SEZIONE D – IL SECOLO DELLA BORGHESIA E L’ETÀ DELL’IMPERIALISMO

capitolo 18 – L’Italia dall’Unità alla crisi di fine secolo

1. I PRIMI QUINDICI ANNI DEL REGNO D’ITALIA

L’ITALIA NEL 1861

Anche se era stata uniti politicamente, l’Italia era un paese che presentava situazioni molto diverse e anche poco conosciute dalla classe politica che doveva governarla. 

Inoltre il neonato Regno d’Italia era un paese molto arretrato rispetto agli altri Stati europei. 

Su una popolazione di 22 milioni di abitanti il tasso medio di analfabetismo era pari al 78%, con punte del 90% nel Centro-Sud della penisola; al di fuori della Toscana, la conoscenza dell’italiano era limitata.

L’agricoltura occupava il 70% della popolazione attiva, ma si trattava ancora di un’agricoltura arretrata, con le limitate eccezioni della bassa Lombardia e delle risaie del Piemonte, e i contadini vivevano in condizioni durissime ed erano vittime di malattie legate alla diffusa malnutrizione.

IL GOVERNO DELLA DESTRA STORICA

Poche settimane dopo la proclamazione del regno, Cavour morì. Il gruppo dirigente che aveva lavorato con lui continuò l’azione di governo seguendo le sue direttive: rispetto delle libertà sancite dallo Statuto Albertino, accentramento amministrativo, liberismo economico e laicità dello Stato. Questo gruppo di politici provenienti per lo più dal Nord, venne definito “Destra storica”, e governò per quindici anni la prima fase dell’Unità d’Italia. Si trattava si una classe dirigente onesta e rigorosa, ma che era espressione di appena il 2% della popolazione (la percentuale degli aventi diritto al voto). Era dunque di fatto isolata dal “paese reale” di cui faceva fatica a capire bisogni e aspettative.

MEZZOGIORNO E BRIGANTAGGIO

Nel perseguire l’obiettivo dell’accentramento amministrativo, la Destra Storica applicò le leggi piemontesi al resto d’Italia.La realtà piemontese però era diversa da quella di altre zone del paese. L’imposizione di tasse più alte e l’introduzione del servizio militare obbligatorio portarono miseria e malcontento, specialmente nell’ex Regno delle Due Sicilie, dove il malessere sociale si espresse in disordini e rivolte, incoraggiate dal clero locale e finanziate dai Borbone in esilio a Roma. Si sviluppò così il fenomeno del brigantaggio, che il governo represse con durezza. Si instaurò un vero e proprio regime di guerra, con scontri a fuoco, tribunali militari e fucilazione immediata per chi opponeva resistenza e nel giro di pochi anni il fenomeno del brigantaggio venne messo sotto controllo. Non ne furono però eliminate le cause: malessere sociale, povertà, delinquenza e soprattutto il “problema della terra”, ovvero la ridistribuzione della proprietà terriera e la fine dei rapporti di lavoro e sfruttamento nei quali vivevano i contadini del Sud.

LA POLITICA ECONOMICA

Altrettanto complicata fu l’unificazione economica del Paese. Vennero unificati i sistemi monetari e fiscali ed eliminate le barriere doganali fra i vecchi Stati preunitari al fine di creare un mercato unico nazionale. La Destra storica seguì il modello liberista che prevedeva un limitato intervento dello Stato nell’economia, un forte impegno per potenziare le infrastrutture e l’apertura dell’Italia al libero mercato internazionale. 

L’apertura alla concorrenza estera però non favorì lo sviluppo industriale del Paese e mise in crisi i pochi settori industriali attivi che non potevano competere con la produzione straniera.

Inoltre, per finanziare la rete ferroviaria nazionale, il governo dovette aumentare le imposte sia dirette, cioè sul reddito e il patrimonio, che indirette, cioè sui consumi. E la situazione peggiorò quando si aggiunsero i costi della guerra all’Austria del 1866: in questa occasione venne introdotta la tassa sul macinato che causò un forte aumento sul prezzo del pane e una conseguente ondata di proteste e sommosse.

La politica di duro fiscalismo e rigore finanziario fu perseguita in particolare dal ministro Quintino Sella, che nel 1875 raggiunse il  pareggio di bilancio. Lo scontento di larga parte della popolazione aveva però ormai raggiunto il limite e l’anno seguente la Destra storica venne battuta alle elezioni.

2. IL COMPLETAMENTO DELL’UNITÀ

UNA QUESTIONE ANCORA APERTA

Il tema del completamento dell’Unità d’Italia era uno dei pochi che mettesse d’accordo la maggior parte dell’opinione pubblica. Rimanevano ancora fuori del Regno: il Veneto, il Trentino, il Friuli, la Venezia Giulia, che facevano parte dell’Impero austro-ungarico, e soprattutto rimaneva aperta la “questione romana” che riguardava il Lazio e Roma, ideale capitale del regno d’Italia.

LA TERZA GUERRA D’INDIPENDENZA

Quando Bismarck, nel 1866, dichiarò guerra all’Austria, coinvolse l’Italia per obbligare l’esercito austro-ungarico a combattere su due fronti. Il conflitto, passato alla storia come Terza guerra d’indipendenza, vide ripetutamente sconfitto l’esercito e la marina italiani. Nonostante le sconfitte, però, la vittoria tedesca sull’Austria garantì all’Italia l’acquisizione del Veneto e di parte del Friuli, mentre rimasero esclusi il Trentino e la Venezia Giulia.

LA QUESTIONE ROMANA E LA PRESA DI ROMA

La “questione romana” era difficile da risolvere sia perché lo stato pontificio era protetto militarmente dalla Francia di Napoleone III, sia per il fatto che la maggioranza schiacciante della popolazione italiana era cattolica. Nel giugno 1862 Garibaldi organizzò una spedizione militare, ma di fronte alla decisa presa di posizione di Napoleone III a difesa della Chiesa, Vittorio Emanuele II fu costretto a condannare e reprimere l’impresa garibaldina inviando l’esercito. Un altro tentativo infruttuoso venne fatto, sempre da Garibaldi, nel 1867. La “questione romana” si risolse solo nel 1870 quando, approfittando della Guerra franco-prussiana e della caduta di Napoleone III (⇒ C16.3), l’esercito regolare italiano prese possesso di Roma. Due settimane dopo un plebiscito confermò l’annessione.

LA LEGGE DELLE GUARENTIGIE E IL “NON EXPEDIT

Nell’estate 1871 Roma divenne quindi la nuova capitale del Regno d’Italia. Nei confronti del Papa e della Chiesa si applicò il principio della “libera Chiesa in libero Stato”, tutelato dalla legge delle guarentigie, con la quale l’Italia si impegnava unilateralmente a garantire al papa la possibilità di svolgere il suo ruolo di guida spirituale e riconoscendogli anche una serie di prerogative simili a quelle di un capo di Stato: onori sovrani, possibilità di mantenere un corpo di guardie armate, diritto di rappresentanza diplomatica, possesso dei palazzi del Vaticano e del Laterano. Pio IX tuttavia emanò il “non expedit” (letteralmente non è opportuno) ovvero un divieto a tutti i cattolici di partecipare alla vita politica dello Stato italiano.

3. LA SINISTRA STORICA AL POTERE

L’ALTERNATIVA ALLA DESTRA STORICA

Dopo la sconfitta della Destra storica, nel 1876 Vittorio Emanuele II diede incarico di formare un nuovo governo a Depretis, capo della Sinistra storica, che fino ad allora era stata all’opposizione. La Sinistra storica non era una sinistra di ispirazione socialista e in essa non rientravano né i mazziniani, né i repubblicani; buona parte dei suoi leader erano piemontesi, come Depretis, ma c’erano anche figure provenienti da altre parti d’Italia, come il lombardo Giuseppe Zanardelli e il siciliano Francesco Crispi. 

Rispetto alla Destra, la Sinistra storica aveva una base di consensi più ampia e composita, formata da medio-borghesi delle città, intellettuali, operai e artigiani. Per questo uno dei suoi principali obiettivi fu l’allargamento del suffragio.

LE RIFORME DELLA SINISTRA STORICA

La Sinistra storica attuò riforme importanti: nel 1877 la legge Coppino estese l’istruzione obbligatoria fino ai nove anni e introdusse sanzioni per i genitori inadempienti. Questa riforma però lasciò l’attuazione della legge ai singoli comuni mantenendo così una forte disparità tra le diverse realtà del Paese. Nel 1882 venne approvata una nuova legge elettorale che portò gli aventi diritto dal 2% al 7% della popolazione, più del triplo rispetto al passato, segnando l’ingresso nel  corpo elettorale della piccola borghesia, degli artigiani e degli operai più qualificati.

DEPRETIS E IL TRASFORMISMO

La riforma elettorale del 1882 contribuì a modificare il quadro politico italiano. A destra e a sinistra si crearono raggruppamenti più radicali, mentre un numero sempre maggiore di parlamentari non era più riconducibile alla Destra o alla Sinistra, definendosi piuttosto di “centro”. Depretis allora in accordo con il leader della Destra Marco Minghetti, attuò un processo di convergenza delle forze moderate di Destra e di Sinistra, noto con il termine di trasformismo, superando il sistema bipartitico che si era avuto fino ad allora e lasciando fuori dalla maggioranza di governo le forze più estremiste.

LA CRISI AGRARIA, L’EMIGRAZIONE E LO SVILUPPO INDUSTRIALE

L’arrivo in Europa, a prezzi competitivi, dei prodotti agricoli provenienti dal Nord America (⇒ C19.1) mise in crisi la produzione agricola italiana causando nuove ondate di miseria. Il risultato fu una massiccia emigrazione dalle campagne verso le città e verso l’estero. In questo periodo gli italiani che emigrarono all’estero raggiunse un totale di più di 2 milioni di persone.

La crisi del settore agricolo italiano dimostrò l’urgenza di avviare un’industrializzazione del Paese. Per favorire la crescita industriale si abbandonarono le politiche liberiste e si reintrodussero i dazi doganali con l’estero. 

Questo però non portò benefici a tutti i settori, infatti ne furono danneggiate l’industria meccanica, quella della seta e soprattutto le produzioni di colture specializzate del Sud destinate all’esportazione. Inoltre i dazi sul grano (di cui l’Italia era grande importatrice) provocarono un immediato rialzo nei prezzi, a vantaggio dei produttori nazionali ma a netto svantaggio dei consumatori. 

Infine i finanziamenti all’industria crearono quell’intreccio tra politica e affari che divenne caratteristico di questa nuova fase della storia italiana e riportarono il bilancio dello Stato in deficit.

4. LA POLITICA ESTERA

LA TRIPLICE ALLEANZA

Anche in politica estera ci fu in questo periodo una radicale svolta. Incrinati gli storici buoni rapporti con la Francia a causa dell’espansione coloniale francese in Tunisia (considerata dal governo italiano come una possibile futura conquista), nel 1881 il governo Depretis fece entrare l’Italia nella Triplice Alleanza con Germania e Austria-Ungheria. Il nuovo legame stabilito con l’Austria-Ungheria fu un’autentica rottura con il passato, contro di lei infatti si erano combattute tre guerre d’indipendenza e possedeva ancora i territori del Trentino e della Venezia Giulia che l’Italia considerava italiani.

L’INIZIO DELL’ESPANSIONE COLONIALE

Il governo italiano avviò una sua politica coloniale acquistando la baia di Assab (nell’attuale Eritrea) da dove poi un corpo di spedizione occupò la striscia di territorio compresa tra la baia stessa e la città di Massaua. Questa regione dell’Africa, povera di risorse e quindi poco ambita dalle altre potenze europee, era limitrofa all’Etiopia, un paese economicamente arretrato ma dotato di un esercito agguerrito e numeroso. Quando gli italiani avanzarono nell’entroterra etiope, i guerrieri etiopi li attaccarono in massa e nel 1887 l’esercito italiano subì la disfatta di Dogali. Nonostante la notizia avesse grande impatto sull’opinione pubblica, il governo decise di proseguire la campagna militare.

5. NUOVI PROTAGONISTI SULLA SCENA POLITICA

IL MOVIMENTO OPERAIO E LA NASCITA DEL PARTITO SOCIALISTA

A partire dagli anni Settanta, in concomitanza con lo sforzo statale all’industrializzazione, cominciarono a diffondersi anche in Italia le prime leghe operaie. Dall’unione di queste leghe nacque a Milano, nel 1882, il Partito operaio italiano, che faceva della lotta di classe il suo principale obiettivo ma che rimase sempre una federazione delle diverse realtà operaie presenti nel Paese. Con il passare degli anni divenne sempre più evidente la mancanza di un’organizzazione politica unitaria a carattere nazionale, capace di rappresentare tutto il mondo del lavoro. Nel 1892 fu Filippo Turati a fondare il primo partito della storia italiana che si proponeva di difendere i lavoratori, di lottare per il miglioramento delle loro condizioni di vita in nome degli ideali socialisti, un partito che che da 1895 si sarebbe chiamato Partito socialista italiano.

IL MONDO CATTOLICO

Nonostante il “non expedit”, che si applicava però solo alle elezioni politiche nazionali, le forze cattoliche cominciarono presto ad avere un ruolo importante nella politica e nella società italiane. L’elezione al soglio pontificio di Leone XIII nel 1878 portò a una prima apertura del mondo cattolico alla politica italiana. Tuttavia nel 1886-87 le trattative per un reciproco riconoscimento tra Stato italiano e Santa Sede fallirono, a causa della pretesa di Leone XIII di vedersi restituita la sovranità su Roma.

6. TRA CRISPI E GIOLITTI

IL GOVERNO DI FRANCESCO CRISPI

Nel 1887 iniziò la presidenza di Francesco Crispi, esponente della Sinistra storica, che concentrò nelle proprie mani un’enorme fetta di potere, ricoprendo contemporaneamente le cariche di primo ministro, di ministro degli Interni e degli Esteri. Crispi si proponeva come l’uomo forte, che avrebbe reso moderno ed efficiente il paese. L’impronta autoritaria e centralista del suo governo gli attirò le simpatie degli ambienti conservatori, permettendogli di governare con un’amplissima maggioranza parlamentare.

Il governo Crispi fu caratterizzato da tre elementi:

  • l’approvazione del nuovo codice penale (il codice Zanardelli) che abolì la pena di morte;
  • la politica repressiva e la lotta alle agitazioni sociali, che colpirono l’attività sindacale, il movimento operaio ma anche le organizzazioni cattoliche;
  • una politica estera che puntava a dare all’Italia un ruolo di grande potenza, scegliendo di rafforzare il legame con la Triplice Alleanza e di rilanciare la politica coloniale dell’Italia.

Proprio la sua politica coloniale, giudicata poco utile e molto dispendiosa, causò la caduta del governo Crispi nel 1891.

UN NUOVO PROTAGONISTA: GIOVANNI GIOLITTI

Nel 1892 divenne primo ministro Giovanni Giolitti, un politico non facilmente inquadrabile all’interno di un partito o di un’ideologia specifica. Giolitti cercò di riformare il sistema fiscale puntando sul  principio della progressività delle imposte, cosa che gli attirò l’ostilità di grandi industriali e proprietari terrieri. Altrettanta ostilità negli ambienti conservatori la ottenne quando si rifiutò di reprimere con la forza i Fasci siciliani, un vasto movimento di protesta contro l’eccessivo carico fiscale e il malgoverno locale, che chiedeva terre da coltivare per i contadini e contratti agrari più vantaggiosi.

Nel 1893, dopo un anno e mezzo come Presidente del Consiglio, Giolitti fu costretto a dimettersi perché coinvolto nello Scandalo della Banca Romana e accusato di aver coperto gravi irregolarità dei suoi dirigenti quando era ministro del Tesoro nel Governo Crispi. Il fatto però che tornasse al potere Crispi (che nello stesso scandalo aveva responsabilità ben più pesanti) conferma l’ipotesi che le dimissioni di Giolitti non furono ottenute a causa dello scandalo ma piuttosto furono dovute alle pressioni degli ambienti conservatori che lo accusavano di essere stato “troppo debole” nei confronti delle proteste sociali.

IL RITORNO DI CRISPI E LA DISFATTA DI ADUA

Tornato a capo del governo, Crispi si affrettò a riprendere la sua politica autoritaria reprimendo nel sangue le agitazioni dei Fasci Siciliani, dichiarando fuorilegge il Partito socialista nel 1894 e limitando la libertà di stampa, di riunione e di associazione.

Questo però portò a un ampliamento del fronte dell’opposizione con un alleanza tra socialisti, radicali e repubblicani. Allo stesso tempo, il coinvolgimento sempre più pesante di Crispi nello scandalo della Banca Romana ma soprattutto le disastrose disfatte militari italiane in Etiopia costrinsero Crispi, nel 1896, a dare nuovamente le dimissioni e a chiudere la sua lunga carriera politica.

LA CRISI DI FINE SECOLO

Il periodo della storia italiana, compreso tra il 1896 e il 1900, è stato riassunto con la formula di “crisi di fine secolo”. Si trattò innanzitutto di una crisi politica, durante la quale si alternarono governi deboli, privi della forza necessaria per affrontare i processi in atto. Ma fu anche una crisi economica e sociale, che esplose nella primavera del 1898, quando un improvviso aumento del prezzo del pane causò un’ondata di manifestazioni popolari in tutta Italia. Il governo, con il benestare del re Umberto I, scatenò polizia ed esercito per disperdere le folle; vari leader socialisti e repubblicani, ma anche cattolici, furono arrestati e condannati a dure pene detentive. A Milano in particolare il Generale Bava Beccaris fece sparare sulla folla, causando la morte di più di cento persone. 

La politica repressiva e violenta e i tentativi di restringere le libertà politiche e sociali si rivelarono però controproducenti e non fecero altro che far crescere i consensi alle opposizioni. Re Umberto I allora diede l’incarico di formare un nuovo governo a un esponente moderato. Questo fu l’ultimo atto politico del re, che il 29 luglio 1900 fu ucciso dall’anarchico Gaetano Bresci, come vendetta per i morti di Milano.

ESERCIZI

1. Completa lo schema sul governo Crispi.


2. Fai la scelta giusta.


a. Dopo la morte di Cavour la sua eredità politica confluisce nella Destra/Sinistra storica.

b. Il fenomeno del brigantaggio riguarda il Nord/Sud Italia.

c. La Triplice Alleanza comprende Italia, Austria-Ungheria e Germania/Francia.

d. Con la Terza guerra d’indipendenza l’Italia riesce ad annettere Veneto e parte del Friuli/Trentino e Venezia Giulia.

e. Il 29 luglio 1900 il re Umberto I viene incoronato/assassinato.

f. La legge Coppino del 1877 estende l’istruzione obbligatoria/il diritto di voto.