Il Settecento – L'opera: Vita 3 I testi Temi e motivi dei brani antologizzati T5 , capp. 2-4 Alle origini di un’indole impetuosa Epoca prima • un bambino malinconico e orgoglioso • i segni premonitori del carattere di Alfieri e della sua vocazione letteraria • il bisogno d’amore: l’episodio della sorella e dei novizi • l’intransigenza del fanciullo: l’episodio della reticella T6 , cap. 8 Le tappe di un viaggiatore in fuga dal mondo Epoca terza • un autoritratto in posa eroica, ma venato di autoironia • gli atteggiamenti ribellistici del giovane Alfieri: il rifiuto di incontrare Metastasio e il colloquio con Federico II • il gusto per i paesaggi estremi, tipico della temperie preromantica T7 , cap. 22 La fuga da Parigi Continuazione della quarta epoca • il resoconto della fuga fra eroico e rocambolesco • l’indole sdegnosa di Alfieri maturo, giunto su posizioni reazionarie • il rifiuto sprezzante della Rivoluzione francese T5 Alle origini di un’indole impetuosa , capp. 2-4 Epoca prima In questi capitoli l’autore ripercorre i primi momenti di cui conserva memoria. Dai racconti familiari e da aneddoti che riferiscono di atmosfere e piccoli eventi si delinea già il temperamento appassionato e umorale dell’uomo adulto. Un nato per essere fanciullo libero CAPITOLO SECONDO . Ripigliando dunque a parlare della mia primissima età, dico che di quella stupida vegetazione infantile, non mi è rimasta altra memoria se non quella d’uno zio paterno, il quale avendo io tre anni in quattr’anni, mi facea por ritto su un antico cassettone, e quivi molto accarezzandomi mi dava degli ottimi confetti. Io non mi ricordava più quasi punto di lui, né altro me n’era rimasto fuorch’egli portava certi scarponi riquadrati in punta. Molti anni dopo, la prima volta che mi vennero agli occhi certi stivali a tromba, che portano pure la scarpa quadrata a quel modo stesso dello zio morto già da gran tempo, né mai più veduto da me da che io aveva uso di Reminiscenze dell’infanzia 1 2 3 5 4 5 in questa definizione c’è tutto il rammarico di Alfieri per non aver ricevuto la preparazione culturale che desiderava, cosa che in età adulta lo costringerà a conquistarsi faticosamente, da solo, la padronanza delle tecniche necessarie per scrivere in lingua italiana. L’aggettivo va interpretato come “priva di vita e di entusiasmo”. Il vocabolo indica il semplice “vegetare”, cioè vivere senza consapevolezza di sé e del mondo. dai tre ai quattro anni. mi faceva mettere in piedi. quasi per niente. a forma di tromba. 1 stupida vegetazione infantile: stupida vegetazione 2 tre anni in quattr’anni: 3 mi facea por ritto: 4 quasi punto: 5 a tromba: >> pag. 471 ragione, la subitanea vista di quella forma di scarpe del tutto oramai disusata, mi richiamava ad un tratto tutte quelle sensazioni primitive ch’io aveva provate già nel ricevere le carezze e i confetti dello zio, di cui i moti ed i modi, ed il sapore perfino dei confetti mi si riaffacciavano vivissimamente ed in un subito nella fantasia. Mi sono lasciata uscir di penna questa puerilità, come non inutile affatto a chi specula sul meccanismo delle nostre idee, e sull’affinità dei pensieri colle sensazioni. Nell’età di cinque anni circa, dal mal de’ pondi fui ridotto in fine; e mi pare di aver nella mente tuttavia un certo barlume de’ miei patimenti; e che senza aver idea nessuna di quello che fosse la morte, pure la desiderava come fine di dolore; perché quando era morto quel mio fratello minore, avea sentito dire ch’egli era diventato un angioletto. Per quanti sforzi io abbia fatto spessissimo per raccogliere le idee primitive, o sia le sensazioni ricevute prima de’ sei anni, non ho potuto mai raccapezzarne altre che queste due. La mia sorella Giulia, ed io, seguitando il destino della madre, eramo passati dalla casa paterna ad abitare con lei nella casa del patrigno, il quale pure ci fu più che padre per quel tempo che ci stemmo. La figlia ed il figlio del primo letto rimasti, furono successivamente inviati a Torino, l’uno nel Collegio de’ Gesuiti, l’altra nel monastero; e poco dopo fu anche messa in monastero, ma in Asti stessa, la mia sorella Giulia, essendo io vicino ai sett’anni. E di quest’avvenimento domestico mi ricordo benissimo, come del primo punto in cui le facoltà mie sensitive diedero cenno di sé. Mi sono presentissimi i dolori e le lagrime ch’io versai in quella separazione di tetto solamente, che pure a principio non impediva ch’io la visitassi ogni giorno. E speculando poi dopo su quegli effetti e sintomi del cuore provati allora, trovo essere stati per l’appunto quegli stessi che poi in appresso provai quando nel bollore degli anni giovenili mi trovai costretto a dividermi da una qualche amata mia donna; ed anche nel separarmi da un qualche vero amico, che tre o quattro successivamente ne ho pure avuti finora; fortuna che non sarà toccata a tanti altri, che gli avranno forse meritati più di me. Dalla reminiscenza di quel mio primo dolore del cuore, ne ho poi dedotta la prova che tutti gli amori dell’uomo, ancorché diversi, hanno lo stesso motore. Rimasto dunque io solo di tutti i figli nella casa materna, fui dato in custodia ad un buon prete, chiamato don Ivaldi, il quale m’insegnò cominciando dal compitare e scrivere, fino alla classe quarta, in cui io spiegava non male, per quanto diceva il maestro, alcune vite di Cornelio Nipote, e le solite favole di Fedro. Ma 10 6 7 8 9 10 15 11 12 13 14 20 15 25 16 17 30 18 19 20 21 22 35 23 24 25 40 26 27 28 improvvisa. si riferisce alle primissime impressioni ricevute in vita dagli affetti familiari. i gesti. memoria. questo ricordo dell’infanzia. allude ai sensisti seguaci della dottrina del filosofo francese Étienne Bonnot de Condillac (1714-1780), il quale collocava nell’esperienza dei sensi la fonte di ogni conoscenza. dissenteria. in fin di vita. un fratello di Alfieri, morto in tenera età. eravamo (toscanismo). la madre dello scrittore aveva una figlia e un figlio nati da un precedente matrimonio. momento. il lessico risente della cultura illuministico-sensistica su cui l’autore si era formato: l’espressione si riferisce alla capacità di provare emozioni e sentimenti. casa (per sineddoche). riflettendo. successivamente. nell’impeto passionale. fino all’incontro con la contessa d’Albany, Alfieri ebbe una vita sentimentale decisamente movimentata, specialmente nella stagione dei viaggi. A questo periodo lo scrittore guarderà in seguito con severità, dando un giudizio morale negativo sul proprio carattere passionale. anche se, sebbene. origine. letteralmente “dividere in sillabe”, cioè muovere i primi passi nella lettura. Cornelio Nepote (ca 100-27 a.C.), storico romano, autore dell’opera , una raccolta di biografie di illustri personaggi romani e stranieri. fu un celebre scrittore romano (20 a.C. – 51 d.C. ca), autore di favole. 6 subitanea: 7 sensazioni primitive: 8 i moti: 9 fantasia: 10 questa puerilità: 11 a chi specula… colle sensazioni: 12 mal de’ pondi: 13 in fine: 14 quel mio fratello minore: 15 eramo: 16 La figlia… rimasti: 17 punto: 18 facoltà mie sensitive: facoltà sensitive 19 tetto: 20 speculando: 21 in appresso: 22 nel bollore: 23 qualche amata mia donna: 24 ancorché: 25 motore: 26 compitare: 27 Cornelio Nipote: De viris illustribus 28 Fedro: >> pag. 472 il buon prete era egli stesso ignorantuccio, a quel ch’io combinai poi dopo; e se dopo i nov’anni mi avessero lasciato alle sue mani, verisimilmente non avrei imparato più nulla. I parenti erano anch’essi ignorantissimi; e spesso udiva loro ripetere quella usuale massima dei nostri nobili di allora; che ad un Signore non era necessario di diventar un Dottore. Io nondimeno aveva per natura una certa inclinazione allo studio, e specialmente dopo che uscì di casa la sorella, quel ritrovarmi in solitudine col maestro mi dava ad un tempo malinconia e raccoglimento. CAPITOLO TERZO . Ma qui mi occorre di notare un’altra particolarità assai strana, quanto allo sviluppo delle mie facoltà amatorie. La privazione della sorella mi avea lasciato addolorato per lungo tempo, e molto più serio in appresso. Le mie visite a quell’amata sorella erano sempre andate diradando, perché essendo sotto il maestro, e dovendo attendere allo studio, mi si concedeano solamente nei giorni di vacanza o di festa, e non sempre. Una tal quale consolazione di quella mia solitudine mi si era andata facendo sentire a poco a poco nell’assuefarmi ad andare ogni giorno alla chiesa del Carmine attigua alla nostra casa; e di sentirvi spesso della musica, e di vedervi uffiziare quei frati, e far tutte le ceremonie della messa cantata, processione, e simili. In capo a più mesi non pensavo più tanto alla sorella; ed in capo a più altri, non ci pensava quasi più niente, e non desiderava altro che di essere condotto mattina e giorno al Carmine. Ed eccone la ragione. Dal viso di mia sorella in poi, la quale avea circa nov’anni quando uscì di casa, io non aveva più veduto usualmente altro viso di ragazza né di giovane, fuorché certi fraticelli novizj del Carmine, che poteano avere tra i quattordici e sedici anni all’incirca, i quali coi loro roccetti assistevano alle diverse funzioni di chiesa. Questi loro visi giovenili, e non dissimili da’ visi donneschi, aveano lasciato nel mio tenero ed inesperto cuore a un di presso quella stessa traccia e quel medesimo desiderio di loro, che mi vi avea già impresso il viso della sorella. E questo insomma, sotto tanti e sì diversi aspetti, era amore; come poi pienamente conobbi e me ne accertai parecchi anni dopo, riflettendovi su; perché di quanto io allora sentissi o facessi nulla affatto sapeva, ed obbediva al puro istinto animale. Ma questo mio innocente amore per que’ novizj, giunse tant’oltre, che io sempre pensava ad essi ed alle loro diverse funzioni; or mi si rappresentavano nella fantasia coi loro devoti ceri in mano, servienti la Messa con viso compunto ed angelico, ora coi turiboli incensando l’altare; e tutto assorto in codeste imagini, trascurava i miei studj, ed ogni occupazione, o compagnia mi nojava. Un giorno fra gli altri, stando fuori di casa il maestro, trovatomi solo in camera, cercai ne’ due vocabolarj latino e italiano l’articolo frati; e cassata in 29 30 45 50 Primi sintomi di un carattere appassionato 31 55 32 60 33 65 34 35 36 70 37 75 38 39 40 nomi e aggettivi alterati (per esempio diminutivi e vezzeggiativi) sono presenti in tutta l’opera e rendono bene il tono confidenziale e autoironico con cui Alfieri parla di sé. capii. molto più triste nel periodo successivo. sotto la tutela di don Ivaldi. celebrare le funzioni religiose. forma meno comune per “rocchetti” (sopravesti bianche indossate dai religiosi). femminili. all’incirca. il bambino è immerso nella dimensione del vivere, mentre la riflessione sulla vita è prerogativa dell’adulto. Come i sensisti e Rousseau, anche Alfieri ritiene che le impressioni infantili siano autentiche perché derivano direttamente dai sensi, senza l’intervento delle facoltà razionali. serio. incensieri (piccoli recipienti, tenuti sospesi da tre catenelle, usati nelle funzioni religiose per bruciarvi l’incenso). cancellata. 29 ignorantuccio: 30 combinai: 31 molto più serio in appresso: 32 sotto il maestro: 33 uffiziare: 34 roccetti: 35 donneschi: 36 a un di presso: 37 di quanto… animale: 38 compunto: 39 turiboli: 40 cassata: >> pag. 473 ambidue quella parola, vi scrissi ; così credendomi di nobilitare, o che so io d’altro, quei novizietti ch’io vedeva ogni giorno, con nessun dei quali avea però mai favellato, e da cui non sapeva assolutamente quello ch’io mi volessi. L’aver sentito alcune volte con qualche disprezzo articolare la parola Frate, e con rispetto ed amore quella di , erano le sole cagioni per cui m’indussi a correggere quei dizionarj; e codeste correzioni fatte anche grossolanamente col temperino e la penna, le nascosi poi sempre con gran sollecitudine e timore al maestro, il quale non se ne dubitando, né a tal cosa certamente pensando, non se n’avvide poi mai. Chiunque vorrà riflettere alquanto su quest’inezia, e rintracciarvi il seme delle passioni dell’uomo, non la troverà forse né tanto risibile né tanto puerile, quanto ella pare. Da questi sì fatti effetti d’amore ignoto intieramente a me stesso, ma pure tanto operante nella mia fantasia, nasceva, per quanto ora credo, quell’umor malinconico, che a poco a poco s’insignoriva di me, e dominava poi sempre su tutte le altre qualità dell’indole mia. Fra i sette ed ott’anni, trovandomi un giorno in queste disposizioni malinconiche, occasionate forse anche dalla salute che era gracile anzi che no, visto uscire il maestro, e il servitore, corsi fuori del mio salotto che posto a terreno riusciva in un secondo cortile, dove eravi intorno intorno molt’erba. E tosto mi posi a strapparne colle mani quanta ne veniva, e ponendomela in bocca a masticarne e ingojarne quanta più ne poteva, malgrado il sapore ostico ed amarissimo. Io avea sentito dire non so da chi, né come, né quando, che v’era un’erba detta cicuta che avvelenava e faceva morire; io non avea mai fatto pensiero di voler morire, e poco sapea quel che il morire si fosse; eppure seguendo così un non so quale istinto naturale misto di un dolore di cui m’era ignota la fonte, mi spinsi avidissimamente a mangiar di quell’erba, figurandomi che in essa vi dovesse anco essere della cicuta. Ma ributtato poi dalla insopportabile amarezza e crudità di un tal pascolo, e sentendomi provocato a dare di stomaco, fuggii nell’annesso giardino, dove non veduto da chi che sia mi liberai quasi interamente di tutta l’erba ingojata; e tornatomene in camera me ne rimasi soletto e tacito con qualche doloruzzo di stomaco e di corpo. Tornò frattanto il maestro, che di nulla si avvide, ed io nulla dissi. Poco dopo si dové andare in tavola, e mia madre vedendomi gli occhi gonfi e rossi, come sogliono rimanere dopo gli sforzi del vomito, domandò, insistendo, e volle assolutamente saper quel che fosse; ed oltre i comandi della madre mi andavano anche sempre più punzecchiando i dolori di corpo, sì ch’io non potea punto mangiare, e parlar non voleva. Onde io sempre duro a tacere, ed a vedere di non mi scontorcere, la madre sempre dura ad interrogare e minacciarmi; finalmente osservandomi essa ben bene, e vedendomi in atto di patire, e poi le labbra verdiccie, che io non avea pensato di risciacquarmele, spaventatasi molto ad un tratto si alza, si approssima a me, mi parla dell’insolito color delle labbra, m’incalza e sforza a rispondere, finché vinto dal timore e dolore io tutto confesso piangendo. Mi vien dato subito un qualche leggero rimedio, e nessun altro male ne segue, fuorché per più giorni fui rinchiuso in camera per gastigo; e quindi nuovo pascolo, e fomento all’umor malinconico. 80 Padri 41 Padre 85 42 90 43 44 45 95 46 47 100 48 105 110 49 115 120 50 parlato. non avendone alcun sentore. la suggestiva espressione sottolinea come di questo amore fosse totalmente inconsapevole lui stesso, che pure lo provava così intensamente. si impadroniva. causate. piuttosto gracile. sgradevole. la stessa erba che uccise il filosofo greco Socrate. a cercare di non contorcermi. nuovo alimento e stimolo. 41 favellato: 42 non se ne dubitando: 43 amore… me stesso: 44 s’insignoriva: 45 occasionate: 46 gracile anzi che no: 47 ostico: 48 cicuta: 49 a vedere di non mi scontorcere: 50 nuovo pascolo, e fomento: >> pag. 474 CAPITOLO QUARTO . L’indole, che io andava intanto manifestando in quei primi anni della nascente ragione, era questa. Taciturno e placido, per lo più; ma alle volte loquacissimo e vivacissimo; e quasi sempre negli estremi contrarj; ostinato e restìo contro la forza, pieghevolissimo agli avvisi amorevoli; rattenuto più che da nessun’altra cosa dal timore d’essere sgridato; suscettibile di vergognarmi fino all’eccesso, e inflessibile se io veniva preso a ritroso. Ma, per meglio dar conto ad altrui ed a me stesso di quelle qualità primitive che la natura mi avea improntate nell’animo, fra molte sciocche istoriette accadutemi in quella prima età, ne allegherò due o tre di cui mi ricordo benissimo, e che ritrarranno al vivo il mio carattere. Di quanti gastighi mi si potessero dare, quello che smisuratamente mi addolorava, ed a segno di farmi ammalare, e che perciò non mi fu dato che due volte sole, egli era di mandarmi alla Messa colla reticella da notte in capo, assetto che nasconde quasi interamente i capelli. La prima volta ch’io ci fui condannato (né mi ricordo più del perché) venni dunque strascinato per mano dal maestro alla vicinissima chiesa del Carmine; chiesa abbandonata, dove non si trovavano mai quaranta persone radunate nella sua vastità; tuttavia sì fattamente mi afflisse codesto gastigo, che per più di tre mesi poi rimasi irreprensibile. Tra le ragioni ch’io sono andato cercando in appresso entro di me medesimo, per ben conoscere il fonte di un simile effetto, due principalmente ne trovai, che mi diedero intiera soluzione del dubbio. L’una si era, che io mi credeva gli occhi di tutti doversi necessariamente affissare su quella mia reticella, e ch’io dovea essere molto sconcio e diforme in codesto assetto, e che tutti mi terrebbero per un vero malfattore vedendomi punito così orribilmente. L’altra ragione si era, ch’io temeva di esser visto così dagli amati novizj; e questo mi passava veramente il cuore. Or mira, o lettore, in me omiccino il ritratto e tuo e di quanti anche uomoni sono stati o saranno; che tutti siam pur sempre, a ben prendere, bambini perpetui. Ma l’effetto straordinario in me cagionato da quel gastigo, avea riempito di gioja i miei parenti e il maestro; onde ad ogni ombra di mancamento, minacciatami la reticella abborrita, io rientrava immediatamente nel dovere, tremando. Pure, essendo poi ricaduto al fine in un qualche fallo insolito, per iscusa del quale mi occorse di articolare una solennissima bugia alla Signora Madre, mi fu di bel nuovo sentenziata la reticella; e di più, che in vece della deserta chiesa del Carmine, verrei condotto così a quella di S. Martino, distante da casa, posta nel bel centro della città, e frequentatissima su l’ora del mezzo giorno da tutti gli oziosi del bel mondo. Oimè, qual dolore fu il mio! pregai, piansi, mi disperai; tutto invano. Sviluppo dell’indole indicato da varj fattarelli 125 51 130 52 53 135 54 55 56 140 57 58 59 145 60 61 150 62 63 155 64 65 quasi sempre silenzioso, ma a volte molto vivace e loquace; sempre oscillante tra due estremi; caparbio e nello stesso tempo riottoso di fronte alla forza, arrendevole se trattato affettuosamente; trattenuto, più che da ogni altra cosa, dal timore di essere ripreso; capace di vergognarmi fino all’eccesso, e inflessibile quando venivo preso per il verso sbagliato. È la stessa descrizione che Alfieri dà di sé nel sonetto ( T4, p. 460). riferirò. al punto di. poco frequentata. così tanto mi addolorò. mantenni un comportamento impeccabile. l’origine. ripugnante e deforme. che tutti mi avrebbero considerato un vero mascalzone. mi feriva profondamente. a ben vedere. riprendevo subito a comportarmi in modo corretto e impeccabile. mi fu di nuovo inflitta la pena di indossare la reticella. sarei stato. Anche in seguito il condizionale presente è usato in luogo del condizionale passato, com’era d’uso nell’italiano antico. il ascendente sottolinea la passionalità di Alfieri. 51 Taciturno… a ritroso: Sublime specchio di veraci detti ► 52 allegherò: 53 a segno di: 54 abbandonata: 55 sì… mi afflisse: 56 rimasi irreprensibile: 57 il fonte: 58 sconcio e diforme: 59 che tutti… malfattore: 60 mi passava veramente il cuore: 61 a ben prendere: 62 rientrava… dovere: 63 mi fu… reticella: 64 verrei: 65 pregai, piansi, mi disperai: climax >> pag. 475 Quella notte, ch’io mi credei dover essere l’ultima della mia vita, non che chiudessi mai occhio, non mi ricordo mai poi di averne in nessun altro mio dolore passata una peggio. Venne alfin l’ora; inreticellato, piangente, ed urlante mi avviai stiracchiato dal maestro pel braccio, e spinto innanzi dal servitore per di dietro; e in tal modo traversai due o tre strade, dove non era gente nessuna; ma tosto che si entrò nelle vie abitate, che si avvicinavano alla piazza e chiesa di S. Martino, io immediatamente cessai dal piangere e dal gridare, cessai dal farmi strascinare; e camminando anzi tacito, e di buon passo, e ben rasente al prete Ivaldi, sperai di passare inosservato nascondendomi quasi sotto il gomito del talare maestro, al di cui fianco appena la mia staturina giungeva. Arrivai nella piena chiesa, guidato per mano come orbo ch’io era; che in fatti chiusi gli occhi all’ingresso, non gli apersi più finché non fui inginocchiato al mio luogo di udir la messa; né, aprendoli poi, li alzai mai a segno di potervi distinguere nessuno. E rifattomi orbo all’uscire, tornai a casa con la morte in cuore, credendomi disonorato per sempre. Non volli in quel giorno mangiare, né parlare, né studiare, né piangere. E fu tale in somma e tanto il dolore, e la tensione d’animo, che mi ammalai per più giorni; né mai più si nominò pure in casa il supplizio della reticella, tanto era lo spavento che cagionò alla amorosissima madre la disperazione ch’io ne mostrai. Ed io parimenti per assai gran tempo non dissi piú bugia nessuna; e chi sa s’io non devo poi a quella benedetta reticella l’essere riuscito in appresso un degli uomini i meno bugiardi ch’io conoscessi. Altra storietta. Era venuta in Asti la mia nonna materna, matrona di assai gran peso in Torino, vedova di uno dei barbassori di corte, e corredata di tutta quella pompa di cose, che nei ragazzi lasciano grand’impressione. Questa, dopo essere stata alcuni giorni con la mia madre, per quanto mi fosse andata accarezzando moltissimo in quel frattempo, io non m’era per niente addimesticato con lei, come selvatichetto ch’io m’era; onde, stando essa poi per andarsene, mi disse ch’io le doveva chiedere una qualche cosa, quella che più mi potrebbe soddisfare, e che me la darebbe di certo. Io, a bella prima per vergogna e timidezza ed irresoluzione, ed in seguito poi per ostinazione e ritrosia, incoccio sempre a rispondere la stessa e sola parola: ; e per quanto poi ci si provassero tutti in venti diverse maniere a rivoltarmi per pure estrarre da me qualcosa altro che non fosse quell’ineducatissimo , non fu mai possibile; né altro ci guadagnarono nel persistere gl’interrogatori, se non che da principio il veniva fuori asciutto, e rotondo; poi verso il mezzo veniva fuori con voce dispettosa e tremante ad un tempo; ed in ultimo, fra molte lagrime, interrotto da profondi singhiozzi. Mi cacciarono dunque, come io ben meritava, dalla loro presenza, e chiusomi in camera, mi lasciarono godermi il mio così desiderato , e la nonna partì. Ma quell’istesso io, che con tanta pertinacia aveva ricusato ogni dono legittimo della nonna, più giorni addietro le avea pure involato in un suo forziere aperto un ventaglio, che poi celato nel mio letto, mi fu ritrovato dopo alcun tempo; ed io allora dissi, com’era vero, di averlo preso per darlo poi alla mia sorella. Gran punizione mi toccò giustamente per codesto furto; ma, benché il ladro sia alquanto peggior del bugiardo, pure non mi 160 66 67 165 68 170 175 180 69 70 185 71 Niente 190 Niente Niente 195 Niente 72 73 200 il neologismo assume qui un valore tragicomico. trascinato controvoglia. l’aggettivo indica letteralmente chi indossa gli abiti religiosi, ma serve qui semplicemente a ricordare che l’educatore di Alfieri era un sacerdote. notabili. non avevo per nulla familiarizzato. incappo. rifiutato. rubato. 66 inreticellato: 67 stiracchiato: 68 talare: 69 barbassori: 70 non m’era… addimesticato: 71 incoccio: 72 ricusato: 73 involato: >> pag. 476 venne più né minacciato né dato il supplizio della reticella; tanta era più la paura che aveva la mia madre di farmi ammalare di dolore, che non di vedermi riuscire un po’ ladro; difetto, per il vero, da non temersi poi molto, e non difficile a sradicarsi da qualunque ente non ha bisogno di esercitarlo. Il rispetto delle altrui proprietà, nasce, e prospera prestissimo negl’individui che ne posseggono alcune legittime loro. E qui, a guisa di storietta, inserirò pure la mia prima Confessione spirituale, fatta tra i sette ed otto anni. Il maestro mi vi andò preparando, suggerendomi egli stesso i diversi peccati ch’io poteva aver commessi, dei più de’ quali io ignorava persino i nomi. Fatto questo preventivo esame in comune col don Ivaldi, si fissò il giorno in cui porterei il mio fastelletto ai piedi del Padre Angelo, carmelitano, il quale era anche il confessore di mia madre. Andai: né so quel che me gli dicessi, tanta era la mia natural ripugnanza e il dolore di dover rivelare i miei segreti fatti e pensieri ad una persona ch’io appena conosceva. Credo, che il frate facesse egli stesso la mia confessione per me; fatto si è che assolutomi m’ingiungeva di prosternarmi alla madre prima di entrare in tavola, e di domandarle in tal atto pubblicamente perdono di tutte le mie mancanze passate. Questa penitenza mi riusciva assai dura da ingojare; non già, perché io avessi ribrezzo nessuno di domandar perdono alla madre; ma quella prosternazione in terra, e la presenza di chiunque vi potrebbe essere, mi davano un supplizio insoffribile. Tornato dunque a casa, salito a ora di pranzo, portato in tavola, e andati tutti in sala, mi parve di vedere che gli occhi di tutti si fissassero sopra di me; onde io chinando i miei me ne stavo dubbioso e confuso ed immobile, senza accostarmi alla tavola, dove ognuno andava pigliando il suo luogo; ma non mi figurava per tutto ciò, che alcuno sapesse i segreti penitenziali della mia confessione. Fattomi poi un poco di coraggio, m’inoltro per sedermi a tavola; ed ecco la madre con occhio arcigno guardandomi, mi domanda se io mi ci posso veramente sedere; se io ho fatto quel ch’era mio dovere di fare; e se in somma io non ho nulla da rimproverare a me stesso. Ciascuno di questi quesiti mi era una pugnalata nel cuore; rispondeva certamente per me l’addolorato mio viso; ma il labbro non poteva proferir parola; né ci fu mezzo mai, che io volessi non che eseguire, ma né articolare né accennar pure la ingiuntami penitenza. E parimente la madre non la voleva accennare, per non tradire il traditor confessore. Onde la cosa finì, che ella perdé per quel giorno la prosternazione da farglisi, ed io ci perdei il pranzo, e fors’anco l’assoluzione datami a sì duro patto dal Padre Angelo. Non ebbi con tutto ciò per allora la sagacità di penetrare che il Padre Angelo aveva concertato con mia madre la penitenza da ingiungermi. Ma il core servendomi in ciò meglio assai dell’ingegno, contrassi d’allora in poi un odietto bastantemente profondo pel suddetto frate, e non molta propensione in appresso per quel sagramento ancorché nelle seguenti confessioni non mi si ingiungesse poi mai più nessuna pena pubblica. 74 205 210 75 215 76 77 220 78 79 225 230 80 235 81 82 240 persona. fascio, peso. dopo avermi dato l’assoluzione. inginocchiarmi. posto. immaginavo. non solo eseguire, ma neppure nominare la penitenza che mi era stata imposta. l’astuzia di comprendere. concordato. 74 ente: 75 fastelletto: 76 assolutomi: 77 prosternarmi: 78 luogo: 79 figurava: 80 non che eseguire… penitenza: 81 la sagacità di penetrare: 82 concertato: >> pag. 477 Dentro il testo I contenuti tematici Già da questi primi passi – in cui Alfieri, alla ricerca dei ricordi della sua infanzia, rievoca piccoli aneddoti e l’eco di alcune atmosfere e sensazioni – le intenzioni dello scrittore risultano chiarissime: interpretare sé stesso con sguardo distaccato e ironico; ripercorrere il filo del tempo a caccia dei segnali che preannunciano la sua futura indole di uomo adulto; rendere la propria biografia specchio dell’animo umano in genere, così che il lettore possa dedurre dall’analisi dei suoi ricordi le dinamiche generali che governano i caratteri più diversi. Le intenzioni dello scrittore Alfieri torna al tempo della sua (rr. 2-3) e rammenta una preziosa gamma di (r. 11) che riaffiorano inaspettatamente alla memoria mediante la vista di un particolare apparentemente insignificante: un paio di scarpe simili a quelle che calzava suo zio. L’osservazione di Alfieri è estremamente moderna, poiché coglie come la memoria umana conservi non solo ricordi di fatti e persone, ma anche sensazioni particolari capaci di rievocare precise atmosfere (si troverà qualcosa di analogo nel ciclo romanzesco dello scrittore francese novecentesco Marcel Proust, il cui protagonista-narratore ritrova alcuni fondamentali ricordi e atmosfere dell’infanzia assaggiando casualmente una , un dolce che, proprio come le scarpe quadrate di cui parla Alfieri, gli riporta alla mente un passato che credeva dimenticato per sempre). A partire dal recupero di questa sensazione di familiare dolcezza trae origine una pagina di cristallina intimità, che, in accordo con le teorie sensistiche, rivela l’ (r. 15), dimostrando che la razionalità ha origine dalle impressioni raccolte dai sensi. Il contenuto di questo ricordo, infatti, non è costituito da parole o fatti, ma da sensazioni del gusto (il dolce dei confetti) e del tatto (le carezze dello zio al bambino). stupida vegetazione infantile sensazioni primitive Alla ricerca del tempo perduto madeleine affinità dei pensieri colle sensazioni Le sensazioni primitive Alla partenza della sorella Alfieri prova sofferenza e smarrimento, sentendo nell’animo una (r. 53) che lo lascia (rr. 53-54). Ma il suo spirito è presto distolto dalla nuova attrazione per i (r. 65), che colpiscono la sua immaginazione e colmano, seppure a livello irrazionale, quel confuso bisogno di amore e di figure di riferimento di cui il bambino si sente privo. Questo (r. 73) occuperà in poco tempo tutto l’animo del giovane Alfieri, al punto che – ricorda a distanza di tanti anni – (rr. 76-78): osservazione che ancora una volta ha lo scopo di preannunciare il carattere maturo del narratore. Poco più avanti segue infatti una lunga nota didascalica in cui in quell’amore inconsapevole lo scrittore vede un segno premonitore della sua malinconia di adulto, che lo renderà solitario e inquieto. privazione addolorato per lungo tempo, e molto più serio in appresso fraticelli innocente amore tutto assorto in codeste imagini, trascurava i miei studj, ed ogni occupazione, o compagnia mi nojava Il bisogno d’amore L’infanzia di Alfieri contiene anche le prime tracce dello spirito antinobiliare e antitirannico che animerà lo scrittore nel corso di tutta la sua esistenza. Ricordando che i (rr. 46-48), egli muove un’evidente critica alla nobiltà da cui proviene, giudicando negativamente la chiusura mentale di un ceto sociale arroccato su sé stesso e disinteressato alla cultura (non a caso uno dei primi obiettivi del giovane Alfieri sarà la fuga dall’ambiente chiuso e provinciale del regno sabaudo). Analogamente, nel rifiuto di sottoporsi alla penitenza imposta dal confessore ( , rr. 215-216) si avvertono i primi indizi di uno spirito libero, cui l’idea di inchinarsi, fosse pure davanti alla madre, ripugna totalmente. parenti erano anch’essi ignorantissimi; e spesso udiva loro ripetere quella usuale massima dei nostri nobili di allora; che ad un Signore non era necessario di diventar un Dottore assolutomi m’ingiungeva di prosternarmi alla madre prima di entrare in tavola Le origini dello spirito antitirannico >> pag. 478 Nel quarto capitolo, l’episodio della reticella, castigo a cui il bambino viene condannato due volte, dimostra quanto l’autore tenga alla sua immagine pubblica e alla considerazione di sé, sia per la paura di apparire un (rr. 144-145), sia per il terrore di (r. 146), per cui prova un amore innocente e fantasioso. L’aneddoto, in questo caso, consente all’autore, oltre che di fornire il perfetto ritratto di un bambino orgoglioso, anticipatore del futuro uomo sdegnoso, anche di proporre una riflessione più universale sulla natura perennemente fanciullesca di ogni individuo ( , r. 148). malfattore esser visto così dagli amati novizj che tutti siam pur sempre, a ben prendere, bambini perpetui La reticella Le scelte stilistiche La lettura della di Alfieri è gradevole anche per il lettore di oggi in virtù della sua sintassi regolare, caratterizzata da periodi di ragionevole estensione e da una costruzione delle frasi per lo più lineare, ben lontana dall’ampollosità retorica di molta letteratura settecentesca. Alfieri preferisce in genere il procedimento paratattico*, che rende la prosa piana e scorrevole; inoltre la scelta di dividere il testo in capitoli dalle dimensioni contenute gli permette di dare rilievo ai momenti che ritiene più significativi per costruire, attraverso la rievocazione del passato, l’immagine complessa del proprio temperamento. Il lessico è lontano da quello aulico delle tragedie: l’autore opta qui per scelte più colloquiali, che instaurano con il lettore un immediato clima di intimità, particolarmente adatto alla confessione e al racconto di sé. Alla creazione di questa atmosfera contribuisce l’uso frequente dei nomi alterati (vezzeggiativi e diminutivi ). Il tono più volte autoironico, e generalmente bonario, sottolinea invece i comportamenti eccessivi e le reazioni esagerate del protagonista. Vita in primis Uno stile colloquiale e autoironico Verso le competenze COMPRENDERE Suddividi il testo in sequenze e assegna a ognuna un titolo. 1 Quali sono i primi ricordi di infanzia che ha Alfieri? 2 Come e perché Vittorio bambino corregge i dizionari? 3 Chi è ? 4 Padre Angelo ANALIZZARE Sottolinea gli aggettivi che lo scrittore attribuisce al proprio carattere, dividendoli tra quelli che si riferiscono a pregi e quelli che rimandano a difetti. 5 Aggettivi riferiti a pregi Aggettivi riferiti a difetti Rintraccia i passi in cui Alfieri motiva la scelta di raccontare gli aneddoti della propria vita. 6 Nel testo sono presenti molti diminutivi e vezzeggiativi: rintracciali e spiega quale funzione hanno di volta in volta. 7 INTERPRETARE Commenta l’episodio della : perché essa suscita una tale repulsione nel bambino? Quali sentimenti e paure provoca in lui? 8 reticella Spiega quali tratti del carattere del protagonista rivelano gli episodi del tentato suicidio attraverso l’ingestione di erbe e del rifiuto di chiedere una cosa gradita alla nonna materna. 9 PRODURRE Descrivi, in un testo espositivo di circa 15 righe, il carattere di Alfieri per come emerge complessivamente da questi ricordi di infanzia. 10