BREVE STORIA dell’autobiografia
Nel mondo antico non esiste l’autobiografia come genere codificato, e tuttavia è molto comune che l’autore parli di sé nelle sue opere e proponga il suo punto di vista: per esempio Erodoto (V secolo a.C.), il primo grande storico, mette sé stesso e i suoi sensi (vista e udito) a garanzia dell’autenticità della narrazione storica. Esistono altre opere che potrebbero avere caratteristiche che noi riteniamo autobiografiche: nell’antica Roma fioriva il genere satirico (Orazio e Giovenale, rispettivamente nel I secolo a.C. e nel II d.C.) e vanno ricordati i Commentarii di Cesare, con i quali riferiva al Senato l’andamento delle sue conquiste. La prima opera che possiamo considerare veramente autobiografica sono le Confessioni di Agostino (fine del IV secolo d.C.).
È soprattutto nella seconda parte dell’età moderna, quindi tra Settecento e Ottocento, che si sviluppa l’autobiografia in senso puro: ne sono un esempio i Mémoires di Carlo Goldoni, celebre commediografo veneziano, oppure la Vita di Vittorio Alfieri, tragediografo e poeta. Un modello fondamentale, in quel momento storico, furono le Confessioni del filosofo francese Jean-Jacques Rousseau (1712-1778).
Se l’autobiografia è un genere letterario antico che continua a essere presente lungo tutti i secoli, va detto che un momento fondamentale nella sua storia è l’entrata in scena della psicanalisi, a partire dagli studi del suo fondatore, Sigmund Freud (1856-1939), che ha dato agli intellettuali e agli scrittori gli strumenti per interrogarsi sul proprio essere e comprendere il funzionamento di alcuni meccanismi psichici, come la memoria. Le narrazioni autobiografiche del Novecento rinunciano quindi, in linea di massima, a coprire l’intera esistenza dell’essere umano e si concentrano su alcuni aspetti ritenuti interessanti, come l’infanzia.
Questo vale particolarmente per le autobiografie letterarie, cioè di scrittori e scrittrici che decidono di abbracciare consapevolmente il genere; al contrario, soprattutto in tempi molto recenti, fioriscono le autobiografie di personaggi famosi che decidono di raccontare la propria vita, sia per fare luce su alcuni aspetti di sé, sia per soddisfare la curiosità degli appassionati. Spesso questi testi non sono autobiografie in senso stretto, perché sono stese da autori professionisti (a volte citati esplicitamente, altre come ghost writer).
Il parlare di sé letterario ha assunto anche forme nuove, difficilmente catalogabili in modo rigido: un esempio potrebbe essere la straordinaria Lettera al padre di Kafka, un testo scritto nel 1919 in cui l’autore apre il suo cuore al genitore e cerca, per una volta, di dirgli tutto ciò che non è mai riuscito a esprimere.
Soprattutto attorno alla Seconda guerra mondiale, poi, sono diventate fondamentali le opere che tentavano di fare un bilancio dell’esperienza drammatica di quegli anni, da tutti i fronti: esempi significativi possono essere Se questo è un uomo di Primo Levi (vedi P. 533), I piccoli maestri (1964) di Luigi Meneghello o Il sergente nella neve (1953) di Mario Rigoni Stern. Meneghello, in particolare, è tornato più volte su spunti autobiografici, mostrando come questi possano aprire la strada verso una riflessione più ampia dell’esistenza: il suo capolavoro, in questo senso, rimane Libera nos a malo (1963).
