Italo Svevo LA VITA La formazione dell’impiegato Ettore Schmitz Città di frontiera, ha sviluppato nel corso dell’Ottocento una fisionomia e una cultura per molti versi uniche. Innanzitutto, la sua condizione di porto mediterraneo dell’Impero austro-ungarico (a cui apparterrà politicamente sino alla fine della Prima guerra mondiale) l’ha resa un crocevia di scambi, una fiorente sede di imprese commerciali, navali e assicurative e, di conseguenza, la meta di continue ondate migratorie. Italiani, tedeschi, sloveni, greci, turchi: un eterogeneo miscuglio di genti diverse fa di Trieste una città cosmopolita, a contatto per ragioni storiche e geografiche con l’area mitteleuropea. Trieste È in questo crogiuolo multinazionale che nel nasce , da una della borghesia mercantile triestina: il padre Francesco è un commerciante e può permettersi di far vivere in condizioni agiate gli otto figli. 1861 Ettore Schmitz famiglia ebraica Nel 1874 il tredicenne Ettore, insieme al fratello maggiore Adolfo, parte per Segnitz sul Meno, in Baviera, per apprendere la lingua tedesca e la pratica contabile: «Doveva prepararsi», scrive Svevo in un redatto in terza persona, «alla carriera che al padre pareva la più felice, quella del commerciante». Nondimeno, di nascosto (la clandestinità con cui vive le sue passioni culturali sarà una costante della sua vita) si avvicina alla e alla , leggendo Schiller, Goethe, Schopenhauer, Shakespeare e i Naturalisti francesi. Profilo autobiografico letteratura filosofia Al rientro a nel 1878, vorrebbe trasferirsi a Firenze per perfezionare la conoscenza della (a casa si parla soltanto il ), ma le sue aspirazioni e le velleità letterarie vengono ostacolate: il padre, infatti, convinto che al figlio serva ben altro per diventare un bravo commerciante come lui, si oppone al trasferimento. ▶ Trieste lingua italiana dialetto triestino Piegatosi al volere della famiglia, Ettore si iscrive a un istituto commerciale, ma non rinuncia all’ambizione di diventare uno scrittore; nel 1880 inizia a collaborare al quotidiano triestino “L’Indipendente”, a cui invia articoli di critica letteraria e teatrale firmandoli con uno pseudonimo (Ettore Samigli): , si giustifica. «Mi fa pena nel nome Schmitz quella povera “I” fracassata da tante consonanti» La sua vita conosce tuttavia un’improvvisa cesura nel 1883: il fallimento dell’azienda paterna lo costringe a lasciare gli studi e a cercare un impiego, che troverà presso la filiale triestina della di Vienna, come francese e tedesca. Banca Union addetto alla corrispondenza Oppresso dal lavoro impiegatizio, Schmitz trova nella letteratura una via di fuga e di evasione, tanto che inizia a cimentarsi anche in prove di scrittura; porta a termine così il suo primo romanzo, che esce nel 1892 con il titolo : sulla copertina del libro figura un altro pseudonimo, Italo Svevo, che salda le due culture di cui si sente figlio (quella italiana e quella tedesca) e nasconde l’identità dello scrittore, persino ai parenti stretti. Una vita Video – La vita di Italo Svevo SVEVO A TRIESTE Oggi chi passeggia tra le vie di Trieste può imbattersi in una serie di scrittori “di bronzo”, monumentalizzati in pose quotidiane e in grandezza naturale. Tra questi non poteva mancare Italo Svevo, un libro e un cappello in mano, mentre si immagina stia per recarsi al suo luogo preferito, la Biblioteca Civica, in piazza Hortis, dove amava trascorrere ore a leggere. Piazza della Borsa a Trieste in un’illustrazione del 1910 ca. Statua di Italo Svevo, Trieste. : ▶ 1888 Una lotta : ▶ 1890 L’assassinio di via Belpoggio : ▶ 1892 Una vita IL CARATTERE IL GENIO DIETRO UNA BANALE NORMALITÀ Le biografie dei letterati possiedono talvolta l’aspetto dei romanzi. Passioni travolgenti, amori disperati, personalità forti e contrastate, esistenze avventurose: non è raro, così, imbattersi nello stereotipo del letterato-personaggio, eroe disperato, tragico e spesso in lotta con il proprio tempo. Per quanti sforzi si possano fare, un tale modello non può riferirsi alla figura di Ettore Schmitz, Italo Svevo. alias Pur con il rispetto e l’ammirazione che si devono a uno dei più importanti narratori del Novecento, non si può che sottoscrivere la descrizione che ha dato della sua esistenza uno scrittore di oggi, Alessandro Piperno: «un manifesto della banalità borghese: accidiosa e laboriosa a un tempo, opportunista, comoda, cinica, priva di impennate, di eroismi, di istanti di autentico pathos». Un ritratto fuorviante Basterebbe forse affidarsi alle tante fotografie che lo ritraggono per farsi un’idea della sua vita e del suo carattere: questo impiegato di banca che, come un tipico arrampicatore sociale, diventa un ricco industriale attraverso il matrimonio, ci appare sempre con l’aspetto di un baffuto e opulento borghese immerso nella quiete dorata del proprio salotto. La sigaretta, la partita a tennis, i bagni termali, la passioncella per il violino e l’hobby della scrittura come un passatempo necessario, un ingrediente di una quotidianità senza rischi. Né per riscattare l’immagine di questo conformismo ci si può appigliare alle testimonianze dei pochi letterati che lo hanno frequentato, perché il ritratto che essi danno di Ettore Schmitz è ben poco edificante. Persino Roberto Bazlen, l’influente intellettuale triestino che ha contribuito alla sua scoperta alla metà degli anni Venti, lo descrive come «stupido, egoista, calcolatore, senza tatto». Eppure quest’uomo che ha sempre cercato di nascondersi, appagato in apparenza dalle comodità domestiche, in realtà ha depistato tutti, nascondendo sotto la superficie della mediocrità la sua impassibile e tenace investigazione dell’interiorità degli individui. E rimane un segreto come un borghese qualunque e tanto a suo agio nella ritualità un po’ snob del benessere mercantile sia stato capace di coltivare fino all’ultimo, sotto le false sembianze del dilettante, una dissacrante e sovversiva attività di profondo, impietoso e sorprendente indagatore della coscienza collettiva. >> pagina 753 LA VITA AGIATA DI UNO SCRITTORE CLANDESTINO L’esordio letterario dell’impiegato Ettore Schmitz è un fallimento, o quasi: le poche recensioni si soffermano più sulle ombre che sulle luci del romanzo e le mille copie dell’edizione rimangono quasi del tutto invendute. L’ non scalfisce per il momento la sua passione per la scrittura, di cui è frutto, sei anni dopo, : come , il secondo romanzo è stampato a spese dell’autore. L’accoglienza è anche peggiore: un silenzio quasi assoluto, interrotto qua e là appena da qualche segnalazione laconica, per nulla entusiasta. indifferenza di lettori e critici Senilità Una vita Nel 1896 Ettore, dopo una fugace avventura sentimentale con una ragazza di bassa estrazione sociale, sposa la biscugina Livia Veneziani, figlia del facoltoso proprietario di una . In questo modo il modesto impiegato con il chiodo fisso della letteratura, il figlio di un commerciante fallito, conquista uno sociale inattaccabile. fabbrica di vernici sottomarine status Le foto dell’epoca ritraggono lo scrittore vestito in modo elegante, inserito nei salotti della buona società triestina: un perfetto borghese, un uomo di successo. Dietro le apparenze, però, si cela un altro individuo, turbato, inappagato, scosso da un continuo rovello interiore. Lettere e diari raccolgono le confidenze di questo segreto , che sfoga in essi – con un misto di rancore e di gelosia – le proprie insoddisfazioni sulla moglie. D’altra parte, egli rassicura la coniuge e i parenti di lei di aver riposto da tempo – e definitivamente – la penna nel cassetto: l’“ozio letterario” è malvisto dalla concreta famiglia Veneziani e la vocazione di scrittore è costretta alla clandestinità, come e più di prima. alter ego Svevo, che intanto, pur senza convinzione, ha abiurato l’ebraismo e ricevuto il battesimo (solo per considerazioni pratiche e per assecondare le richieste della moglie), lascia la banca nel 1899 ed entra come funzionario nella , per la quale viaggia spesso in . Ben integrato, assimilato entro il sistema industriale, sollevato da ogni preoccupazione economica, agli occhi della moglie è il ritratto vivente dell’uomo dedito alla famiglia e al lavoro, amante della tranquillità, che a malapena si concede il vizio di qualche sigaro. ▶ ditta del suocero Inghilterra LA DITTA DEL SUOCERO Gioachino Veneziani, il suocero di Svevo nonché suo datore di lavoro, da modesto droghiere divenne tra i più ricchi industriali italiani. Il suo successo dipese da una formula innovativa utilizzata per produrre una vernice in grado di proteggere le carene delle navi dalle alghe, dai molluschi e dalla ruggine. Lo scrittore fu tra i pochissimi depositari della ricetta segreta, composta da ingredienti velenosi: biacca di piombo, ossido di alluminio, solfato di rame, arsenico. Insegna metallica decorata a smalto; pubblicità della vernice sottomarina “Moravia”, prodotta dalla ditta Veneziani, 1905, Trieste. Su gentile concessione del Museo Sveviano di Trieste. : ▶ 1898 Senilità >> pagina 754 Il successo inatteso e gli ultimi anni Nel presunto periodo di rinuncia alla letteratura, accadono però due eventi decisivi. Il primo nel 1905, quando Svevo incontra lo scrittore irlandese (1882-1941), allora ventitreenne insegnante alla Berlitz School di Trieste. Joyce gli dà lezioni private di lingua inglese, ma il rapporto tra insegnante e allievo si trasforma presto in amicizia. I due si scambiano le proprie opere: Svevo legge i ( ) ancora in manoscritto; Joyce legge e , da cui rimane folgorato («Ci sono dei passi in che neppure Anatole France avrebbe saputo scrivere meglio», afferma). ▶ James Joyce Dubliners Gente di Dublino Una vita Senilità Senilità Al 1908 risale poi la conoscenza delle opere di (1856-1939), quando ancora la cultura italiana ufficiale ignorava persino il nome del medico viennese. L’interesse di Svevo per la è immediato, ma il suo utilizzo terapeutico non lo convince. Un’esperienza a lui vicina conferma i suoi dubbi: un fratello tossicomane della moglie, entrato in analisi dallo stesso Freud, ne esce addirittura peggiorato. , commenta Svevo. Sigmund Freud psicanalisi «Grande uomo quel nostro Freud ma più per i romanzieri che per gli ammalati» Dopo lo scoppio della la fabbrica del suocero, che negli anni precedenti aveva realizzato profitti altissimi vendendo vernici alla Marina austriaca, viene chiusa dalle autorità tedesche, e Svevo, senza lavoro, si ritrova a poter coltivare le sue passioni: il violino e la letteratura. Nel 1919 comincia a scrivere , che esce nel . Anche in questo caso il romanzo viene pubblicato a spese dell’autore: inizialmente sembra che la critica si accorga di lui e compaiono alcune recensioni favorevoli, poi però cala di nuovo il silenzio. Svevo allora si decide a un’ultima mossa: vincendo la propria ritrosia, spedisce una copia del libro a Joyce, nel frattempo trasferitosi a Parigi, che si adopera per far conoscere agli amici l’ignoto scrittore. Grande guerra La coscienza di Zeno 1923 Come un addetto stampa personale, Joyce fa leggere il libro a letterati, critici, giornalisti, mentre anche in Italia la cortina del silenzio comincia a sollevarsi, per merito di un sostenitore influente, il poeta (1896-1981), a cui Svevo e la sua opera sono stati segnalati dall’intellettuale triestino . Ma è soprattutto a Parigi che il passaparola è contagioso e il “caso Svevo” cresce giorno dopo giorno: a suggellarlo è la lettera ossequiosa del poeta e romanziere (1881-1957), importante autore francese, il quale nel 1925 scrive a Svevo come un «devoto ammiratore» che omaggia un «Maestro». Eugenio Montale Roberto Bazlen Valéry Larbaud Per Svevo è un susseguirsi di soddisfazioni: sulla sua scrivania arrivano articoli riverenti, omaggi, addirittura numeri monografici di riviste dedicate alla sua opera, contratti per traduzioni in francese dei suoi libri. Lo scrittore, tra il serio e il faceto, parla di un «miracolo di Lazzaro»: una resurrezione letteraria ma anche esistenziale, che lo porta a una seconda, imprevista giovinezza. Nel 1928 a Parigi, il Pen Club, un importante circolo internazionale di scrittori, organizza una serata in suo onore; subito dopo è la volta di Firenze, dove è accolto trionfalmente da un gruppo di intellettuali che si fa chiamare “Svevo’s club”: tra questi compaiono lo stesso Eugenio Montale e lo scrittore Elio Vittorini. Sono mesi di felicità, ma anche di presentimenti. Un enfisema polmonare, conseguenza della sua lunga pratica di fumatore, lo inquieta al punto da fargli dire: . A settembre del è in vacanza a Bormio, in Valtellina, per le consuete cure termali: durante il ritorno a casa, l’automobile su cui viaggia insieme alla moglie e a un nipote slitta sul terreno bagnato, sbanda e si schianta contro un albero, nei pressi di , non lontano da Treviso. Le ferite riportate non sono particolarmente gravi ma complicano ulteriormente le già precarie condizioni di salute: Svevo muore il giorno dopo l’incidente per asma cardiaco dovuto all’enfisema. «Dopotutto posso morire perché sono stato assai felice» 1928 Motta di Livenza L’INCONTRO CON JAMES JOYCE Due amici quanto mai diversi tra loro: ventuno anni di differenza, James Joyce cattolico irlandese, Ettore Schmitz ebreo asburgico, il primo eccentrico e dalla sbronza facile, il secondo integerrimo e mai sopra le righe. Se oggi conosciamo e studiamo i romanzi di Svevo è per merito dell’amico che ne ha sottratto l’opera a un destino di sicuro oblio. Blanche Jaques, (1882-1941), 1935. Londra, The National Portrait Gallery. Ritratto di James Joyce : ▶ 1923 La coscienza di Zeno : ▶ 1925 Corto viaggio sentimentale : ▶ 1928 Le confessioni del vegliardo