Giacomo Leopardi – LA VITA | L’AMBIENTE FAMILIARE E LA FORMAZIONE | Nel il borgo di si trova ai confini di uno degli Stati più arretrati della penisola italiana, lo Stato pontificio, in una realtà del tutto marginale, lontana dai fermenti politici, sociali e culturali suscitati in Italia e in buona parte dell’Europa prima dalla cultura illuminista e poi dagli ideali che avevano animato la Rivoluzione francese. In quell’anno, nel piccolo centro marchigiano, nasce Giacomo Leopardi, primogenito di una nobile casata, figlio del e di . Il padre, eccentrica figura di gentiluomo di provincia, è un bibliofilo erudito, infaticabile intellettuale conservatore, difensore accanito della politica ecclesiastica, tenace oppositore di ogni riforma politica. Genitore affettuoso quanto possessivo, esercita da subito un’influenza fondamentale nel favorire l’inclinazione del figlio alle lettere: possiede infatti una notevole ricca di opere classiche, filosofiche e teologiche, per la quale ha dilapidato il pur cospicuo patrimonio di famiglia. La madre, austera e rigorosamente religiosa, è una donna poco incline alle manifestazioni di affetto: la sua inattaccabile severità è dovuta soprattutto all’educazione bigotta e alla pesante responsabilità di far fronte a un bilancio familiare reso pericolante dalle avventate speculazioni finanziarie del marito. Giacomo vive la sua fanciullezza in questo ambiente: una fanciullezza, tuttavia, non infelice, vivacizzata dai giochi con (i fratelli sono complessivamente dieci, ma solo alcuni supereranno l’infanzia), ai quali racconta favole ispirategli dalla sua innata fantasia. Il ragazzo rivela ben presto la sua intelligenza prodigiosa; inizialmente è educato da precettori ecclesiastici che tuttavia non sono in grado di impartirgli insegnamenti adeguati alle sue possibilità, in seguito si forma come autodidatta: nelle quattro stanze della biblioteca paterna, tappezzate da quasi 16 000 volumi, apprende il greco e l’ebraico, si cimenta nelle prime prove filologiche, immagina sui libri l’esistenza di una realtà viva e lontana dal suo angusto e gretto mondo paesano. Sono gli anni (1808-1815) che Leopardi stesso immortala come quelli dello , che gli procura una straordinaria erudizione: «Certo nessuno è stato testimonio del suo affaticarsi più di me», ricorderà anni dopo il fratello Carlo, «che, avendo sempre nella prima età dormito nella stessa camera con lui, lo vedeva [vedevo], svegliandomi nella notte altissima, in ginocchio avanti il tavolino per poter scrivere fino all’ultimo momento col lume che si spegneva». A questo periodo risalgono , già espressione di ampi interessi culturali: si spazia dai versi in latino a quelli in volgare di ispirazione classicistica o arcadica (è il caso di tragedie come , scritta nel 1811 a soli tredici anni, e , 1812), dalle traduzioni poetiche (Orazio, Mosco e l’ soprattutto) agli studi filologici, dai trattati di argomento scientifico ( , 1813) alle ricerche di stampo illuministico ( , 1815). 1798 Recanati conte Monaldo Adelaide Antici biblioteca i fratelli minori Carlo e Paolina «studio matto e disperatissimo» i primi componimenti La virtù indiana Pompeo in Egitto Odissea Storia dell’astronomia Saggio sopra gli errori popolari degli antichi | LE “CONVERSIONI” E L’INFELICITÀ | Giacomo non ha ancora abbandonato le idee paterne, conservatrici in politica, religione e letteratura, quando nel 1817 l’amicizia epistolare con lo scrittore (1774-1848), intellettuale laico e democratico, lo stimola a un importante ampliamento di prospettive. È in questa fase che possiamo situare la cosiddetta “ ”, ossia il passaggio dalla fase erudita e di studio a quella della composizione creativa. Infatti, dopo aver letto i poeti contemporanei – da Foscolo a Goethe, da Alfieri a Monti – e preso posizione nella polemica tra Classicisti e Romantici con una (in risposta al saggio di Madame de Staël), che però non viene pubblicata, dà avvio nel 1819 alla sua vera e propria produzione lirica con la stesura dei . A soli vent’anni la sua incomincia a essere : Leopardi soffre di scoliosi, di febbri continue e soprattutto di disturbi agli occhi. Emergono i primi segni di e di , per cui il giovane accusa soprattutto il paese e l’ambiente retrivo in cui vive, «tana, caverna», dove «tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità». L’amicizia con Giordani gli fa prendere coscienza del desiderio di uscire dall’anonimato e confrontarsi con una cultura più ampia e moderna, acuendo in lui la percezione di costrizione e soffocamento che prova a contatto con un mondo opprimente. Il bisogno di spezzare l’isolamento si traduce nel progetto di abbandonare il paese; così, nel 1819, egli tenta invano una , spinto dal desiderio di sottrarsi alla noia e alla disperazione: il passaporto, che segretamente si è fatto fare, finisce nelle mani del padre. Anche la fede, inculcatagli dalla madre, non lo sorregge più: avviene qui la “ ”(«dal bello al vero»), che gli ispira una nuova visione della vita, avversa a ogni credo religioso e vicina alle tesi del materialismo settecentesco, alle quali resterà legato fino alla morte. Pietro Giordani conversione letteraria Lettera ai sigg. compilatori della “Biblioteca italiana” primi idilli salute minata insoddisfazione malessere fuga da Recanati conversione filosofica