Canti di Castelvecchio Dedicata alla madre e pubblicata per la prima volta nel (in edizione definitiva nell’anno della morte dell’autore, 1912), la raccolta comprende 69 componimenti suddivisi in due sezioni, oltre che un’appendice ( ). La scelta del titolo rinvia, secondo alcuni critici, a (che aveva intitolato la sua raccolta di liriche ), di cui si recuperano i motivi della memoria e del rapporto uomo-natura come fonte di riflessione esistenziale. 1903 Diario autunnale Leopardi Canti Il titolo e la struttura L’epigrafe virgiliana ( , “Piacciono gli arbusti e le umili tamerici”), identica a quella di , rimanda a quella prima raccolta, con cui i intrattengono un esplicito rapporto di continuità, sebbene ora le misure metriche siano spesso più ampie (qui Pascoli utilizza con maggiore frequenza l’endecasillabo) e il pascoliano si arricchisca ulteriormente di aulicismi, tecnicismi e voci di ascendenza dialettale. Arbusta iuvant humilesque myricae Myricae Canti di Castelvecchio plurilinguismo Da un punto di vista strutturale, i sono ordinati secondo l’alternarsi delle stagioni. Ma il motivo naturalistico è per lo più esteriore, visto che il dominante è soprattutto , con il continuo riaffiorare del ricordo dell’uccisione del padre (in particolare nelle liriche della sezione intitolata ). La dolente rievocazione del passato è accompagnata costantemente dallo sguardo malinconico che il poeta posa sull’ambiente e sul mondo esterno, segnato sempre dal mistero e dal cupo incombere della violenza e del male. Canti tema autobiografico Ritorno a San Mauro Continuità e novità rispetto a  Myricae T18 Nebbia Canti di Castelvecchio È un’invocazione alla nebbia, vista come elemento protettivo, capace di isolare il poeta dal dolore del suo passato personale e dalle tensioni del mondo circostante. Sestine di 4 novenari, intervallati dopo i primi 3 da un trisillabo, e chiuse da un senario. Metro Dimenticare la sofferenza Nascondi le cose lontane, tu nebbia impalpabile e    , ▶ scialba tu fumo che ancora rampolli, su l’alba,       da lampi notturni e da crolli 5 d’aeree frane! Nascondi le cose lontane, nascondimi quello ch’è morto! Ch’io veda soltanto la siepe     dell’orto, 10 la mura ch’ha piene le crepe di valeriane. Nascondi le cose lontane: le cose son ebbre di pianto!     Ch’io veda i due peschi, i due meli, 15 soltanto che danno i soavi lor mieli pel nero mio pane. Nascondi le cose lontane     che vogliono ch’ami e che vada! 20 Ch’io veda là solo quel bianco di strada, che un giorno ho da fare tra stanco don don di campane ...     Nascondi le cose lontane 25 nascondile, involale al volo del cuore! Ch’io veda il cipresso là, solo, qui, solo quest’orto, cui presso     sonnecchia il mio cane. 30 TRECCANI ▶ Le parole valgono In latino vuol dire “imbiancare”: un verbo adatto all’imbianchino che intonaca le pareti. significherebbe dunque, alla lettera, “schiarito” come il muro colorato su cui si passa uno strato di vernice bianca. Un piccolo passo ancora ed eccoci arrivati a comprendere quando usiamo : per dare a qualcosa o qualcuno un connotato pallido e smorto o ancora, metaforicamente, per definire un carattere inespressivo e privo di personalità (di un individuo ma anche di una giornata, di una conversazione o di un romanzo banale che ci ha annoiato a morte). scialbo exalbare Scialbo scialbo ▶ Componi due frasi, in cui scialbo abbia il significato di “pallido”, “sbiadito” e di “anonimo”, “insignificante”. ha valore imperativo. 1 Nascondi: sgorghi, scaturisci. Il verbo “rampollare” si utilizza in genere per acque, fonti ecc.; qui è applicato per traslato a un fenomeno immateriale come la nebbia. 3 rampolli: verso l’alba. 4 su l’alba: metafora per indicare il rumore dei tuoni. 5-6 crolli d’aeree frane: femminile arcaico per “il muro”. 11 la mura: la valeriana è una pianta medicinale, che cresce anche selvatica. 12 valeriane: qui nel senso di “piene”, “inzuppate” (delle lacrime versate in una vita tanto ricca di dolori). 14 ebbre: i loro frutti dolci ( ) come il miele. 17 i soavi lor mieli: soavi l’astratto per il concreto sembra quasi smaterializzare la visione, come nella tela di un pittore impressionista. La strada è quella che porta al cimitero. 21-22 quel bianco di strada: figura etimologica. significa “rubare”, “sottrarre”. Possiamo interpretare così: il cuore del poeta vola verso le cose lontane e ne riceve sempre nuovo dolore; perciò egli chiede alla nebbia di far sì che esso non le trovi, togliendole al suo volo, sottraendole al suo continuo ritornare ad esse, nascondendogliele affinché la loro vista non riacutizzi la sofferenza. 26 involale al volo: Involare qui va inteso molto probabilmente come aggettivo (“solitario”, “isolato”), mentre al verso successivo lo stesso vocabolo è avverbio (“soltanto”, “solamente”). 28 solo: accanto al quale (anastrofe). 29 cui presso:  >> pagina 499 DENTRO IL TESTO I contenuti tematici : il primo verso della lirica torna come una sorta di , di ritornello all’inizio di ogni strofa. In esso l’aggettivo “lontano” ha una duplice declinazione semantica: il poeta invita la nebbia a nascondere le cose nel tempo (alla prima e alla seconda strofa) e nello spazio (alla terza e alla quarta). Pascoli spera infatti che essa celi ai suoi occhi e alla sua mente il passato della fanciullezza (con gli eventi che – possiamo immaginare – gli ricordano la felicità distrutta dall’uccisione del padre: , v. 9), ma anche il mondo presente, con i richiami delle passioni e gli appelli all’azione ( , v. 20). Egli invece vuole vedere soltanto le piccole cose che sono fisicamente attorno a sé: la siepe dell’orto e il muro di cinta della casa, gli alberi da frutto, la strada che conduce al camposanto ( , vv. 21-22), simbolo della morte come il cipresso solitario (vv. 27-28), significativamente l’ultimo degli oggetti elencati. Nascondi le cose lontane refrain lontane quello ch’è morto che vogliono ch’ami e che vada quel bianco di strada Il desiderio di oblio si appaga dunque nel vagheggiamento di un mondo ristretto, conosciuto, rassicurante, vale a dire quel «nido» familiare che è l’unico luogo ritenuto sicuro e che equivale a un tempo sospeso, protetto sia dai dolorosi ricordi di ciò che è stato sia dagli angosciosi presagi di ciò che sarà. Definitivo coronamento di quella pace familiare a cui il poeta anela sarà la morte, attraverso la quale egli potrà ricongiungersi idealmente ai propri cari defunti e soprattutto essere liberato dalle memorie del passato e dalle ansietà del presente e del futuro. Un desiderio di annullamento  >> pagina 500 Nella poesia pascoliana la nebbia è spesso presente. All’inizio (all’altezza cronologica di ) essa viene introdotta in una chiave impressionistica, come semplice elemento naturalistico che contribuisce alla definizione, quasi bozzettistica, di un paesaggio (cfr. per esempio ,  T6, p. 459). Più avanti (nei ), invece, essa crea un’atmosfera irreale, percorsa da sinistre apparizioni, e offre un’immagine non pacificata della natura quale entità inquieta e allusiva. La nebbia assurge così a un equivalente metaforico della vita. Myricae Arano ▶ Canti di Castelvecchio A proposito della nebbia (come, del resto, a proposito di altre presenze tipiche della poesia pascoliana, quali gli uccelli o le campane) si assiste, insomma, a un passaggio «dal naturalistico al simbolico» (Nava), che arricchisce i testi di più complesse valenze. Infatti nei , la raccolta da cui è tratta questa lirica, la natura non è mai descritta in termini neutri e oggettivi, bensì è piegata a esprimere l’universo interiore del poeta, di cui diventa il corrispettivo analogico. Canti di Castelvecchio La nebbia come simbolo Nella biblioteca pascoliana di Castelvecchio figura un esemplare della (in sanscrito “Il canto del Beato”) tradotto e commentato dal glottologo e indianista Michele Kerbaker (1835-1914), con il quale Pascoli fu peraltro in rapporto epistolare. Si tratta di un poema filosofico-religioso indiano (intercalato nel ) che rappresenta il testo sacro più diffuso fra milioni di indiani che venerano in esso la parola divina di Vis.n.u. La parola suadente e illuminatrice del dio si fonda sull’inesistenza di ogni forma sensibile, sull’idea del dovere e sulla fede. Bhagavadg ītā  Mah ā bh ā rata Nell’introduzione all’edizione di quel testo posseduta da Pascoli, Kerbaker accostava la metafisica brahmanica sia all’evoluzionismo di Darwin sia alla “filosofia negativa” di Schopenhauer e Leopardi. Esponendo i princìpi del brahmanesimo, scrive Kerbaker: «Saggio e beato quell’uomo, che pure in questa vita, sgombro l’animo da ogni inqueta passione, rinunciando ad ogni desiderio e speranza, si acqueta nel pensiero della sua emancipazione finale!». E più avanti: «Dalla conoscenza che ha l’uomo della vera natura dell’Essere e del fine dell’universo, è eccitato a svincolarsi dai legami dell’esistenza transitoria, ed a dimenticare tutte le cure e gli affetti che l’accompagnano. Di qui nasce la virtù dell’astensione od abnegazione di se stesso». Non possiamo escludere – anzi sembra probabile –che Pascoli, nel comporre una poesia come , potesse avere presenti questi riferimenti filosofico-religiosi di provenienza orientale. Nebbia Una fonte indiana per Pascoli? Le scelte stilistiche Il testo è articolato su pochi versi, nei quali ricorrono insistentemente alcune parole-chiave. (alla fine del primo verso di ogni strofa) è una di esse, come anche il verbo “nascondere” (all’inizio del primo verso di ogni strofa, poi ripetuto al v. 8, , e al v. 26, ), al quale si contrappone il verbo “vedere” ( , ai vv. 9, 15, 21 e 27). Il poeta chiede infatti alla nebbia di operare – ai fini della percezione che egli ha della realtà – una severa selezione di oggetti e di presenze, nascondendone alcune (quelle lontane) e facendogliene vedere altre (quelle vicine). Spia lessicale di tale rigorosa cernita sono gli avverbi (vv. 9 e 16) e (vv. 21 e 29, mentre al v. 28 lo stesso vocabolo sembra essere aggettivo). Distanziatosi dalle cose più impegnative e dolorose (pensieri, ricordi, ambizioni, aspirazioni) il poeta rimane così solo con sé stesso, crogiolandosi in una compiaciuta voluttà di regressione al rassicurante «nido» costituito dalle presenze più care, dagli alberi del frutteto al fedele cane sonnacchioso. Lontane nascondimi nascondile ch’io veda soltanto solo Le parole-chiave dell’autoesclusione dal reale  >> pagina 501 VERSO LE COMPETENZE COMPRENDERE 1 Qual è nel testo l’interlocutore del poeta? 2 Quale desiderio viene espresso da Pascoli? 3 Quando il poeta si troverà a percorrere la strada bianca al suono ritmato delle campane (vv. 21-24)? ANALIZZARE Individua lo schema delle rime. 4 Come possiamo descrivere la sintassi di questa poesia? Ti sembra che essa intervenga a interrompere il ritmo dei versi oppure che sia accordata ad esso? Motiva la tua risposta con opportuni riferimenti testuali e prova a ipotizzare una spiegazione di tale scelta da parte dell’autore. 5 Individua nel componimento tutti i riferimenti (anche di tipo simbolico) al motivo della morte. 6 (v. 3) per indicare la nebbia è 7 Fumo   a un ossimoro.   b una sineddoche.   c una metafora.   d una similitudine. INTERPRETARE Qui la nebbia è vista da Pascoli come una presenza amica o nemica? perché? 8 A tuo parere, che cosa rappresenta il placido sonnecchiare del cane (v. 30)? 9 scrivere per... confrontare Il v. 9 di questo componimento di Pascoli ( ) non può non richiamare alla memoria del lettore la siepe dell’ di Leopardi, anche per l’analoga disposizione interiore del poeta, propenso a rifiutare di estendere il proprio sguardo troppo lontano. Tuttavia tra le situazioni descritte dai due autori e tra i loro stati d’animo ci sono anche alcune differenze notevoli. Raffronta le due poesie in un testo di circa 30 righe. 10 Ch’io veda soltanto la siepe Infinito T19 La mia sera Canti di Castelvecchio Composta nel 1900 e pubblicata lo stesso anno sulla rivista “Il Marzocco”,  La mia sera  è la descrizione della fine di una giornata di pioggia, quando ogni cosa sembra risvegliarsi a nuova vita. E come la sera è attraversata da dolci suoni e voli di rondini, così anche la vecchiaia del poeta sembra consolata dai voli della fantasia e del ricordo, che acuiscono in lui il desiderio di addormentarsi come quando era bambino, di sentire la presenza della madre chinata a dargli il bacio della buonanotte e poi di immergersi nel sonno.  Cinque strofe composte da 7 novenari e 1 senario, che si chiude sempre con la parola sera. Le rime sono alternate secondo lo schema ABABCDCd. Metro Il tumulto del passato e la pace del presente Il giorno fu pieno di lampi; ma ora verranno le stelle, le tacite stelle. Nei campi c’è un breve di ranelle. gre gre       Le tremule foglie dei pioppi 5 trascorre una gioia leggiera. Nel giorno, che lampi! che scoppi! Che pace, la sera! Si devono aprire le stelle     nel cielo sì tenero e vivo. 10 Là, presso le allegre ranelle, singhiozza monotono un rivo. Di tutto quel cupo tumulto, di tutta quell’aspra bufera,     non resta che un dolce singulto 15 nell’umida sera. È, quella infinita tempesta, finita in un rivo canoro. Dei fulmini fragili restano     cirri di porpora e d’oro. 20 O stanco dolore, riposa! La nube nel giorno più nera fu quella che vedo più rosa nell’ultima sera.     Che voli di rondini intorno! 25 che gridi nell’aria serena! La fame del povero giorno prolunga la garrula cena. La parte, sì piccola, i nidi     nel giorno non l’ebbero intera. 30 Né io… e che voli, che gridi, mia limpida sera! E mi dicono, Dormi! Don… Don… mi cantano, Dormi!    , ▶ sussurrano     Dormi! bisbigliano, Dormi! 35 là, voci di tenebra azzurra… Mi sembrano canti di culla, che fanno ch’io torni com’era… sentivo mia madre… poi nulla…     sul far della sera. 40 TRECCANI ▶ Le parole valgono Può essere dolce oppure malevolo: mentre il della natura ci fa pensare al mormorio lieve e prolungato delle foglie mosse dal vento o delle acque di un ruscello, quello degli uomini conserva un che di nascosto e negativo. Quando si sul conto di qualcuno, è certo che si sta versando veleno, adoperando la parola a bassa voce per parlare male e criticare in segreto. «Si certe cose sul suo conto!»: un’esclamazione pettegola e molto pericolosa poiché, come si suol dire, “la calunnia è un venticello”. sussurrare sussurro sussurra sussurrano ▶ A seconda che il verbo si riferisca al parlare sotto voce o all’insinuare critiche, si hanno diversi sinonimi. Tra i seguenti sottolinea solo quelli che si riferiscono al primo caso: mormorare ; sparlare ; bisbigliare ; zufolare ; confabulare ; parlottare . silenziose. 3 tacite: perché senza eco, smorzato. 4 breve: perché mosse dal vento. 5 tremule: attraversa, fa vibrare. Il verbo è usato transitivamente. 6 trascorre: il rimbombo dei tuoni. 7 scoppi: il cielo appare così umido a causa della pioggia ( ) e vibrante che le stelle sicuramente dovranno spuntare. Il verbo sottintende un’analogia tra l’accendersi delle stelle e lo sbocciare dei fiori. 9-10 Si devono… vivo: tenero aprire ci si riferisce al forte rumore del temporale. 13 quel cupo tumulto: violenta. 14 aspra: il singhiozzo (ossia il rumore del ruscello, il del v. 12) è definito, tramite un ossimoro, per sintetizzare il passaggio dal pianto di dolore del giorno alla quiete riposante della sera, in cui del pianto resta, nel , un residuo, un’eco. 15 dolce singulto: rivo dolce singulto che sembrava non dover mai finire. 17 infinita: ruscello che produce un suono simile a un canto. 18 rivo canoro: l’attributo sembra riferirsi alla forma (a zig-zag, come se dessero l’impressione di spezzarsi nel cielo) e alla breve durata dei fulmini. Secondo un’altra interpretazione, andrebbe collegato al sostantivo del verso successivo. 19 fulmini fragili: fragili fragili cirri nuvole sfilacciate e leggere di alta quota. 20 cirri: si tratta del dolore dell’uomo vinto dalla Storia e da un presente angoscioso. plàcati! 21 stanco dolore: riposa!: la nube che ora, a sera inoltrata, vedo del colore più rosa è la stessa che, durante il giorno, era la più nera. Giunto alla sera della vita, il poeta può dunque ricordare con maggior distacco le sofferenze passate. 22-24 La nube… ultima sera: la fame patita in un giorno povero di cibo a causa della tempesta allunga la durata della cena dei rondinini, che continuano a garrire per la felicità. 27-28 La fame… cena: i piccoli nel nido non hanno avuto, durante il giorno, tutta la parte di cibo, per quanto piccola, di cui avevano bisogno. 29-30 La parte… intera: neanche io. 31 Né io: il soggetto di questo verbo, al plurale come i seguenti, è il suono delle campane. 33 dicono: dove suonano le campane. il suono delle campane è assimilato a voci misteriose provenienti dalle profondità azzurre del cielo. 36 là: voci… azzurra: fanno sì che io. cioè fanciullo. 38 fanno ch’io: com’era:  >> pagina 503 DENTRO IL TESTO I contenuti tematici Dopo un giorno di tempesta, con la sera sopraggiunge la quiete e una gioia tranquilla e (v. 6) pare contagiare la natura. Nella calma ritrovata, il poeta rivive le vicende dolorose del proprio passato, ora decantate in una serenità nuova, finalmente assaporata al tramonto di una vita segnata da tanti dolori. leggiera Tutta la lirica è strutturata su questo confronto – l’infuriare degli elementi durante il giorno e il placarsi della tempesta nella pace della sera – che sottintende a sua volta il confronto riguardante l’esistenza del poeta, tra la giovinezza inquieta e la vecchiaia finalmente serena. Così il componimento sviluppa, al di là dell’apparenza di bozzetto idillico, un’intensa meditazione autobiografica. Non a caso, la sera è per il poeta un possesso esclusivo: quella cantata da Pascoli è la “sua” sera, vale a dire la “sua” vita che, nell’estremo ritorno all’innocenza infantile, gli permette di abbandonarsi al sonno, alla quiete e all’oblio del dolore e del male. L’agitazione del giorno si spegne nella pace della sera Al tempo stesso, il costante sottofondo del suono delle campane ( v. 33), quasi assorbito nella dimensione naturale della campagna, e l’anafora del (come una nenia, un’eco cullante della voce delle campane) preparano prima il ricongiungimento del poeta con la madre e con l’infanzia, poi lo sprofondamento nel sonno, quasi a dire nel nulla, nell’abisso riservato al destino umano. Don… Don… , Dormi L’immersione nel nulla Le scelte stilistiche Nel gioco di rimandi tra immagini concrete e significati simbolici, offre un esempio tra i più efficaci dell’espressività poetica pascoliana. Lo stacco tra passato e presente è suggerito subito nel primo verso, dove il verbo al passato remoto ( ) e il punto e virgola segnano una cesura netta con i versi successivi: all’agitazione della tempesta subentra l’inerzia pacata della sera, sulla quale pare coricarsi la luce delle (vocabolo che Pascoli ripete due volte – , vv. 2-3 –, come a indugiare sul loro atteso sopraggiungere). La mia sera fu stelle le stelle, le tacite stelle La gioia, appena accennata, per la pace serale è indotta dal gracidio delle rane (poi chiamate , v. 11), dal tessuto di suoni reso armonico grazie al ricorrere della e della ( , , , vv. 5-6, fino alla parola chiave ), dalla lieve brezza che fa tremare le foglie, dall’analogia sottintesa tra le stelle nel cielo, che (v. 9), e le corolle dei fiori su un prato. allegre ranelle e r tremule trascorre leggiera sera Si devono aprire Il suono e i simboli della pace (vv. 1-12) Come l’uomo, abituato al pianto per le sofferenze patite, anche la natura non dimentica il proprio turbamento e, ora che la tempesta è passata, il suo (v. 15) rivela ancora una sottile inquietudine; d’altro canto, la sera (vale a dire, metaforicamente, la vecchiaia) suggerisce al poeta di guardare con maggiore distacco ai dolori vissuti: (vv. 22-24). Ma questo non è l’unico richiamo autobiografico che è possibile cogliere sotto la superficie della descrizione naturalistica di un momento del giorno. Anzi, si può dire che in questa seconda parte del componimento l’esperienza personale si mostra chiaramente. dolce singulto La nube nel giorno più nera / fu quella che vedo più rosa / nell’ultima sera Alla fine della terza strofa Pascoli esprime la propria stanchezza, cercando nella sera il riposo che le sofferenze della vita gli hanno precluso ( , v. 21). Poi, nella penultima strofa, assistiamo a un altro parallelismo: la vita del poeta viene infatti assimilata alla giornata, priva di cibo, vissuta dalle piccole rondini, alle quali si allude per metonimia ( , v. 29). Anche il poeta, come loro, non ha avuto nel corso degli anni la porzione di felicità che gli spettava: il reticente (v. 31) sintetizza la sua autoesclusione dalla vita e la solitudine patita dopo la violazione del «nido»-casa dell’infanzia, privato per sempre del cibo dell’amore. O stanco dolore, riposa! i nidi Né io… Le risonanze autobiografiche (vv. 13-32)  >> pagina 504 L’ultima strofa è infine caratterizzata, ma sarebbe meglio dire dominata, dall’evocazione fonosimbolica: l’onomatopea del suono delle campane e l’insistita allitterazione (con la ricorrenza della , accentuata dall’invito ) creano un’atmosfera di sonnolenza che fa scivolare il soggetto lirico verso l’infanzia e, al tempo stesso, verso il (il sonno, la morte). Il tono di voce delle campane si fa sempre più basso; l’ dei verbi , , , sembra suggerire proprio questa lenta, silenziosa e progressiva discesa verso l’incoscienza. d Dormi! nulla anticlimax dicono cantano sussurrano bisbigliano L’esperienza di questa immersione è complicata dall’uso simultaneo di una sinestesia (le , v. 36) e di un ossimoro (l’oscurità è paradossalmente azzurra, come accade al buio del cielo notturno quando sfuma in un imprevedibile chiarore): le voci risucchiano indietro verso il nulla, che è insieme la culla della nascita e il vuoto della fine. Il suono delle campane, innocente ricordo dell’infanzia, diventa allo stesso tempo un sinistro suono di morte. voci di tenebra azzurra La voce del nulla (vv. 33-40) L’aspetto metrico ribadisce la grande originalità della poesia di Pascoli, il quale, pur mantenendosi all’interno di schemi consolidati, scompone e reinterpreta con grande libertà le forme chiuse della tradizione. Qui fa uso di novenari e di senari: si tratta già di una scelta per molti versi innovativa, dal momento che di solito si privilegiano l’endecasillabo e il settenario. Ma l’aspetto più importante è legato alla modalità, assolutamente personale, con cui il poeta utilizza questi metri. Il novenario, per esempio, presenta un’accentazione alquanto variata, che ritmicamente produce scansioni diverse: alcuni versi si aprono con l’accento tonico sulla prima sillaba ( , v. 11), altri sulla seconda ( , v. 12). Inoltre la presenza delle cesure determina la frattura del verso: il v. 3, , più che un novenario, è la somma di un senario ( ) e un trisillabo ( ). Là, presso le allegre ranelle singhiozza monotono un rivo le tacite stelle. Nei campi le tacite stelle Nei campi Una disgregazione delle forme canoniche ancora più evidente è operata poi dalle esclamazioni: il v. 7, , per esempio, è interrotto da pause continue, per cui il metro non si concilia più con la sintassi (in questo caso, nominale). La stessa cosa può dirsi per l’ultima strofa, dove l’unità metrica è ostacolata da molteplici fratture, determinate ancora da esclamativi, ma anche da virgole e puntini di sospensione. Infine vanno segnalati i due versi sdruccioli (vv. 19 e 34): la loro sillaba finale ( ; ) viene conteggiata come parte del verso seguente, che così da ottonario diventa anch’esso novenario. Nel giorno, che lampi! che scoppi! re-sta-no sus-sur-ra-no La sperimentazione metrica VERSO LE COMPETENZE Comprendere  Dai un titolo a ogni strofa della poesia. 1 ANALIZZARE 2 Individua nel componimento i termini e le espressioni afferenti al capo semantico del suono, distinguendo quelli connotati positivamente e quelli connotati negativamente: che cosa puoi osservare? 3 Quale funzione hanno le onomatopee presenti nel testo? 4 Quali elementi concorrono alla messa in evidenza della vitalità di ciascun elemento naturale? 5 Individua nel testo almeno un esempio delle seguenti figure retoriche   a allitterazione.   b ossimoro.   c sinestesia.   d metonimia. INTERPRETARE In che modo e perché, a tuo parere, le campane sono umanizzate? 6 è uno dei componimenti in cui Pascoli più chiaramente mette in pratica gli enunciati teo­rici del . Motiva questa affermazione facendo opportuni riferimenti al testo. 7 La mia sera Fanciullino scrivere per... confrontare 8 Il tema della sera è un topos : su un motivo analogo si è soffermato Ugo Foscolo nel sonetto Alla sera . In un testo espositivo di circa 30 righe evidenzia analogie e differenze con La mia sera di Pascoli, prendendo in considerazione gli aspetti metrici, contenutistici e stilistici.