Finestra sul CONTEMPORANEO Alfieri & Cesare Pavese Specchiarsi sulla pagina: amore o denigrazione di sé Alfieri maestro della scrittura autobiografica Non manca, ancora oggi, nella programmazione dei teatri italiani, qualche rappresentazione delle tragedie di Alfieri: sono imprese rischiose visto che, per molti aspetti, i suoi capolavori appaiono lontani dal nostro gusto, caratterizzati come sono da un linguaggio classicheggiante che li rende difficili non solo sulla pagina, ma anche sulla scena. Il mito di Alfieri, lievitato durante l’Ottocento risorgimentale, resiste infatti ancora nel Novecento; la sua concezione dell’arte, libera e affrancata dai condizionamenti del potere, non ha smesso di affascinare gli scrittori italiani, in particolare quelli che hanno avvertito una personale . inadeguatezza rispetto ai propri tempi Tale aspirazione si coglie in uno degli autori italiani del secolo scorso che maggiormente ha ricercato un costante e tormentato : Cesare Pavese. Desideroso, al pari di Alfieri, di rinnovare la cultura italiana, aprendola a prospettive nuove, estraneo agli orientamenti artistici dominanti, ossessionato da un’ambizione inappagata di affermarsi ed emergere, Pavese ha espresso nella propria opera letteraria un profondo , un’inquietudine da perenne adolescente che insegue una maturità impossibile: la pagina scritta costituisce per lui l’ a fronte di un’esistenza percepita come impraticabile. confronto con la propria interiorità disagio esistenziale unico miraggio di salvezza e redenzione La vita breve e tragica di Cesare Pavese Nato nel a Santo Stefano Belbo, nelle , in provincia di Cuneo, Pavese compie gli studi a Torino, dove risiedeva la famiglia, di estrazione piccolo-borghese. Frequenta il liceo classico “D’Azeglio” e qui conosce futuri intellettuali come Norberto Bobbio, Massimo Mila, Franco Antonicelli, uniti in sodalizio intorno alla figura di Augusto Monti, professore di orientamento antifascista, amico di personalità avverse al regime mussoliniano come Gramsci e Gobetti. Laureatosi in Lettere nel 1930 con una tesi sul poeta americano ottocentesco , Pavese intraprende una fitta di autori in lingua inglese: particolarmente apprezzata è la sua versione di , celebre romanzo di Herman Melville. Nel 1934 inizia la collaborazione con la casa editrice fondata dall’amico e dirige la rivista “La Cultura”, ma l’anno dopo viene arrestato per la sua vicinanza agli ambienti antifascisti torinesi. 1908 Langhe Walt Whitman attività di traduttore Moby Dick Giulio Einaudi In realtà Pavese è poco interessato alla politica, anzi è iscritto al Partito nazionale fascista e manifesta una certa simpatia per Mussolini. Tuttavia, la polizia del regime lo sorprende in possesso di alcune lettere affidategli da una militante comunista e viene pertanto condannato al per otto mesi, tra il 1935 e il 1936. In questo periodo inizia la stesura di un diario che lo accompagnerà fino alle fine dei suoi giorni e scrive la raccolta poetica , che esce nel : le liriche che la compongono sono caratterizzate da versi lunghi che, con una cadenza narrativa, esprimono l’ dell’autore , vista come un luogo d’origine e di salvezza, cellula di purezza adolescenziale da contrapporre al mondo della città, simbolo della solitudine e della corruzione della vita adulta. confino in Calabria Lavorare stanca 1936 amore per la campagna Rientrato a Torino, Pavese intensifica la scrittura di racconti e viene assunto presso l’Einaudi; nel 1941 dà alle stampe il primo romanzo, , a cui segue, l’anno successivo, un altro romanzo, . Dopo aver lavorato per qualche mese a Roma, dove si era trasferita la sede dell’Einaudi, ritorna a Torino nel 1943, subito all’indomani della caduta di Mussolini. Dopo l’8 settembre, si rifugia nel Monferrato: qui si avvicina alla religione e approfondisce i suoi . A guerra finita, prende la tessera del Partito comunista, ma senza convinzione: sente di essere inviso agli intellettuali che hanno partecipato alla Resistenza, mentre lui ha preferito rimanere nella . Al conflitto vissuto da spettatore, in una solitudine sofferta, è dedicato il romanzo che esce nel 1948, insieme al romanzo breve , sotto il titolo comune . Paesi tuoi La spiaggia interessi per il mito “zona grigia” del disimpegno La casa in collina Il carcere Prima che il gallo canti Chiari si colgono anche nelle opere successive: i racconti della raccolta (1949) sono incentrati sulla difficoltà nei rapporti tra i sessi; il romanzo (1949) racconta l’esperienza di tre intellettuali che sperimentano la condizione, innocente e selvaggia, della campagna, e quella, seducente, mondana ma anche degenerante, della città; nel romanzo (1950), probabilmente il capolavoro dell’autore, il protagonista e narratore evoca, in un gioco complesso di piani temporali, la propria infanzia vissuta tra le Langhe, dove ora è tornato dopo aver trascorso molti anni da emigrante in America. risvolti autobiografici La bella estate Il diavolo sulle colline La luna e i falò Tuttavia, il successo letterario non rasserena Pavese, da sempre assediato da un logorante sentimento di inadeguatezza e da . L’isolamento e le ultime accentuano in lui la percezione di un’esistenza irrimediabilmente condannata allo scacco e del tempo trascorso inutilmente, svanito in un’infinità di fantasie irrealizzate. Nell’ lo scrittore mette in pratica il gesto più volte rinviato, suicidandosi con il sonnifero nella camera di un albergo torinese. Il suo ultimo messaggio, lasciato ai posteri, recita così: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». oscure pulsioni di morte delusioni amorose agosto del 1950 >> pagina 619 La scelta del diario Difficile dire se allo spessore autobiografico di tutta l’opera di Pavese contribuisca – e se sì, in che misura – la suggestione delle letture alfieriane, da lui avidamente intraprese sin dagli anni liceali. Di sicuro, l’esigenza di scrivere di sé, sia attraverso il filtro romanzesco sia direttamente affidando la propria testimonianza alle pagine di un diario, scaturisce da un . Va tuttavia sottolineato che Pavese non sceglie di seguire il modello dell’amato letterato astigiano: non opta infatti per la struttura compiuta e, in fondo, autocelebrativa dell’autobiografia, ma per la misura più confidenziale e immediata di una come quella, appunto, del diario. bisogno di meditazione e di intima confessione in toto scrittura privata Nella Alfieri poté dar libero sfogo a quell’amor proprio dalle chiare venature narcisistiche che pervade tutta la sua opera letteraria: in un’epoca che pullulava di scrittori allo specchio (basti ricordare i di Goldoni o le di Rousseau), egli intendeva trasmettere a posteriori ai lettori l’immagine di un uomo dalla natura eccezionale. Ciò non significa, come abbiamo visto, che egli volesse monumentalizzarsi in un’opera di semplice propaganda di sé stesso, ma le disavventure e i difetti della propria indole che raccontò e descrisse sono comunque funzionali allo scopo della . Anche quando insisteva nella perlustrazione della propria interiorità, lo faceva assegnando un valore emblematico alla propria esistenza e ponendosi al centro della scena, con il che era connaturato all’uomo così come allo scrittore Alfieri: «Il parlare – ammette nell’introduzione alla –, e molto più lo scrivere di sé stesso, nasce senza alcun dubbio dal molto amor di sé stesso. […] Io perciò ingenuamente confesso, che allo stendere la mia propria vita inducevami [mi induceva], misto forse ad alcune altre ragioni, ma vie più gagliarda [molto più forte] d’ogni altra, l’amore di me medesimo». Vita Mémoires Confessioni costruzione del personaggio temperamento teatrale Vita Caspar David Friedrich, , 1808-1810. Berlino, Alte Nationalgalerie. Monaco in riva al mare >> pagina 620 Una scrittura contro di sé Questa auto-fascinazione manca del tutto nelle pagine che Pavese stende dal 1935 al 1950, anno della sua morte, e che egli stesso intitola , in vista di un’eventuale pubblicazione futura. Fra le sue carte giovanili si trova, del resto, una breve nota, databile 1927, che contiene una vera e propria dichiarazione d’intenti, ovvero il desiderio di «legare insieme i frammenti della mia vita»: questa disposizione alla scrittura autobiografica, però, si traduce in realtà solo a partire dal confino in Calabria. Il mestiere di vivere A differenza di Alfieri, Pavese scrive di sé per scrutarsi. O addirittura per punirsi: nato dal disprezzo provato per le proprie inadeguatezze, il suo diario appare, per usare le parole del critico Roberto Gigliucci, come «un ». La sua autoanalisi è infatti spietata e funziona come una sorta di assillante sonda critica del proprio operato e delle proprie insoddisfazioni. Rovesciando l’archetipo del suo illustre corregionale, egli si serve di contro di sé che non ammette indulgenze e suona anzi come , oscillando tra sfoghi vittimistici e propositi volontaristici. Alcuni suoi pensieri dimostrano chiaramente tale atteggiamento; il primo che leggiamo, risalente al maggio del 1926, è addirittura precedente alla stesura del diario mentre i tre successivi sono della fine degli anni Trenta: monumento all’autodenigrazione una scrittura autopersecutoria Perché temo tanto la penna e il tavolino? Eppure, e me lo debbo ficcar bene in testa, se voglio riuscire grande debbo durare a comporre di mio e tradurre per almeno sei ore al giorno. Il resto della giornata passando studiando o sui libri stampati o sulla vita. E, se dopo sei o sette anni non avrò ancora concluso nulla, non l’avrò ancora il diritto di serrarmi torvo nella delusione. Dovrò semplicemente raddoppiare 5 le ore di lavoro e finalmente confessarmi d’aver sbagliato mestiere. 13 giugno 1938 Che cosa c’è di più puro stile alfieriano che questa lettera? Che tutto il mio 1 contegno in questa storia? E tutti i rovelli, gli schianti, gli urli, ecc.? […] 10 4 novembre 1938 Siccome tutti gli stati passionali hanno un loro chimismo deterministico che 2 trasporta per gioco di causa-effetto a situazioni esasperanti subìte e contraddittorie e fintamente create da noi, bisognerà opporre a ogni compiacenza passionale una dura volontà di estirpamento – come un rullo compressore sull’erba – che ignori ogni deviazione e si compiaccia di sé. Voluttà per voluttà è altrettanto ricca 15 questa quanto la dispersione, e molto più sana. Il piacere di spezzare ogni catena deterministica di gioie od esasperazioni, per sé solo. […] 4 novembre 1938 Chi non ha avuto volontà dura, è il più deciso a conquistarsi questa potenza perché sa quanto essa valga (=Alfieri). 20 lo scrittore si riferisce a un’epistola inviata a Tina Pizzardo, la donna con la quale aveva avuto una sofferta relazione sentimentale. Che cosa… lettera: 1 carattere chimico. chimismo: 2 >> pagina 621 Un titano mancato Alle difficoltà dell’esistenza, ma anche a quelle legate al proprio lavoro di scrittore, Pavese cerca di reagire con . In particolare, nel primo appunto affiora in lui la forza di un impegno morale che ricorda quello assunto con sé stesso da Alfieri nel compiere tutti gli sforzi per diventare un importante autore tragico; un impegno sintetizzato nella celebre frase «volli, e volli sempre, e fortissimamente volli». Lo attanaglia il e lo affascina la tentazione del titanismo: lo scrittore insegue il desiderio di fare di sé un super-ego di suprema eticità civile, capace di superare i condizionamenti, sia interiori sia esteriori, per poter (rr. 16-17). plateale stoicismo terrore di essere mediocre spezzare ogni catena deterministica di gioie od esasperazioni Ma è proprio l’incapacità di realizzare questa ambizione a procurargli frustrazioni e sconforto: Pavese ama Alfieri e tutti gli uomini energici e volitivi come lui tanto più quanto sa di non essere – effettivamente – come loro e di trovarsi perennemente dibattuto all’interno di una tensione dialettica, . Aspira ad essere considerato dal prossimo (dalle donne, in particolare, con le quali intrattiene sempre rapporti complicati e irrisolti) come un uomo gagliardo, nobile e generoso, ma si ritrova sempre , vittima di un’eterna insoddisfazione: in molte lettere e nelle pagine del sembra quasi che Pavese, al termine della consueta spietata auto-diagnosi, finisca per crogiolarsi nella propria inettitudine, nel proprio essere caratterialmente flaccido e smidollato, un inetto incapace di compiere azioni importanti. a metà tra impegno e disimpegno, individualismo e collettivismo, irrazionalità e razionalità, destino e libertà prigioniero di un languore senza sbocco Mestiere di vivere Il resoconto di un fallimento esistenziale Quello di Pavese è un : anno dopo anno, la legge ineludibile della sofferenza lo ingabbia in una spirale senza altra via di fuga che non la soluzione estrema del suicidio, ultimo e coerente sigillo di un destino fallimentare. Queste altre note che presentiamo mostrano la sua necessità di fissare con la scrittura le fasi angosciose di un’inguaribile , che pare sfogarsi solo con una rabbiosa volontà di umiliarsi: esame di coscienza impietoso malattia dell’anima 24 aprile 1936 L’autodistruttore è un tipo, insieme più disperato e utilitario. L’autodistruttore si sforza di scoprire entro di sé ogni magagna, ogni viltà, e di favorire queste disposizioni all’annullamento, ricercandole, inebriandosene, godendole. L’autod. è in definitiva più sicuro di sé di ogni vincitore del passato; egli sa che il filo dell’attaccamento 5 all’indomani, al possibile, al prodigioso futuro, è un cavo più robusto – trattandosi dell’ultimo strattone – che non so quale fede o integrità. L’autodistr. è soprattutto un commediante e un padrone di sé. Egli non lascia nessuna opportunità di sentirsi e di provarsi. È un ottimista. Spera ogni cosa dalla vita, e si va accordando a rendere sotto le mani del caso futuro i suoni più acuti 10 o significativi. L’autodistrutt. non può sopportare la solitudine. Ma vive in un pericolo continuo; che lo sorprenda una smania di costruzione, di sistemazione, un imperativo morale. Allora soffre senza remissione, e potrebbe anche uccidersi. 15 15 gennaio 1938 Tu non sei nato olimpico e mai lo sarai: i tuoi sforzi sono inutili. Perché chi ha ceduto una sola volta al tumulto, può sempre cedere un’altra. Problema d’ingegneria: ogni ponte ha una portata di là dalla quale non regge. È questione di tempra. La volontà è soltanto la tensione della propria tempra congenita. Non si può 20 accrescerla di un’oncia. La tua salvezza – bel fioretto da offrirti a trent’anni – sta soltanto nella vigliaccheria, nel ritirarsi nel guscio, nel non correre il rischio. Ma se il rischio ti cerca? E quanto durerà il guscio? Sappi quest’altra cosa: per tremende che siano state sinora le prove, sei fatto 25 in modo che domani saranno anche più gravi. A te succede che cresce soltanto, con gli anni, la capacità di scatenarti, non quella di resistere. Perché il tuo guscio – oggi lo vedi chiaro – è sempre andato assottigliandosi, persino materialmente. Sei malato e disoccupato. Come migliaia d’altri, del resto. «Neppur l’orgoglio di sentirmi solo»: eri un bel 30 pesce, e il peggio è che lo sei ancora. Sei mai stato altro che quel bambino? 30 ottobre 1940 II dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l’aria. È impalpabile, sfugge a ogni presa e a ogni lotta; vive nel tempo, è la stessa cosa che il 35 tempo; se ha dei sussulti e degli urli, li ha soltanto per lasciar meglio indifeso chi soffre, negli istanti che seguiranno, nei lunghi istanti in cui si riassapora lo strazio passato e si aspetta il successivo. Questi sussulti non sono il dolore propriamente detto, sono istanti di vitalità inventati dai nervi per far sentire la durata del dolore vero, la durata tediosa, esasperante, infinita del tempo-dolore. Chi soffre è sempre 40 in stato d’attesa – attesa del sussulto e attesa del nuovo sussulto. Viene il momento che si preferisce la crisi dell’urlo alla sua attesa. Viene il momento che si grida senza necessità, pur di rompere la corrente del tempo, pur di sentire che accade qualcosa, che la durata eterna del dolore bestiale si è un istante interrotta – sia pure per intensificarsi. 45 Qualche volta viene il sospetto che la morte – l’inferno – consisterà ancora del fluire di un dolore senza sussulti, senza voce, senza istanti, tutto tempo e tutto eternità, incessante come il fluire del sangue in un corpo che non morirà più. 8 maggio 1950 È cominciata la cadenza del soffrire. Ogni sera, all’imbrunire, stretta al cuore 50 – fino a notte. 27 maggio 1950 Adesso, a modo mio, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola – suicidio. 55 17 agosto 1950 È la prima volta che faccio il consuntivo di un anno non ancor finito. Nel mio mestiere dunque sono re. In dieci anni ho fatto tutto. Se penso alle esitazioni di allora. Nella mia vita sono più disperato e perduto di allora. Che cosa ho messo insieme? 60 Niente. Ho ignorato per qualche anno le mie tare, ho vissuto come se non esistessero. Sono stato stoico. Era eroismo? No, non ho fatto fatica. E poi, al primo assalto dell’«inquieta angosciosa», sono ricaduto nella sabbia mobile. Da marzo mi ci dibatto. Non importano i nomi. Sono altro che nomi di fortuna, nomi casuali – se non quelli, altri? Resta che ora so qual è il mio più alto trionfo – e a questo trionfo 65 manca la carne, manca il sangue, manca la vita. Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono. Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò. 70 18 agosto 1950 Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più. >> pagina 623 Inadatto alla vita Un mito personale assilla Pavese: l’aspirazione a una virilità che gli è preclusa. Egli si sente condannato o, meglio, predestinato a soffrire (r. 14) come capita a una sorta di tipo antropologico, quello dell’ (r. 1), al quale sente di appartenere e che arriva addirittura a teorizzare in un ritratto-autoritratto di lucidità glaciale. La resurrezione della volontà costituisce per lui una chimera: la morte si configura come l’unica reazione all’impotenza che si crede capace di realizzare. senza remissione autodistruttore L’operazione di è capillare, come possiamo vedere nel pensiero scritto il 15 gennaio 1938: si sente inferiore, vigliacco, oggi come ieri e come domani. Si tratta di una nuda consapevolezza che lo porta a diffidare di ogni posa letteraria. L’antico modello alfieriano è lontano quando Pavese dichiara che (r. 33): , anzi è di per sé qualcosa di ignobile, un’esperienza (r. 34). smantellamento di sé il dolore non è affatto un privilegio soffrire non regala alcun compiacimento bestiale e feroce Nessuna soluzione oltre al suicidio Pavese percepisce questa condizione come una colpa. Gli appunti scritti nel 1950, poco prima di suicidarsi, danno a noi lettori la sensazione dell’ultima fiamma della candela, ormai inesorabilmente vicina a spegnersi: la discesa verso il gorgo della morte è scandita da messaggi sempre più brevi, fissati nella . Prossimo al punto più basso di questa discesa agli inferi, lo scrittore sente il bisogno di tracciare un bilancio, il (r. 57) di un anno (ma anche di una vita) che non terminerà. La morale che ne scaturisce è la necessità, fino ad allora rinviata, del gesto definitivo, grazie al quale – come gli eroi delle tragedie di Alfieri – possa, in modo paradossale e al tempo stesso velleitario, riaffermare la verità delle cose, senza le illusioni che falsamente le imbellettano. (r. 71): l’esistenza nel suo complesso, compresa la scrittura, che lo ha tenuto appeso alla vita. Alla fine non resta che l’ , nudo e definitivo come un’epigrafe, : , (r 72). paratassi perentoria della sentenza consuntivo Tutto questo fa schifo ultimo imperativo il silenzio Non scriverò più Édouard Manet, , 1881. Zurigo, Sammlung Bührle. Suicidio