Fra tradizione e modernità

A questo punto, può sorgere una domanda: se il fine del singolo è ottenere il successo e la ricchezza, se la logica del denaro prevale su ogni aspetto trascendente, bisogna considerare ormai superati la cortesia e il codice del comportamento cavalleresco? L’intellettuale che cantava l’onore, la gloria, la lealtà, ma soprattutto la gentilezza d’animo, la liberalità e la magnanimità, celebrava quelle virtù civili proprio in quanto egli stesso era espressione di una nobiltà feudale, che poteva permettersi di essere liberale senza compromettere la propria ricchezza, di notevole entità e soprattutto sicura poiché proveniva dalla rendita terriera. Il mercante, al contrario, conquista la propria posizione sociale ed economica con il lavoro e il rischio personale. Il disinteresse cortese, vale a dire la noncuranza (o addirittura il disprezzo) per i beni materiali, non è più possibile. Al suo posto subentra invece un valore nuovo: la “masserizia”, vale a dire l’amministrazione oculata del proprio capitale, la capacità di risparmiare, il calcolo avveduto che evita ogni sperpero.
Ma tale nuova disposizione non comporta affatto la rinuncia ai bei costumi e ai valori cortesi in auge nelle corti feudali. Anzi, come si vede nelle novelle di Boccaccio, proprio il materialismo imperante induce talvolta a una nostalgica riproposizione di quell’«onesto e virtuoso operare» insidiato dalla cinica realtà quotidiana e dal prevalere del gretto utilitarismo. In tal modo, anche la classe borghese-mercantile può celebrare la generosità e la nobiltà d’animo, pur senza rinunciare alle finalità pratiche del proprio agire sociale.

La logica del successo e della ricchezza non comporta l’abbandono dei valori cortesi, ora volti a celebrare la borghesia.