Per questa sua posizione l’autore – prima ancora che il Decameron sia completato, quando probabilmente circolano già alcune delle novelle – è accusato di immoralità e oscenità. Boccaccio si difende nell’Introduzione alla Quarta giornata attraverso una «novelletta», la cosiddetta “novella delle papere” (vedi T8, p. 472), contenuta nella stessa Introduzione (e che potremmo considerare la centunesima novella del Decameron): si tratta di un piccolo manifesto della visione laica e naturalistica del sentimento amoroso, compresa la concreta espressione della sessualità, tipica di Boccaccio.

Miniatura tratta da un codice del Decameron del XV secolo, che raffigura la novella di Calandrino e l’elitropia. L'immagine è suddivisa in due scene principali: a sinistra, Calandrino e altre figure cercano pietre in un paesaggio naturale vicino a un fiume, con colline e alberi sullo sfondo. A destra, la scena è ambientata in un edificio con arcate, dove Calandrino viene maltrattato da altre persone. Il testo circostante è decorato con iniziali miniate riccamente colorate e motivi floreali lungo i margini.
Miniatura raffigurante la novella Calandrino e l’elitropia, in un codice del Decameron, XV secolo. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
L’ingegno

Il critico Umberto Bosco ha definito il Decameron come «poema dell’intelligenza». L’opera si configura infatti come una grande esaltazione dell’intelligenza degli uomini, quella che Boccaccio chiama «ingegno» (o anche «industria») e che contempla una serie molto varia di sfumature: dalla semplice capacità di penetrazione del reale e di adattamento alle diverse circostanze, in modo da volgere le situazioni a proprio favore (come nel caso di Andreuccio da Perugia, II, 5, vedi T7, p. 463, o di Masetto da Lamporecchio, III, 1), all’astuzia del furfante più disonesto (come avviene con ser Ciappelletto, I, 1, vedi T6, p. 452).
Il tema dell’intelligenza è sviluppato soprattutto nella seconda metà dell’opera: nella Sesta giornata, dedicata ai motti di spirito (Chichibio, VI, 4, vedi T12, p. 495, e Guido Cavalcanti, VI, 9, vedi T14, p. 501), nella Settima, con le beffe delle donne ai mariti (Tofano e monna Ghita, VII, 4, vedi T15, p. 503), e nell’Ottava, con le beffe in generale.
Se il valore dell’intelligenza è da Boccaccio così apprezzato, altrettanto criticato è il disvalore della dabbenaggine e della stoltezza. Lo scrittore non nasconde la propria simpatia per i personaggi che manifestano finezza, ingegno e persino astuzia diabolica, magari a scapito degli stolti e dei creduloni (come lo sciocco Calandrino, vittima in tre diverse novelle di altrettante beffe: vedi per esempio la VIII, 3, vedi T16, p. 505 e la IX, 3).

Boccaccio esalta l'intelligenza degli uomini, che può manifestarsi come capacità di adattamento o anche come astuzia disonesta.
Criticata è invece la stoltezza.

L’ESALTAZIONE DELLE QUALITÀ UMANE

Il relativismo etico

Nell’intreccio dei diversi temi, ciò che colpisce è l’inno che Boccaccio innalza all’essere umano, al suo «ingegno», alle sue capacità intellettuali e pratiche, alla sua iniziativa personale e alle sue doti creative, in grado di salvarlo da qualunque insidia che la fortuna e l’amore possono riservare. Viene meno, da parte dell’autore, un criterio organico e universale per giudicare sul piano morale la condotta individuale: Boccaccio ritiene superate le impalcature ideologiche e filosofiche presenti nella mentalità medievale (quella dantesca, per esempio) e si astiene pertanto dall’emettere sentenze di natura etica, volgendosi invece a una forma di relativismo, secondo il quale ogni azione può essere condannata o giustificata a seconda delle circostanze.

Nel Decameron i comportamenti individuali sono condannati o giustificati in base alle circostanze.