Precondizione culturale

Molte ricerche etnografiche hanno evidenziato che in questa calamità ha avuto un ruolo importante anche una precondizione culturale al disastro, e cioè il totale disinteresse per i saperi ecologici nativi. Tutti i gruppi nativi locali come gli isolani delle Andamane, già protagonisti di una celebre monografia etnografica del 1922 di Alfred R. Radcliffe-Brown (1881-1955), si sono salvati perché da secoli costruiscono i loro villaggi nell’interno e non sulla costa. I Dayak del Borneo, i Lampong di Sumatra, i gruppi Onge delle Piccole Andamane, gli Jerowa, gli Shompens della Grande Nicobare hanno sviluppato una comprensione sensoriale del paesaggio estremamente accurata.
L’antropologo britannico Tim Ingold (n. 1948) è fra i maggiori studiosi contemporanei dei saperi ecologici nativi legati al paesaggio. Nei suoi libri ha evidenziato che il paesaggio non va inteso in modo semplicemente passivo, come fosse un panorama che ci si ferma ad ammirare per la sua bellezza, ma va compreso in modo attivo, come uno spazio di vita i cui elementi diventano patrimonio culturale. Le popolazioni locali colgono perfettamente le pericolosità di certi fenomeni naturali; sanno leggere il paesaggio sin nei più piccoli segnali d’allarme: l’intensità del vento, il colore dell’acqua, il comportamento degli animali. Gli isolani delle Andamane non dispongono di tecnologie né di sistemi di allerta contro gli tsunami. Essi hanno agito secondo natura e non contro natura, conservando la memoria della terra più di quanto non abbiano saputo fare gli esperti. I nativi non hanno dimenticato che abitano in una regione di terremoti e si sono protetti rifugiandosi nella boscaglia non appena hanno capito, interpretando in modo attivo il cambiamento del paesaggio, che quella marea era fuori fase rispetto al ritmo consueto.