La possente muscolatura del Galata suicida e le ciocche scomposte dei capelli rese con forte effetto chiaroscurale si ritrovano nell’altra scultura del donario, il Galata morente (147), conservata ai Musei Capitolini. La figura mostra la stessa tragicità del Galata suicida, trasmessa anche in questo caso dalla posa e dall’espressione del personaggio. Il guerriero è nudo a terra con il busto muscoloso piegato in avanti che accenna una rotazione visibile dalle pieghe della pelle sopra l’ombelico; il braccio destro puntato a terra è teso nell’ultimo tentativo di rialzarsi in contrasto con il braccio sinistro flesso, con cui il Galata morente tenta di tamponare una ferita, e la testa è chinata verso il basso, in chiaro atteggiamento di sofferenza e rassegnazione. A terra sono rappresentate le sue armi insieme a una tromba di guerra, mentre il collare (torque) non lascia dubbi sull’etnia del personaggio.

Galata morente. Scultura in marmo raffigurante un guerriero nudo, semi disteso a terra. L’uomo si appoggia sul braccio destro, è proteso in avanti con il busto inclinato, una gamba distesa e l’altra piegata e la testa china, il volto segnato dalla sofferenza. I capelli ricci incorniciano il viso, e un torque gli cinge il collo. Il corpo muscoloso presenta una ferita sul fianco. La posa suggerisce che il Galata cerchi di rialzarsi.
147. Galata morente, 230 a.C. ca., copia romana da originale in bronzo, marmo, h 73 cm. Roma, Musei Capitolini.

Níke di Samotracia

I forti contrasti chiaroscurali e l’accentuato movimento dello stile pergameno si ritrovano nella celebre scultura in marmo pario della Níke (148) rinvenuta nel 1863 sull’Isola di Samotracia, nell’Egeo settentrionale, e di poco successiva al Grande Donario pergameno (190-180 a.C. ca.).
Dedicata nel santuario dei Cabìri, divinità dell’oltretomba di origine orientale, la statua era posizionata sulla prua di una nave scolpita (149) e si rifletteva in una vasca d’acqua sottostante, per celebrare una vittoria navale ottenuta dai Rodii, alleati di Roma, contro il re seleucide Antioco III o, secondo una più recente ipotesi, la cattura romana del re Perseo di Macedonia. Lo scultore, forse di Rodi, raffigura la dea secondo un modello classicheggiante, ma rielaborato in ottica ellenistica, come mostra l’ampio avanzamento della gamba destra e il forte dinamismo determinato dall’imponenza delle ali, caratterizzate da morbide piume, e dal movimento della veste: i panneggi corposi e liberi al vento contrastano con le parti aderenti al corpo che producono un accentuato “effetto bagnato”. La distribuzione del corpo in obliquo proteso in avanti crea un forte contrasto tra le pieghe mosse e quelle aderenti al corpo e dà vita a un insistito slancio dal grande effetto scenografico nella figura della dea.

Níke di Samotracia. Scultura in marmo raffigurante una figura alata priva di testa e braccia, con le vesti aderenti al corpo e mosse dal vento. Le grandi ali spiegate sono scolpite con dettagli minuti nelle piume. Il panneggio fluido crea un senso di movimento, mentre il corpo è inclinato leggermente in avanti.
148. Níke di Samotracia, 190-180 a.C., marmo pario, h 328 cm. Parigi, Musée du Louvre.
Ricostruzione della Níke di Samotracia. Disegno schematico in bianco e nero che raffigura la statua della Níke alata in piedi sulla prua di una nave. La figura femminile, con vesti mosse dal vento, ha il braccio destro sollevato e le ali aperte, ricche di dettagli nelle piume. La nave presenta una prua ricurva ed elementi strutturali ben delineati.
149. Ricostruzione della Níke di Samotracia.

Laocoonte

La tradizione scultorea di Rodi continua fino all’età augustea (fine del I secolo a.C.-inizi del I secolo d.C.), come dimostra un gruppo scultoreo rinvenuto a Roma, sul colle Oppio, e identificato come il gruppo del Laocoonte (150), sacerdote troiano che si oppose all’introduzione del cavallo dentro le mura di Troia e per questo venne subitamente ucciso insieme a uno dei due figli da due serpenti marini inviati da Atena.
L’identificazione con il gruppo scultoreo descritto da Plinio il Vecchio, che assegna la realizzazione dell’opera a tre scultori rodii, Agesandro, Polidoro e Atenodoro, permette di associare la scuola di Rodi allo stile pergameno, che emerge soprattutto nelle forme del corpo e nell’espressione patetica di Laocoonte. Il volto è contratto, con la bocca aperta in una smorfia di dolore, ed è incorniciato dai forti chiaroscuri della barba e dei capelli che, insieme agli accentuati volumi muscolari, ricordano molto le rappresentazioni dei giganti del grande altare pergameno ma anche le teste dei clipei (scudi) del Foro di Augusto. Il patetismo del gruppo del Laocoonte, riscoperto nel 1506, diventerà esemplare per la scultura di Michelangelo e rimarrà un modello di riferimento per l’arte del Cinquecento e del Seicento (vedi EDUCAZIONE CIVICA, pag. 216).