6 – NADIA TERRANOVA (Messina, 1978)

Prometeo

INEDITO PER TE

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire»,
ha scritto Italo Calvino. I classici sono storie che attraversano il tempo,
parlando agli adolescenti di ogni epoca – dicono le professoresse e i professori.
Ecco una verità universale, eppure per me a lungo è stata vuota,
5 la capivo con la testa, ma non con il cuore. La capivo come si capiscono i
dogmi.
Almeno fino a un giorno di giugno, alla fine di un anno scolastico come
tanti.
Frequentavo il liceo classico in Sicilia. Il pomeriggio fare versioni significava
10 entrare non solo dentro un’altra lingua, ma dentro un altro mondo,
un’epoca con bizzarre divinità e antichi templi, diversi sistemi etici e politici.
Un’epoca affascinante e lontana, mentre la mia di vita, di qua dalla
cortina di carta, era impegnata in storie di visi giovani e ribellioni cocenti.
Ogni tanto, qualcuno mi faceva notare che il latino e il greco erano lingue
15 morte, studiarle non aveva più senso. Sentivo l’ingiustizia di quella
frase, sapevo che era sbagliata e falsa, ma non avrei saputo dire perché.
Mi tenevo la risposta dentro, insieme a sentimenti che non ero capace di
alfabetizzare.
A fine anno andammo in gita a Siracusa per vedere le tragedie nello
20 stesso luogo dove si erano sempre rappresentate: il teatro greco. Ricordo
di quei giorni: l’albergo sul mare, il pullman sull’autostrada e le curve che
mi fecero dare di stomaco, le notti insonni, gli amori e i primi baci. Il mondo
che sui banchi ci appariva lontano era così vicino che sembrava lo stessimo
costruendo noi con lo sguardo. La fonte Aretusa, i papiri, il tempio
25 di Apollo, ogni luogo veniva a ricordarci che ci trovavamo nella culla della
nostra civiltà. Il mondo classico mi parlava ma ero ancora su un altro
pianeta, la distanza rimpicciolita da un contatto che però restava sempre
museale: eravamo i visitatori esotici del parco giochi dei nostri studi.
Poi, ci sedemmo a teatro. Per un malinteso che oggi chiamo colpo di
30 fortuna, sistemarono alcuni di noi in prima fila. Il cielo era plumbeo, tagliato
da uccelli che si raggruppavano e dividevano secondo disegni in cui
gli indovini del passato avrebbero letto il futuro. Io, invece, quel giorno
incontrai il presente. Aperta da urla disumane, la rappresentazione del
Prometeo incatenato1 ebbe inizio. C’era un uomo, un grande attore, immobilizzato
35 al centro della scena, ma di antico non aveva niente, tutto era
contemporaneo: gridava e si lamentava in una lingua che esplodeva, furibonda
e colloquiale. Eschilo era stato tradotto non solo con amore, ma
con la precisa intenzione di parlare agli spettatori in carne e ossa, in quel
preciso tempo, in quella precisa epoca.

1. Prometeo incatenato: tragedia attribuita al greco Eschilo (525-456 a.C.).