Una lode drammatica
Si tratta, dunque, di un sonetto di lode della donna, sul modello di quello di Guinizzelli, Io voglio del ver la mia donna laudare (vedi T14, p. 129). Tuttavia, rispetto alle lodi alla maniera guinizzelliana, qui troviamo alcuni elementi peculiari della produzione di Cavalcanti.
Si consideri a tale proposito la quartina iniziale, nella quale c’è tutta la drammaticità propria di Cavalcanti, con lo sbigottimento di fronte all’apparire della bellezza: l’interrogativa che esprime lo stupore del poeta; l’aria che quasi rabbrividisce nella sua luminosità; l’afasia (cioè l’incapacità di pronunciare parole o anche solo emettere suoni) degli uomini che sospirano di fronte a una tale apparizione. È come se anche nei suoi componimenti di lode si facessero presagire quell’angoscia e quel tormento che dominano altri testi di Cavalcanti (Voi che per li occhi mi passaste ’l core, vedi T16, p. 136). Caratteristica dell’autore è anche l’idea che la bellezza femminile alla quale il poeta anela sia una realtà che supera i limiti della condizione umana, generando così frustrazione e sofferenza.