Tale richiamo sacro viene però subito stemperato dal legame trasparente che il sottotitolo intreccia con il canto V dell’Inferno dantesco, quello in cui troviamo la vicenda amorosa di Paolo e Francesca, favorita dal libro “Galeotto” (così chiamato per metonimia dal nome del personaggio della Tavola Rotonda che, nel romanzo cortese, incoraggia l’amore di Lancillotto e Ginevra). Quest’ambito mondano evoca, in apertura, il mondo della cavalleria e le suggestioni legate al sentimento e alla passione: quello di Boccaccio sarà, appunto, il libro “galeotto”, da leggere con diletto come un complice segreto o una sorta di sorridente intermediario dell’amore.
Il pubblico e la finalità dell’opera
Alle indicazioni liminari di titolo e sottotitolo si lega il contenuto del Proemio vero e proprio, nel quale l’autore identifica il proprio pubblico nelle oziose donne innamorate e afferma la finalità consolatoria ed edonistica dell’opera. Si tratta quasi di un obbligo morale (Umana cosa è aver compassione degli afflitti, r. 3), specie per chi come lui ha ricevuto in passato solidarietà nelle pene vissute a causa della passione amorosa e sente quindi il dovere di restituirla con parole e gesti di conforto.
Destinatarie della sua compassione saranno inevitabilmente soprattutto le donne, dipinte come vittime privilegiate dell’amore. Mentre gli uomini hanno maggiori possibilità per allontanare la malinconia o gravezza di pensieri (r. 49), esse infatti sono condannate a soffrire maggiormente dal pudore, dalle convenzioni sociali e dalla loro esistenza più riservata. Per questa ragione, l’autore si prefissa l’obiettivo di portare giovamento alla loro condizione, aiutandole a svagarsi e a liberarsi dalla noia e dalla ripetitività di una vita casalinga, trascorsa il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse (rr. 41-42). Le cento novelle che comporranno il libro avranno proprio il compito di rimediare al peccato della fortuna (r. 56), che sembra accanirsi sulle creature più vulnerabili psicologicamente. Esse dovranno consolare e insegnare, arrecando al tempo stesso diletto (r. 65) e utile consiglio (r. 66).
La codificazione del racconto
Questa duplice funzione di intrattenimento e ammaestramento è possibile grazie alla pluralità di soluzioni con le quali si articola il racconto, che può presentarsi con argomenti diversi, ma anche con differenti funzioni e strutture. Non a caso, accanto alla dichiarazione di intenti, Boccaccio propone in queste pagine proemiali una meditata riflessione sulla natura della narrazione e sulle sue specifiche denominazioni.
Egli distingue infatti tra favole, parabole e istorie (r. 60), ossia, rispettivamente, tra creazioni fittizie e fantasiose, narrazioni dall’evidente contenuto morale o allegorico e novelle basate su eventi effettivamente accaduti, collocati all’interno di uno sfondo storico realistico. In questa codificazione teoretica si coglie la molteplicità delle tradizioni con le quali il Decameron fa i conti: gli exempla della predicazione cristiana, le narrazioni brevi dei trovatori provenzali (si pensi alle vidas e alle razos), i fabliaux francesi dal contenuto spesso e volentieri licenzioso, la varia aneddotica medievale ecc. Si tratta di fonti e materiali sterminati che Boccaccio, grazie a una complessa commistione di modelli, rielabora e trasforma per descrivere – nel suo libro infinito – l’infinita, multiforme realtà dell’esistenza umana.
Lo stile
Una scrittura sostenuta
Basta leggere i primi periodi del Proemio per capire che rivolgersi a un pubblico di non specialisti (per quanto socialmente e culturalmente elevato) non significa per Boccaccio adottare soluzioni formali popolaresche. Come prevedevano le regole della retorica, l’apertura è solenne, si sviluppa in una forma sentenziosa e proverbiale, a mo’ di esergo (Umana cosa è aver compassione degli afflitti, r. 3) e, benché non presenti la classica invocazione alla divinità per ricevere aiuto e ispirazione, come invece accadeva nei poemi greci e romani, l’autore non evita di chiamare in causa Dio e la sua infinità (r. 69) per spiegare la caducità di ogni passione terrena (compresa la propria).