La conclusione del narratore
Il narratore della novella, Panfilo, la conclude con una riflessione sulle ragioni del successo di san Ciappelletto. Il morto è ritenuto ormai da tutti un santo, tanto che viene sepolto con grandi onori nella chiesa del convento dei frati; anzi, pare addirittura che molti fedeli ottengano da lui le grazie desiderate.
È un epilogo paradossale, a proposito del quale Panfilo formula due ipotesi: o Ciappelletto alla fine si è veramente pentito, ed è stato quindi accolto da Dio in Paradiso, oppure – e Panfilo sembra propendere per questa idea – è finito all’Inferno. In quest’ultimo caso il fatto che vengano esaudite le preghiere di chi si rivolge a Dio per il tramite di un dannato creduto santo starebbe a testimoniare la grandezza di Dio, il quale è più attento alla bontà di cuore di chi lo prega che non all’effettiva santità di coloro che il popolo dei fedeli elegge a propri mediatori.
Da un punto di vista teologico questo paradosso risulta però tutto sommato corretto: così si spiega per esempio la tolleranza della Chiesa del tempo verso i frequenti abusi tipici di certa devozione popolare. Soltanto con il Concilio di Trento (1545-1563) si stabiliranno regole più rigide per le canonizzazioni.
La controversa posizione dell’autore
La critica ha molto discusso su quale debba essere considerata la posizione di Boccaccio rispetto al contenuto di questa novella.
Per alcuni lettori (a partire da Francesco De Sanctis) essa testimonia nell’autore la presenza di uno spirito irreligioso e anticlericale, come se egli avesse voluto irridere la semplicità e l’eccessiva buona fede dei confessori, oltre che la credulità popolare (ma – va notato – non traspare nel testo alcun senso di derisione nei confronti della figura del frate confessore).
Per altri (per esempio Benedetto Croce) Boccaccio appare invece semplicemente ammirato dall’intelligenza umana, anche in una manifestazione a dir poco estrema come quella offerta da Ciappelletto: all’autore non starebbe qui a cuore il problema dell’esistenza o della non esistenza di Dio o quello dell’adeguatezza dei suoi ministri, quanto la celebrazione di un individuo d’eccezione (Ciappelletto, appunto) capace di imbrogliare i propri simili in maniera così estrosa; sarebbe, insomma, un’esaltazione dell’intelligenza.
Altri studiosi ancora (come Vittore Branca) sostengono, al contrario, che lo scrittore, lungi dall’esaltare Ciappelletto, provi quasi una sorta di sgomento di fronte alla logica mercantile (quella del profitto e dell’interesse economico) portata alle estreme conseguenze: in nome della «ragion di mercatura» si può giungere a compiere le peggiori nefandezze; così l’autore, con questa novella, sembra prendere le distanze dagli aspetti più brutti e ambigui e in definitiva disumani di quell’etica commerciale.
Lo stile
L’abilità teatrale della confessione
Il ritmo narrativo della novella è serrato, ma la parte più efficace è quella relativa alla confessione di Ciappelletto. La confessione è resa efficacemente attraverso una scena (cioè, qui, un dialogo tra i due personaggi nel quale il tempo del discorso coincide con il tempo della storia).
Il sacerdote esamina Ciappelletto su quasi tutti i sette vizi capitali della tradizione classica e cristiana (lussuria, gola, avarizia, ira, invidia) ed egli, agli occhi del frate, riesce tutte le volte a ribaltare ogni vizio nella corrispondente virtù, secondo la tecnica del rovesciamento parodico, sviluppata attraverso la figura dell’antifrasi.
L’effetto comico è massimo agli occhi del lettore, che conosce l’autentico carattere del personaggio grazie al ritratto che ne ha dato in precedenza Boccaccio, come anche si divertono – e insieme si meravigliano di fronte a tanta spudoratezza (ma poi decidono di acconsentirvi a proprio vantaggio) – i due fratelli usurai, che conoscono nei dettagli le abitudini di vita del loro ospite.