Le nostre mani erano rozze e deboli ad un tempo, regredite, insensibili:
la parte meno educata dei nostri corpi. Compiute le prime fondamentali
esperienze del gioco, avevano imparato a scrivere e null’altro. Conoscevano
80 la stretta convulsa intorno ai rami degli alberi, su cui amavamo
arrampicarci per voglia naturale ed insieme (Enrico ed io) per confuso
omaggio e ritorno all’origine della specie; ma ignoravano il peso solenne
e bilanciato del martello, la forza concentrata delle lame, troppo prudentemente
proibite, la tessitura sapiente del legno, la cedevolezza simile e
85 diversa del ferro, del piombo e del rame. Se l’uomo è artefice, non eravamo
uomini: lo sapevamo e ne soffrivamo.
Il vetro del laboratorio ci incantava e ci intimidiva. Il vetro, per noi, era
ciò che non si deve toccare perché si rompe, e invece, ad un contatto più
intimo, si rivelava una materia diversa da tutte, di suo genere, piena di
90 mistero e di capriccio. È simile in questo all’acqua, che pure non ha congeneri:
ma l’acqua è legata all’uomo, anzi alla vita, da una consuetudine di
sempre, da un rapporto di necessità molteplice, per cui la sua unicità si nasconde
sotto la veste dell’abitudine. Il vetro, invece, è opera dell’uomo ed
ha storia più recente. Fu la prima nostra vittima, o meglio il primo nostro
95 avversario. Nel laboratorio della Crocetta c’era un tubo di vetro da lavoro,
di vari diametri, in mozziconi lunghi e corti, tutti coperti di polvere: accendemmo
un becco Bunsen e ci mettemmo a lavorare.
Piegare il tubo era facile. Bastava tenere fermo uno spezzone sulla fiamma:
dopo un certo tempo la fiamma diventava gialla, e simultaneamente
100 il vetro si faceva debolmente luminoso. A questo punto il tubo si poteva
piegare: la curva che si otteneva era ben lontana dalla perfezione, ma in
sostanza qualcosa avveniva, si poteva creare una forma nuova, arbitraria;
una potenza diventava atto, non era questo che intendeva Aristotele?
Ora, anche un tubo di rame o di piombo si può piegare, ma ci accorgemmo
105 presto che il tubo di vetro arroventato possedeva una virtù unica:
quando era diventato cedevole si poteva, allontanando rapidamente i due
tronconi freddi, tirarlo in filamenti molto sottili, anzi, sottili oltre ogni
limite, tali da essere trascinati verso l’alto dalla corrente d’aria calda che
saliva dalla fiamma. Sottili e flessibili, come la seta. Ma allora, dove era scomparsa
110 la rigidità spietata del vetro massiccio? Allora, anche la seta, anche
il cotone, se si potessero ottenere in forma massiccia, sarebbero inflessibili
come il vetro? Enrico mi raccontò che al paese di suo nonno i pescatori
usano prendere i bachi da seta, quando sono già grossi, e, desiderosi di
imbozzolarsi, si sforzano ciechi e goffi di inerpicarsi su per i rami; li prendono,
115 li spezzano in due con le grosse dita, e tirando i tronconi ottengono un filo
di seta, grosso e rozzo, resistentissimo, che usano poi come lenza. Il fatto, a
cui non esitai a credere, mi appariva ad un tempo abominevole ed affascinante:
abominevole per il modo crudele di quella morte, e per il futile uso
di un portento naturale; affascinante per lo spregiudicato e audace atto
120 d’ingegno che esso presupponeva da parte del suo mitico inventore.
UNA PAROLA PER TE
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