Camminiamo nel bosco. A lungo. Troppo a lungo. I rami ci feriscono il volto,
35 cadiamo nelle buche, e le foglie morte ci bagnano le scarpe, ci stortiamo
le caviglie sulle radici. Qualcuno accende una lampadina tascabile, ma serve
solo a illuminare piccoli cerchi, e alberi, sempre alberi. Eppure, avremmo già
dovuto essere fuori dal bosco. Abbiamo l’impressione di girare in tondo.
Un bambino dice:
40 «Ho paura. Voglio tornare a casa. Voglio andare a letto».
Un altro bambino piange. Una donna dice:
«Siamo perduti».
Un giovane dice:
«Fermiamoci. Se continuiamo così, finiremo per ritrovarci di nuovo in Ungheria,
45 ammesso che non ci siamo già finiti. Non muovetevi. Vado a vedere».
Ritrovarsi in Ungheria sappiamo tutti cosa vuol dire: la prigione per
avere superato illegalmente il confine, e magari anche farci sparare
addosso da guardie di confine russe ubriache.
Il giovane si arrampica su un albero. Quando torna giù, dice:
50 «Ho capito dove siamo. Mi sono orientato con le luci. Seguitemi».
Lo seguiamo. Ben presto il bosco si dirada e finalmente camminiamo
su un sentiero vero, senza rami, senza buche, senza radici.
Improvvisamente veniamo illuminati da una forte luce, una voce dice:
«Alt!».
55 Qualcuno di noi dice in tedesco:
«Siamo profughi».
Le guardie di confine austriache rispondono ridendo:
«L’avevamo capito. Venite con noi».
Ci portano nella piazza del paese, dove c’è tutta una folla di profughi.
60 Arriva il sindaco:
«Vengano avanti quelli che hanno con sé dei bambini».
Veniamo alloggiati da una famiglia di contadini. Sono molto cordiali. Si
occupano della piccola, ci danno da mangiare, ci danno un letto.
La cosa strana, sono i pochi ricordi che ho di tutto questo. Come se tutto
65 si fosse svolto in sogno, o in un’altra vita. Come se la mia memoria rifiutasse
di ricordare il momento in cui ho perso una parte importante della mia vita.
Ho lasciato in Ungheria il mio diario dalla scrittura segreta, e anche le mie
prime poesie. Ho lasciato là i miei fratelli, i miei genitori, senza avvisarli, senza
dir loro addio, o arrivederci. Ma soprattutto, quel giorno, quel giorno di fine
70 novembre 1956, ho perso definitivamente la mia appartenenza a un popolo.
A. Kristof, L’analfabeta, trad. L. Bolzani, Casagrande, Bellinzona 2005