Arrivo di prigionieri ebrei al campo di concentramento di Auschwitz nel 1944. Art Spiegelman, Maus, graphic novel uscita a puntate tra il 1980 e il 1991 e dedicata alla Shoah. La scienza al servizio della morte Il genocidio viene elaborato infatti con efficienza e scientificità straordinarie: i campi di sterminio in cui vengono deportati gli ebrei (da Auschwitz a Treblinka, da Mauthausen a Dachau) «vengono organizzati secondo i dettami di una tecnologia perversa, asservita al processo di industrializzazione della morte (Miglianti). La razionalità è posta al servizio della distruzione con una logica quasi inspiegabile, che si scontra con i limiti della parola e con l impossibilità di rappresentare e dire la tragedia. Scrivere dopo Auschwitz Come raccontare dal punto di vista di chi ha vissuto direttamente il progetto e la realizzazione della cosiddetta soluzione finale ? Come narrare la macchina assassina che prepara alla morte una massa indifferenziata di inermi? E soprattutto come essere credibili di fronte all indicibile? La difficoltà di dare risposte sicure spiega la scelta del silenzio, tenacemente perseguita da molti sopravvissuti, i quali hanno preferito l oblio al resoconto, l invisibilità alla presenza. Per costoro, la scrittura è stata infatti uno strumento inadeguato, una testimonianza insufficiente, al massimo un eco della catastrofe, incapace però di trasmetterne con chiarezza e concretezza le immagini, il senso, la verità più profonda. «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie : questa affermazione del filosofo tedesco Theodor W. Adorno (1903-1969) può essere considerata il sigillo simbolico per i sopravvissuti che hanno rinunciato a condividere la memoria pubblica dell orrore, nella convinzione che l arte non potesse sublimare o semplicemente narrare il massacro. Analogo è il giudizio espresso dal critico e scrittore francese George Steiner (n. 1929), della «morte della lingua tedesca dinanzi all esperienza del genocidio. Eppure in altri casi l urgenza del racconto supera la consapevolezza dei limiti della parola: lo scrittore statunitense Elie Wiesel (1928-2016) nato in Romania e sopravvissuto all esperienza dei lager nazisti scrive, per esempio, che «tacere è proibito, parlare è impossibile . Nel tentativo di sciogliere questo paradosso, gli intellettuali reduci dai lager (e tra tutti, naturalmente, Primo Levi) riaffermano le proprie responsabilità, la volontà disperata (che per alcuni è un dovere civile, per altri semplicemente umano, per altri ancora perfino religioso) di sfidare la zona grigia del disimpegno, trasformandosi in «sentinelle che hanno visto la catastrofe, le hanno dato un nome e l hanno interpretata (Traverso). La sfida poetica La ricerca di una lingua del lutto in Paul Celan In contrasto con il giudizio di Adorno, il poeta ebreo di origini rumene e di madrelingua tedesca Paul Celan (pseudonimo di Paul Antschel, 1920-1970) scrive, qualche mese dopo la guerra, che «non c è nulla al mondo che possa spingere un poeta a cessare di scrivere, neppure il fatto che sia ebreo e il tedesco la lingua dei suoi poemi . Egli infatti tenta di cogliere il modo per esprimere Auschwitz e trasformare l orrore in linguaggio: la sua è un esplorazione «dentro la lingua della morte , che risponde a un esigenza quasi biologica di «trovare la parola magica e segreta che apra la prigione della storia (Magris). Celan scrive in tedesco, nella lingua cioè dei soldati che hanno ucciso i suoi genitori, scomparsi nei campi di concentramento, e che lo hanno deportato, condannandolo, in quanto ebreo, ai lavori forzati. La sua però non è né può essere una lingua pura, ma al contrario è contaminata, ricca di suggestioni e influenze, astratta e talvolta impenetrabile: il codice più adatto a gridare la realtà del lager, a denunciare la vita-non vita dei prigionieri, a denudare la crudeltà degli aguzzini. PERCORSI NEL 900 / RACCONTARE LA SHOAH / 835