Il tubo di vetro si poteva anche soffiare: questo però era molto meno
facile. Si riusciva a chiudere l’estremità di un tubetto: soffiando poi con forza
dall’altra estremità si formava una bolla, assai bella a vedersi e quasi perfettamente
sferica, ma dalle pareti assurdamente sottili. Per poco che si eccedesse
125 nel soffiare, le pareti assumevano l’iridescenza delle bolle di sapone,
e questo era un segno sicuro di morte: la bolla scoppiava con un colpetto
secco, e i frammenti si disperdevano a terra con un tenue brusio di cocci
d’uovo. In qualche modo, era una giusta punizione; il vetro è vetro, e non
avrebbe dovuto simulare il comportamento dell’acqua saponata. Forzando
130 un po’ i termini, si poteva ravvisare nella vicenda un apologo esopiano.2
Dopo un’ora di lotta col vetro, eravamo stanchi ed umiliati. Avevamo
entrambi gli occhi infiammati ed aridi per il troppo guardare il vetro rovente,
i piedi gelati e le dita piene di scottature. D’altronde, lavorare il vetro
non è chimica: noi eravamo in laboratorio con un altro scopo. Il nostro
135 scopo era quello di vedere coi nostri occhi, di provocare con le nostre mani,
almeno uno dei fenomeni che si trovavano descritti con tanta disinvoltura
sul nostro testo di chimica. Si poteva, per esempio, preparare l’ossidulo
di azoto, che sul Sestini e Funaro era ancora descritto col termine poco
proprio e poco serio di gas esilarante. Sarebbe proprio stato esilarante?
140 L’ossidulo di azoto si prepara scaldando cautamente il nitrato d’ammonio.
Quest’ultimo, nel laboratorio, non esisteva: esistevano bensì ammoniaca
ed acido nitrico. Li miscelammo, incapaci di fare calcoli preventivi,
fino a reazione neutra al tornasole, per il che la miscela si riscaldò fortemente
ed emise abbondanti fumi bianchi; poi decidemmo di farla bollire
145 per eliminare l’acqua. Il laboratorio si riempì in breve di una nebbia
irrespirabile, che non era esilarante per nulla; interrompemmo il tentativo,
per nostra fortuna, perché non sapevamo che cosa può accadere a scaldare
questo sale esplosivo meno che cautamente.
Mi guardai intorno, e vidi in un angolo una comune pila a secco. Ecco
150 quanto avremmo fatto: l’elettrolisi dell’acqua. Era un’esperienza di esito
sicuro, che avevo già eseguito varie volte a casa: Enrico non sarebbe stato
deluso.
Presi acqua in un becher, vi sciolsi un pizzico di sale, capovolsi nel becher
due barattoli da marmellata vuoti, trovai due fili di rame ricoperti di
155 gomma, li legai ai poli della pila, e introdussi le estremità nei barattoli. Dai
capi saliva una minuscola processione di bollicine: guardando bene, anzi,
si vedeva che dal catodo si liberava su per giù il doppio di gas che dall’anodo.
Scrissi sulla lavagna l’equazione ben nota, e spiegai ad Enrico che
stava proprio succedendo quello che stava scritto lì. Enrico non sembrava
160 tanto convinto, ma era ormai buio, e noi mezzo assiderati; ci lavammo le
mani, comperammo un po’ di castagnaccio e ce ne andammo a casa, lasciando
che l’elettrolisi continuasse per proprio conto.
Il giorno dopo trovammo ancora via libera. In dolce ossequio alla teoria,
il barattolo del catodo era quasi pieno di gas, quello dell’anodo era
165 pieno per metà: lo feci notare ad Enrico, dandomi più importanza che potevo,
e cercando di fargli balenare il sospetto che, non dico l’elettrolisi, ma
la sua applicazione come conferma alla legge delle proporzioni definite,
fosse una mia invenzione, frutto di pazienti esperimenti condotti nel segreto
della mia camera. Ma Enrico era di cattivo umore, e metteva tutto in
170 dubbio. «Chi ti dice poi che sia proprio idrogeno e ossigeno?» mi disse con
malgarbo. «E se ci fosse del cloro? Non ci hai messo del sale?»

2. apologo esopiano: un tipo di favola, caratterizzato da una spiccata finalità morale, di cui il greco Esopo (vedi P. 277) è il rappresentante più noto.