette, che fu la “strega di Zardino”, che subì a Novara un processo e una condanna correndo l’anno del Signore 1610… Un episodio a suo tempo clamoroso era scivolato fuori dal cerchio di luce della storia e si sarebbe perso irreparabilmente se il disordine delle cose e del mondo non lo avesse salvato nel più banale dei modi, facendo finire fuori posto certe carte, che se fossero rimaste al loro posto ora sarebbero inaccessibili, o non ci sarebbero più… L’Italia, si sa, è un paese disordinato e qualcosa fuori posto si trova sempre, qualche storia che si doveva dimenticare finisce sempre per salvarsi: ma io, che pure avevo avuto la fortuna di imbattermi nella storia di Antonia, e di Zardino, e della pianura novarese nei primi anni del Seicento, esitavo a raccontarla, come ho detto, perché mi sembrava troppo lontana. Mi chiedevo: cosa mai può aiutarci a capire del presente, che già non sia nel presente? Poi, ho capito… 2 risaroli camminanti 3 Guardando questo paesaggio, e questo nulla, ho capito che nel presente non c’è niente che meriti d’essere raccontato. Il presente è rumore: milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue e cercando di sopraffarsi l’una con l’altra, la parola “io”. Io, io, io… Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla; magari laggiù, un po’ a sinistra e un po’ oltre il secondo cavalcavia, sotto il “macigno bianco” che oggi non si vede. Nel villaggio fantasma di Zardino, nella storia di Antonia. E così ho fatto. (Sebastiano Vassalli, , Rizzoli, Milano 2014) La chimera    poeta (1885-1932) di indole inquieta e straordinaria sensibilità, incapace di adattarsi alla normalità, per le sue stravaganze ebbe a che fare spesso tanto con la polizia quanto con le istituzioni psichiatriche (per questo viene detto, poco sopra,   nel senso di “ascendente letterario”).  1 Dino Campana: il mio babbo matto: babbo    Carlo Bascapè (1550-1615), già segretario dell’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, fu vescovo di Novara per ventidue anni, dal 1593 fino alla morte. Ebbe fama di santo, tanto che più volte s’iniziarono processi di beatificazione. 2 vescovo Bascapè:    coltivatori di riso e viandanti. 3 risaroli... camminanti : Stampa a colori che rappresenta la condanna al rogo di tre streghe, avvenuta in Germania nel 1555. Per SCRIVERNE Confronta il primo capoverso del brano dei  Promessi sposi  ( ▶  T9, p. 801) con il passo tratto dal romanzo di Vassalli. Che cosa li accomuna sul piano del contenuto e su quello dello stile? E, per contro, quali differenze noti? Argomenta la tua risposta in un breve testo (circa 20 righe). Poi, se vuoi, procurati  La chimera : sarà una bellissima lettura!