T1 Johann Heinrich Pestalozzi
L’insegnamento materno e il linguaggio
Nel brano che segue, tratto dal romanzo Leonardo e Gertrude, Pestalozzi valorizza il ruolo educativo della madre, colta nell’atto di insegnare il linguaggio ai suoi figli, partendo da situazioni concrete, che permettono un’acquisizione spontanea delle parole, all’interno di contesti di vita reali.
Leonardo e Gertrude, in G. Marpillero (a cura di), Scritti scelti di Giovanni Enrico Pestalozzi, Principato, Messina 1934, pp. 147-51
Quanto più Gertrude s’affaticava a sviluppare per tempo nei suoi figli le abilità nel lavoro, tanto meno s’affrettava ad insegnar loro a leggere ed a scrivere, sì invece a parlare correttamente e con precisione […].
All’infuori dell’insegnamento dei suoni e delle semplici parole che ne derivano, ella non pronunciava nessuna parola dinanzi ai figli con la pura ed unilaterale intenzione d’insegnar a parlare, ancora meno con l’intenzione di far acquistare loro delle cognizioni, insegnando loro a parlare; e non si preoccupava affatto d’insegnare i nomi degli oggetti, che essi già conoscevano, come vera e propria materia di studio e di farglieli pervenire alle loro orecchie. Ella parlava con i figliuoli sopra gli oggetti da loro conosciuti solo ed esclusivamente per contribuire a far loro conoscere, anche per mezzo del linguaggio, il fatto della vita, le impressioni prodotte dalle intuizioni e le conseguenze delle loro esperienze nei riguardi di questi oggetti secondo i loro rapporti con essi1.
Guidata da questo criterio, ella, nei riguardi del linguaggio, non usava il linguaggio dell’insegnamento della madre che insegna, ella non diceva mai al suo figliuolo: «Bimbo, questa è la tua testa, questo è il tuo naso, questa è la tua mano, questo è il tuo dito» ecc. […]. Al contrario usava il linguaggio proprio di chi ha cura di altri, il linguaggio della madre amorevole e diceva spinta dal bisogno del figlio e vivendo l’atto stesso delle sue cure: «Vieni, bambino, voglio lavarti le manine; voglio pettinarti i capelli; voglio tagliarti le unghie; pulisciti il naso; non tenere curvo il capo».
Ogni parola che essa pronunciava con il suo bambino era in intimo nesso con la verità della sua vita e del suo ambiente e sotto questo riguardo era lo spirito e la vita stessi. L’insegnamento della lingua scompariva quasi nello spirito e nella vita della sua reale attività, da cui l’insegnamento procedeva ed a cui ritornava. […]
Ella donava ai figli tutto quello che essa sapeva, aveva e poteva fare. Nella sua povertà questo era assai poco, ma anche le minime e le più lievi cose che essa dava loro, erano grandi ed educative, per il modo, per l’intima forza, per l’amore, con cui essa le donava. Ogni singola parola del suo insegnamento, in quanto procedeva, per così dire, dal complesso della sua vita, intimamente fusa con la vita dei suoi figli, non compariva come una singola parola, ma come una qualche cosa che, procedendo dal complesso del suo essere e dei suoi rapporti materni, per mezzo della intima unione in cui vivevano tra loro, era insita in loro già in germe e, per così dire, in precedenza2.
1. Pestalozzi sottolinea il carattere spontaneo degli insegnamenti materni, che non partono da un’intenzionale volontà di far apprendere ai figli delle parole specifiche, ma sfruttano l’intuizione che deriva dalla relazione diretta con gli oggetti, si attengono al naturale svolgimento della quotidianità, dalla quale tutto si apprende in modo naturale e spontaneo.
2. Il muovere dalle situazioni concrete consente alla madre di insegnare la lingua ai bambini passando attraverso azioni e attività concrete, che rimangono profondamente impresse nella mente del figlio, come se ne avesse già una conoscenza “in potenza” e questo anche in virtù del legame speciale che unisce il fanciullo alla madre e che rende ogni apprendimento semplice e immediato oltre che estremamente efficace.