Leochares
(Atene 390 -305 a.C. ca.)
(Atene 390 -305 a.C. ca.)
Artista preferito di Filippo II, padre di Alessandro Magno, e attivo tra il 375 e il 330 a.C. presso la corte macedone, Leochares è uno dei più celebri scultori ateniesi, cui spetta, oltre alla realizzazione di opere in marmo e in bronzo, anche un ritorno alla tecnica crisoelefantina fidiaca. Dopo la collaborazione al Mausoleo di Alicarnasso (vedi p. 184), infatti, intorno al 338 a.C. lo scultore realizza per conto di Filippo II una serie di statue-ritratto in oro e avorio destinate al tempio dedicato dal re a Olimpia (Philíppeion). Tuttavia, l’opera più nota dalle fonti è un gruppo scultoreo di Ganimede (124), coppiere degli dèi (colui che nei banchetti serviva da bere), rapito dall’aquila in cui si era trasformato Zeus. A parlarne è Plinio il Vecchio che fa emergere la capacità dell’artista nella rappresentazione delle emozioni dei personaggi divini.
L’Apollo del Belvedere (125) prende il nome dal cortile dei Musei Vaticani dove è conservata la copia più celebre dell’originale di Leochares, realizzato in bronzo intorno al 330 a.C.
La scultura, rinvenuta ad Anzio alla fine del XV secolo, resta una delle opere più famose dell’arte antica in quanto nel XVIII secolo venne innalzata da Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) a modello estetico della perfezione dell’arte greca, prima che si capisse che si trattava di una copia romana. Le braccia vennero integrate in un restauro del 1532 dello scultore Giovanni Montorsoli (vedi EDUCAZIONE CIVICA, p. 216) e, dopo essere state rimosse nel 1924 per restituire l’aspetto originale alla statua, furono rimontate definitivamente nel 1999 (126).
La scultura ritrae un Apollo giovane e sicuro di sé, stante e frontale, con la testa rivolta verso sinistra e lievemente sollevata, come già osservato nelle opere di Skopas. Le proporzioni allungate del corpo risentono invece dei modelli prassitelici, mentre inedita è la leggerezza che trasmette la figura, il cui peso grava esclusivamente sulla gamba destra aperta in un ampio passo, accompagnato dalla gamba sinistra arretrata e dal braccio sinistro aperto e sollevato a reggere l’arco che ha appena scoccato la freccia. La fascia che tiene la faretra è in parte nascosta dalla clamide che passa dietro la spalla e sopra l’avambraccio sinistro, in modo da creare un panneggio di sfondo che contrasta con le forme levigate del corpo nudo e che richiama il mantello del Lapìta nella metopa XXVII del Partenone (vedi p. 162).