L’ingegno
Il critico Umberto Bosco ha definito il Decameron come «poema dell’intelligenza». L’opera si configura infatti come una grande esaltazione dell’intelligenza degli uomini, quella che Boccaccio chiama «ingegno» (o anche «industria») e che contempla una serie molto varia di sfumature: dalla semplice capacità di penetrazione del reale e di adattamento alle diverse circostanze, in modo da volgere le situazioni a proprio favore (come nel caso di Andreuccio da Perugia, II, 5, vedi T7, p. 463, o di Masetto da Lamporecchio, III, 1), all’astuzia del furfante più disonesto (come avviene con ser Ciappelletto, I, 1, vedi T6, p. 452).
Il tema dell’intelligenza è sviluppato soprattutto nella seconda metà dell’opera: nella Sesta giornata, dedicata ai motti di spirito (Chichibio, VI, 4, vedi T12, p. 495, e Guido Cavalcanti, VI, 9, vedi T14, p. 501), nella Settima, con le beffe delle donne ai mariti (Tofano e monna Ghita, VII, 4, vedi T15, p. 503), e nell’Ottava, con le beffe in generale.
Se il valore dell’intelligenza è da Boccaccio così apprezzato, altrettanto criticato è il disvalore della dabbenaggine e della stoltezza. Lo scrittore non nasconde la propria simpatia per i personaggi che manifestano finezza, ingegno e persino astuzia diabolica, magari a scapito degli stolti e dei creduloni (come lo sciocco Calandrino, vittima in tre diverse novelle di altrettante beffe: vedi per esempio la VIII, 3, vedi T16, p. 505 e la IX, 3).
Boccaccio esalta l'intelligenza degli uomini, che può manifestarsi come capacità di adattamento o anche come astuzia disonesta.
Criticata è invece la stoltezza.