«Ecco», disse il dottore delle orecchie battendomi la mano sulla spalla.
«Sei stato molto coraggioso, Stevie, ed è tutto finito.»
60 La settimana dopo mia madre chiamò un altro taxi, tornammo dal dottore
delle orecchie e mi ritrovai ancora una volta sdraiato su un fianco con
una salvietta assorbente sotto la testa. Ancora una volta il dottore delle
orecchie sparse odore di alcol – un odore al quale associo ancora, come
immagino facciano molti altri, dolore, malattia e terrore – e con esso tirò
65 fuori quell’ago lunghissimo. Ancora una volta mi assicurò che non avrebbe
fatto male e ancora una volta gli credetti. Non del tutto, ma abbastanza
da starmene tranquillo mentre mi infilava l’ago nell’orecchio.
Invece fece male. Quasi quanto la prima volta. Lo schiocco nella mia
testa fu più rumoroso, questa volta un baciarsi tra giganti («Risucchio di
70 faccia e giramento di lingue», come solevamo dire). «Ecco», disse l’infermiera
del dottore delle orecchie quando fu finito e io ero sdraiato sul lettino
a piangere in una pozza di pus liquido. «Fa solo un po’ male, ma tu non
vuoi rimanere sordo, vero? E comunque è tutto finito.»
Così credetti per cinque giorni, finché non arrivò un altro taxi. Tornammo
75 dal dottore delle orecchie. Ricordo il tassista che diceva a mia madre
che avrebbe accostato e ci avrebbe fatti scendere se non riusciva a far star
zitto quel marmocchio.
Ancora una volta ero sul lettino con il pannolino sotto la testa e la mamma
in sala d’aspetto con una rivista che probabilmente non era in grado di
80 leggere (o così piace immaginare a me). Ancora una volta l’odore pungente
dell’alcol e il dottore che si girava verso di me con un ago lungo come il
mio righello. Ancora una volta il sorriso, la manovra di avvicinamento,
l’assicurazione che questa volta non avrebbe fatto male.
Dai tempi della reiterata incisione del timpano subita quando avevo
85 sei anni, uno dei principi più saldi nella mia vita è stato il seguente: se mi
freghi una volta, hai da vergognarti tu; se mi freghi due volte, ho da vergognarmi
io; se mi freghi tre volte, abbiamo da vergognarci entrambi. La terza
volta che mi trovai sul lettino del dottore delle orecchie lottai e strillai
come uno scalmanato. Ogni volta che l’ago mi si avvicinava all’orecchio,
90 lo cacciavo indietro. Alla fine l’infermiera fece entrare mia madre in ambulatorio
e le due donne insieme riuscirono a tenermi fermo abbastanza
a lungo perché il medico mi conficcasse il suo ago nel timpano. Urlai così
a lungo e così forte che lo sento ancora. In verità, credo che quell’ultimo
grido echeggi ancora in qualche profonda valle della mia testa.
6
95 Nel freddo uggioso di qualche mese dopo, gennaio o febbraio 1954, se la
mia ricostruzione è giusta, il taxi tornò. Questa volta lo specialista non
era il dottore delle orecchie ma un dottore della gola. Di nuovo mia madre
si sedette in sala d’aspetto, di nuovo io mi sedetti su un lettino presidiato
da un’infermiera e di nuovo ci fu quell’odore penetrante di alcol, che ha
100 ancora la capacità di raddoppiarmi il battito cardiaco nello spazio di cinque
secondi.