Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose ’n noi tanta salute,
14 che propiamente n’aviàn canoscenza.

12-14 La capacità intellettiva degli esseri umani (la mente nostra) non fu mai (già) così elevata e in noi non ha albergato (si pose) una così grande perfezione spirituale (tanta salute), da riuscire ad averne completamente (propiamente) conoscenza.


13 salute: o, anche, grazia divina.
14 aviàn: abbiamo.

Dentro il TESTO

I temi

Un’apparizione miracolosa
Il testo inizia con una domanda retorica, per introdurre l’apparizione di una donna che è a dir poco straordinaria. Ha uno sguardo soave ed è dotata di notevole umiltà e bellezza. È una creatura in cui le qualità positive si manifestano a un tale livello di perfezione che gli esseri umani non sono in grado di apprezzarle appieno. Tipicamente stilnovistico è il motivo dell’umiltà della donna (Dante, nel sonetto più celebre della Vita nuova, Tanto gentile e tanto onesta pare, descriverà Beatrice come «benignamente d’umiltà vestuta»): per gli Stilnovisti umiltà significa – insieme – soavità, mitezza, compostezza, pudore.

Una lode drammatica
Si tratta, dunque, di un sonetto di lode della donna, sul modello di quello di Guinizzelli, Io voglio del ver la mia donna laudare (vedi T14, p. 129). Tuttavia, rispetto alle lodi alla maniera guinizzelliana, qui troviamo alcuni elementi peculiari della produzione di Cavalcanti.
Si consideri a tale proposito la quartina iniziale, nella quale c’è tutta la drammaticità propria di Cavalcanti, con lo sbigottimento di fronte all’apparire della bellezza: l’interrogativa che esprime lo stupore del poeta; l’aria che quasi rabbrividisce nella sua luminosità; l’afasia (cioè l’incapacità di pronunciare parole o anche solo emettere suoni) degli uomini che sospirano di fronte a una tale apparizione. È come se anche nei suoi componimenti di lode si facessero presagire quell’angoscia e quel tormento che dominano altri testi di Cavalcanti (Voi che per li occhi mi passaste ’l core, vedi T16, p. 136). Caratteristica dell’autore è anche l’idea che la bellezza femminile alla quale il poeta anela sia una realtà che supera i limiti della condizione umana, generando così frustrazione e sofferenza.

Lo stile

L’accumulo delle negazioni
Per rendere il motivo dell’inafferrabilità e dell’ineffabilità (o indicibilità) delle qualità della donna, l’autore ha introdotto nel testo una serie di negazioni (notiamo che entrambe le terzine si aprono con un Non): null’omo (v. 4); nol savria contare (v. 6); Non si poria contar (v. 9); Non fu (v. 12); non si pose (v. 13). In due casi (v. 6 e v. 9) l’avverbio di negazione non si accompagna al verbo contare, cioè “raccontare”, “spiegare”, proprio a sottolineare ulteriormente l’impossibilità di descrivere l’amata. Questa enunciazione di una poetica dell’ineffabile allontana nettamente Cavalcanti da Guinizzelli e lo avvicina invece a Dante.

Un modello biblico: il Cantico dei Cantici
L’adesione all’averroismo, evidentemente, non impediva a Cavalcanti di conoscere, come tutte le persone di buona cultura a quel tempo, la Bibbia, la cui lettura era parte fondante di qualsiasi percorso di formazione: una conoscenza messa a frutto nel momento della scrittura letteraria.