Dentro il TESTO

I temi

Insistenza e resistenza
Il testo mette in scena una vivace schermaglia amorosa tra «un dongiovanni da taverna» (come si espresse il critico Francesco De Sanctis) e una popolana assai vivace, decisa a elargire le proprie grazie soltanto a caro prezzo: prima manifestando disinteresse e spregio verso lo spasimante, al quale rinfaccia la propria (presunta) alta condizione sociale; poi pretendendo, se davvero vuole insistere, un impegno solenne a sposarla. Perché lei è una ragazza perbene, ci tiene a ribadire, e non vorrebbe mai che si gettasse discredito sul genere femminile a causa della sua spudoratezza.

L’epilogo della vicenda
Dopo il passo che abbiamo antologizzato, il contrasto prosegue per altri 90 versi. Il dialogo continua in termini molto simili a quelli che abbiamo visto, con continui botta e risposta dal ritmo vivace e dai toni accesi. Il finale, però, ha un che di inaspettato, nonostante la donna si sia sempre più avvicinata sentimentalmente all’amante. Leggiamo l’ultima strofa (vv. 156-160) in cui parla lei: «Meo sir, poi iuràstimi, eo tutta quanta incenno; / sono a la tua presenzia, da voi non mi difenno. / S’eo minespriso àioti, merzè, a voi m’arrenno. / A lo letto ne gimo, a la bonura, / ché chissa cosa n’è data in ventura» (Mio signore, poiché hai giurato di sposarmi, io ardo tutta quanta; sono alla tua presenza, da voi non mi difendo. Se io ti ho disprezzato, perdonatemi, mi arrendo a voi. Andiamocene a letto, finalmente, poiché questa cosa [il fatto che ci siamo incontrati] ci è capitata per nostra fortuna). Insomma, la fatica e l’assiduità dell’amante sono state premiate.

Lo stile

Un autore colto
Si tratta di un testo di tipo teatrale, da recitare o da cantare. La composizione, nelle sue rigorose simmetrie, alterna la dottrina del vassallaggio d’amore all’espressione del desiderio di conquistare una donna ritrosa ma non troppo, che di fatto conclude la scena con l’invito «A lo letto ne gimo, a la bonura» (Andiamocene a letto, finalmente). Il testo è stato a lungo considerato opera di un autore popolare sostanzialmente incolto, forse un giullare estraneo alla corte federiciana. In realtà gli studi più recenti hanno dimostrato il contrario: ai vocaboli di registro più colloquiale (li cavelli m’arritonno, v. 10; le femmine, c’ànno dura la testa, v. 31; le diverse forme lessicali siciliane come focora, v. 3, pàremo, v. 17, pàdreto, v. 23 ecc.) sono mescolati latinismi e provenzalismi, in modo da desublimare la relazione amorosa e ricondurla su binari del tutto fisici e prosaici.

 

Latinismi
v. 8 secolo saeculum
v. 12 sollazzo solacium
v. 13 orto hortus

 

Provenzalismi
v. 8 assembrare asembler
v. 12 diporto deport
v. 32 ammonesta amonestar

 
In tal modo l’oscillazione di tono tra colto e popolare non è conseguenza di un’incertezza dell’autore, ma è da intendersi come una consapevole scelta costruttiva del testo, in linea con il suo intento parodico e la sua voluta distanza dalle convenzioni della lirica illustre.

L’intento parodistico
Il tema del contrasto tra la donna riottosa e lo spasimante insistente si trova anche nella poesia occitanica, in componimenti denominati “pastorelle”, perché spesso in questi testi era una pastorella a essere oggetto di avances amorose da parte di un cavaliere. Lì, però, i due personaggi in genere appartenevano a classi sociali diverse (nobile lui, popolana lei). Insomma, Cielo d’Alcamo appare quale rimatore di indubbia abilità e cultura, che ben conosce i temi e i modi poetici della letteratura cortese, ma ne fa un uso chiaramente parodistico.