Come Mosè, da quella nuvola attendevo la mia legge, l’ordine in me, attorno
40 a me e nel mondo. Ero sazio di libri, che pure continuavo a ingoiare con voracità
indiscreta, e cercavo un’altra chiave per i sommi veri: una chiave ci
doveva pur essere, ed ero sicuro che, per una qualche mostruosa congiura ai
danni miei e del mondo, non l’avrei avuta dalla scuola. A scuola mi somministravano
tonnellate di nozioni che digerivo con diligenza, ma che non mi
45 riscaldavano le vene. Guardavo gonfiare le gemme in primavera, luccicare
la mica nel granito, le mie stesse mani, e dicevo dentro di me: “Capirò anche
questo, capirò tutto, ma non come loro vogliono. Troverò una scorciatoia,
mi farò un grimaldello, forzerò le porte”. Era snervante, nauseante, ascoltare
discorsi sul problema dell’essere e del conoscere, quando tutto intorno a noi
50 era mistero che premeva per svelarsi: il legno vetusto dei banchi, la sfera del
sole di là dai vetri e dai tetti, il volo vano dei pappi nell’aria di giugno. Ecco:
tutti i filosofi e tutti gli eserciti del mondo sarebbero stati capaci di costruire
questo moscerino? No, e neppure di comprenderlo: questa era una vergogna
e un abominio, bisognava trovare un’altra strada. Saremmo stati chimici,
55 Enrico ed io. Avremmo dragato il ventre del mistero con le nostre forze, col
nostro ingegno: avremmo stretto Proteo1 alla gola, avremmo troncato le sue
metamorfosi inconcludenti, da Platone ad Agostino, da Agostino a Tommaso,
da Tommaso a Hegel, da Hegel a Croce. Lo avremmo costretto a parlare.
Questo essendo il nostro programma, non ci potevamo permettere di sprecare
60 occasioni. Il fratello di Enrico, misterioso e collerico personaggio di cui
Enrico non parlava volentieri, era studente in chimica, e aveva installato un
laboratorio in fondo a un cortile, in un curioso vicolo stretto e storto che si
diparte da piazza della Crocetta, e spicca nella ossessiva geometria torinese
come un organo rudimentale intrappolato nella struttura evolutiva di un
65 mammifero. Anche il laboratorio era rudimentale: non nel senso di residuo
atavico, bensì in quello di estrema povertà. C’era un bancone piastrellato,
poca vetreria, una ventina di bocce con reattivi, molta polvere, molte ragnatele,
poca luce e un gran freddo. Lungo tutta la strada avevamo discusso
su quello che avremmo fatto, ora che saremmo “entrati in laboratorio”, ma
70 avevamo idee confuse. Ci sembrava “embarras de richesse”, ed era invece un
altro imbarazzo, più profondo ed essenziale: un imbarazzo legato ad un’antica
atrofia, nostra, delle nostre famiglie, della nostra casta. Cosa sapevamo
fare con le nostre mani? Niente, o quasi. Le donne sì: le nostre madri e nonne
avevano mani vive ed agili, sapevano cucire e cucinare, alcune anche suonare
75 il piano, dipingere con gli acquerelli, ricamare, intrecciarsi i capelli. Ma
noi, e i nostri padri?

1. Proteo: nella mitologia greca, dio marino mutaforma; qui metafora della natura che nella sua eterogeneità e nella sua variabilità è difficile da studiare e definire, come dimostrano i numerosi filosofi che, elencati alle rr. 57-58, hanno dato risposte e punti di vista diversi sull’universo e sull’essere umano.